Avrei
voluto evitare questo sottotitolo, sostituendo al termine “invito”, dal
sospetto sapore démodé, il più
neutrale “introduzione”. Ma così facendo avrei finito per dissimulare, almeno
in parte, le mie vere intenzioni. Perché il mio pezzo vuole essere,
almeno implicitamente, anche un invito.
O quantomeno un suggerimento, rivolto ai tanti che ancora non lo conoscono, a
riscoprire questo piccolo capolavoro di Claudio Monteverdi: Il Combattimento di Tancredi e Clorinda,
vecchio ormai di quasi quattro secoli, eppure, chi lo intenda, ancora fresco e
palpitante di commozione. Si tratta di un testo poetico, tratto dal libro XII
della Gerusalemme liberata di
Torquato Tasso, di cui il musicista cremonese mette in musica – con adeguato
accompagnamento strumentale – le ottave (strofe o stanze) dalla LII alla
LXVIII, con l’esclusione della LXIII. Un episodio, quello scelto da Monteverdi,
all’epoca universalmente noto, e non solo in Italia, per il suo insuperabile
carattere patetico.
Per
un musicista, scegliere di intervenire su un testo già perfetto in se stesso,
con i caratteri del capolavoro, è un rischio non indifferente. Perché la
composizione deve presentarsi davanti a un pubblico che già ne conosce il
valore poetico, fa inevitabili confronti, ed esige che la resa musicale non sia
inferiore alla poesia. Ma Monteverdi non si lascia intimidire. Perché?
È
quanto – tra l’altro – cercherò di spiegare nel seguito dell’articolo. Sul piano tecnico, infatti, la mia è propriamente
un’introduzione. Nel senso che, più che un’analisi della composizione, intendo
presentare i preliminari, le preconoscenze ‘contestuali’ indispensabili a una
comprensione piena e autentica, prescindendo, per quanto possibile, da nozioni
di tecnica squisitamente musicale. Presentazione che non dovrebbe dispiacere,
almeno a chi intende l’opera d’arte come segno,
comunicazione intenzionale di un uomo che parla ad altri uomini, e non sintomo, indizio interpretabile, sì, ma assolutamente anintenzionale, come sarebbe – poniamo – la forma d’una nuvola.
Proprio
per questo partirei dalle convinzioni poetiche dell’autore, dalle sue ‘intenzioni’ dichiarate, e dalle ragioni
della scelta. Non mi esimerò da qualche osservazione tecnica sulle scelte
propriamente musicali, ma lo farò con discrezione, lasciando al lettore –
all’ascoltatore – il piacere della scoperta e del godimento estetico.
Dichiarazioni programmatiche
dell’autore
Il
lavoro oggetto di questo articolo era, ai suoi tempi, un’opera autenticamente
rivoluzionaria. Il suo autore, Claudio Monteverdi, ne era pienamente
consapevole, e proprio per questo ha ritenuto necessario chiarire le sue
premesse poetiche, le intenzioni e le ragioni delle sue scelte, e ha giudicato
opportuno dare precise istruzioni sulle modalità d’esecuzione.
Lo
ha fatto principalmente in due testi programmatici.
Il
primo è l’introduzione a quell’ottavo libro dei Madrigali, in cui ha voluto inserire il suo Combattimento, e che significativamente intitola Madrigali guerrieri et amorosi con alcuni
opuscoli in genere rappresentativo che saranno per brevi episodi fra i canti
senza gesto. In esso svolge alcune interessanti considerazioni di poetica.
Punto di partenza è la convinzione, comune ai suoi contemporanei, che il “fine”
della “bona musica” sia quello di “movere”, suscitare, “affetti”, cioè
sentimenti, passioni, stati d’animo. Spiega, quindi, molto schematicamente, che
le passioni principali, suscettibili d’essere rappresentate e “mosse” dalla
musica, sono tre – ira, temperanza e umiltà (o “supplicazione”) – a cui fa
corrispondere tre voci (alta, mezzana e bassa), e tre modi o stili musicali:
concitato, temperato e molle. Osserva, peraltro, che i musicisti hanno da tempo
dato prova degli stili temperato e molle, ma finora nessuno si era avventurato
nello stile concitato, benché già noto agli antichi filosofi, e dunque…
legittimo. A riprova, Monteverdi, in un commovente tentativo di
autolegittimazione, cita nella traduzione latina di Marsilio Ficino, – lui, non
meno di Leonardo homo sanza lettere –
un passo di Platone: Sed suscipe harmoniam illam quae ut decet
imitatur fortiter euntis…(da completare con: in proelium et ad quodlibet negotium violentum viriliter se gerentis
voces atque accentus…). Il buon Claudio, homo sanza lettere, lo attribuisce a una inesistente Rhetorica di Platone. In realtà, il
passo è tratto dal terzo libro del De
Republica. Socrate, discutendo delle forme d’arte musicale da ammettere
nello Stato ideale, comincia con l’escluderne i “modi”, le “scale” (harmonias) atti a suscitare tristezza e
malinconia. Poi ne bandisce quelli responsabili di fomentare l’inclinazione
all’ubriachezza, alla mollezza e alla pigrizia... Be’, a questo punto – obietta
il musicista Glaucone – non c’è più molto da scegliere: non restano che il modo
dorico e il frigio! Io non me ne intendo – risponde Socrate – “ma accogli quel
modo, quella scala, che imita come si deve le voci e gli accenti di chi si
avvia valorosamente alla battaglia, e a una qualunque prova di forza,
comportandosi da uomo”. Ecco chiarito che cosa intende Monteverdi per stile
concitato: il genere di musica atto a rappresentare “le voci e gli accenti” di
chi alle situazioni critiche risponde con coraggio ed energia e, se
occorra, con autentico eroismo. Un genere di musica che egli interpreta
principalmente sul piano ritmico, assegnandogli come elemento caratterizzante
il pirrichio. Nella poesia greco-latina il pirrichio costituiva l’unità ritmica
minimale, formata da due sillabe brevi, e derivava il suo nome dalla pirrica,
una danza guerresca, naturalmente concitata.
Monteverdi fa corrispondere al pirrichio (o più probabilmente al valore
‘breve’ in esso ripetuto) la semicroma; mentre il suo contrario sarebbe lo
spondeo – unità ritmica classica formata da due lunghe (per convenzione, una
lunga era considerata equivalente a due brevi), che egli, a quanto sembra, fa
corrispondere alla moderna semibreve.
Ragioni di una scelta
Monteverdi
è convinto che la soluzione da lui escogitata (la rapida ripetizione della
stessa nota, l’effetto oggi noto come tremolo)
funzioni, nonostante la difficoltà della voce a tener dietro agli strumenti. E,
“per venire a maggior prova” – dice – “diedi di piglio “al divin Tasso”,
scegliendo l’episodio del Combattimento
di Tancredi et Clorinda, per l’opportunità di mettere in canto le due
“passioni contrarie”, cioè “guerra” e “preghiera et morte”, dato che “gli
contrari sono quelli che movono grandemente l’animo nostro”. Ha modo, così, con
questa prova superlativa (confrontarsi col “divin Tasso” non era cosa da
prendere alla leggera!) di superare la diffidenza degli scettici, a cominciare
dai suoi stessi esecutori. All’inizio, infatti, gli strumentisti, in
particolare il “continuo”, si rifiutavano di seguirne le istruzioni, considerando
ridicolo ribattere sedici volte per battuta la stessa nota; pretendevano di
tener ferma la nota per l’intera battuta, e così – dice lo spazientito autore –
“levavano la similitudine all’oratione concitata” [oratione= testo poetico]. Ma l’effetto prodotto sul pubblico
costrinse a ricredersi anche i più scettici.
Monteverdi,
dunque, pur nella sua innata modestia, si arrischia a musicare uno dei più noti
episodi della Liberata, perché quel
testo gli dà occasione di intervenire su due sentimenti la cui intensità
risulta accresciuta dalla loro natura contrastante. E soprattutto gli offre
l’opportunità di testare i frutti di una indefessa ricerca di nuovi mezzi
espressivi, quella ricerca che è un dato costante dell’attività del musicista
cremonese. (Anche in questo, e non solo per la riconosciuta carenza di
istruzione letteraria regolare, richiama l’infaticabile sperimentatore
vinciano!). E i risultati di quell’impegno durato una vita confluiranno via via
nei suoi melodrammi, specialmente in quel capolavoro supremo che è L’incoronazione di Poppea.
Prefazione al Combattimento: istruzioni agli esecutori
Il secondo scritto è dedicato a minuziose
istruzioni agli esecutori. Ne riporterò alcuni passi, riprendendo il testo dalla
trascrizione di Gianfrancesco Malipiero, e rispettando la lingua e la ballerina
ortografia dell’epoca (e di Monteverdi in particolare!), per restituire al
lettore quel tanto di “color locale”[1].
Il
primo capoverso apre, per noi, il problema della natura della composizione, o
del genere musicale:
“Combattimento in musica di Tancredi et
Clorinda, descritti dal Tasso; il quale volendosi
esser fatto in genere rappresentativo si farà entrare alla sprovista (dopo
cantatosi alcuni madrigali senza gesto) de la parte de la Camera in cui si farà
la musica, Clorinda a piedi armata, seguita da Tancredi armato sopra ad un
cavallo Mariano, et il Testo allora comincerà il canto”.
Sembra
che Monteverdi preveda il “genere rappresentativo” come opzione, almeno se il
gerundio “volendosi” è da intendere, come io credo, con valore condizionale
(“se si vuole”) e non causale (“dato che si vuole”). Del resto, è una
consuetudine monteverdiana suggerire più che prescrivere, limitandosi a
ricordare i modi seguiti nella prima esecuzione, avvalorati dal successo ottenuto.
Il Combattimento può, dunque, essere
rappresentato come un’azione teatrale – con controfigure dei due protagonisti
intente a mimare i gesti descritti dal testo[2]
- preceduta da un ‘preludio’ di madrigali “senza gesto”, senza rappresentazione
mimica. L’esecuzione vocale è assegnata a tre interpreti distinti: i due
personaggi, e il Testo, cioè il narratore, la voce del poeta. Va dunque inteso
come un piccolo melodramma? Se sì, dobbiamo rassegnarci a considerarlo “unico
nel suo genere”, tante sono le differenze che lo distinguono dal melodramma
quale si andava costituendo proprio in quegli anni, per mano, tra gli altri,
dello stesso Monteverdi. Qualcuno (come Roncaglia) lo definisce “scena
drammatica” (e forse, nella sua genericità, è la definizione più appropriata) e
l’avvicina a un “piccolo oratorio”. Più interessante mi sembra la tesi di Jànos
Malina. Sulla base di varie considerazioni (carattere drammatico, somiglianza
col mimo, importanza assegnata agli strumenti, ecc.) lo studioso ungherese
giunge a vederci un precocissimo esempio di Gesamtkunstwerk,
che avrebbe precorso di oltre due secoli gli esempi wagneriani. Monteverdi
avrebbe consapevolmente tentato l’impresa di “combinare tutti gli strumenti di
espressione disponibili per metterli al servizio della rappresentazione
scenica”. Una prova della correttezza dell’intuizione maliniana sembra a me di
vederla in un passo dell’accennata prefazione (lo riporterò tra poco) che
stranamente Malina – che pure lo conosceva – non si cura di citare.
Troviamo,
poi, una serie di precise istruzioni agli esecutori, tutte intese a inculcare,
come principio direttivo, il primato della poesia. Erede geniale delle dotte
conquiste della Camerata fiorentina, Monteverdi era convinto, almeno in teoria,
del ruolo prioritario dell’ “oratione”,
cioè del testo poetico. La musica è al servizio della poesia. Perciò gli
interpreti “faranno gli passi et gesti nel
modo che l’oratione esprime, et nulla
di più né di meno (!), osservando questi diligentemente gli tempi, colpi et
passi, et gli ustrimentisti gli suoni
incitati et molli [secondo gli “affetti” espressi appunto dal testo
poetico]; et il Testo le parole a tempo pronuntiate, in maniera che le creationi venghino ad incontrarsi in una imitatione
unita [Gesamtkunstwerk!];
Clorinda parlerà quando gli toccherà, tacendo il Testo; così Testo”. E per gli
strumenti viene ribadita ancora una volta la necessità di uniformarsi al
carattere della poesia. E ancora: “la voce del Testo doverà essere chiara, ferma et di bona pronuntia”
(quanti tenori e soprani di oggi farebbero bene a meditare queste parole!). “ Non doverà far gorghe né trilli in altro
loco che solamente nel canto de la Stanza che incomincia Notte; il rimanente
porterrà le pronuntie a similitudine delle passioni del’oratione”.
Su
che cosa siano le “gorghe” penso di
dilungarmi in un articolo successivo. Per ora basti dire che la parola si
riferisce all’uso dei divi dell’epoca di suddividere note lunghe in un numero
più o meno grande di note minori (di durata complessivamente equivalente)
scelte con arte più o meno raffinata (vedi illustrazione). Lo scopo dichiarato
era quello di “abbellire” la partitura. In realtà dava al cantante
l’opportunità di fare sfoggio virtuosistico delle proprie abilità vocali. L’exploit mandava in visibilio quella
parte di pubblico che non distingue una sala da concerto da una pista circense
(sia detto con tutto il rispetto per i virtuosi del circo), ma soprattutto
gonfiava d’orgoglio (e di soldi!) l’esecutore. Per questo genere di artisti,
ovviamente, testo poetico e partitura erano nulla più che “pretesti”, materiale
bruto da adattare ai propri scopi. Ecco perché il compositore, a cui troppo sta
a cuore la propria arte, mette le mani avanti, in modo da salvaguardare il
rispetto della poesia e, conseguentemente, della sua musica. Naturalmente
Claudio è “uomo di mondo” e qualche concessione la fa: riservi, il cantante,
gorghe e trilli alla strofa che meglio può accoglierli, per il suo carattere
eminentemente lirico; quella strofa dove anche la sua musica assume il
‘monteverdiano’ carattere “arioso”.
Infine,
allo scopo di incoraggiare gli esecutori a seguire fedelmente le sue
istruzioni, il musicista ricorda compiaciuto il successo ottenuto dall’opera al
momento della “prima”, tenutasi nel 1624 a Venezia, in casa di Girolamo
Mocenigo, suo “particolar signore”, alla presenza di tutta la colta nobiltà del
luogo. La quale “restò mossa dall’affetto
di compassione in maniera, che quasi fu per gettar lacrime; et ne diede
applauso per essere stato canto di genere non più visto né udito”.
La poesia del Tasso e le modifiche del musicista
I
versi del Tasso sono ben noti, e comunque facilmente reperibili. Evito, quindi,
di riportarli, limitandomi a contestualizzarli e a segnalare qualche modifica
apportata dal compositore.
Siamo
nell’ultimo anno di guerra della I Crociata (1096-1099). I crociati assediano i
‘pagani’, i mussulmani rinchiusi dentro Gerusalemme. Due guerrieri pagani,
Argante e Clorinda, fanno una sortita notturna nel campo cristiano per incendiare
una gigantesca torre mobile di legno rivelatasi pericolosissima per gli
assediati. L’impresa riesce, ma i due devono precipitarsi indietro per sfuggire
alle schiere dei cristiani allarmati e bramosi di vendetta. Le porte vengono
frettolosamente chiuse alle spalle di Argante. Nessuno si accorge che Clorinda,
impegnata a punire Arimone che l’aveva colpita, è rimasta fuori. Vistasi
perduta, l’eroina tenta di allontanarsi confusa tra i guerrieri cristiani. Ma
qualcuno l’ha notata. È Tancredi, l’eroe cristiano che ne è disperatamente
innamorato. Naturalmente non la riconosce: ha solo osservato uno strano
guerriero rivestito d’armi brune nell’atto di uccidere Arimone e l’ha seguito.
“Vuol ne l’armi provarla: un uom la stima
/ degno a cui sua virtù si paragone” scrive Tasso al principio della LII
ottava. E qui comincia la composizione di Monteverdi. Che però ha la necessità
di enunciare il soggetto, non più ricavabile dalle strofe soppresse. Ed ecco
quindi la prima modifica: “Tancredi che
Clorinda un homo stima / vuol ne l’armi provarla al paragone”.
Altra
modifica, questa volta – a mio vedere – giustificata esclusivamente da ragioni
musicali, di opposizione ritmica, nel distico 7-8 della stanza seguente.
L’originale “e vansi a ritrovar non
altrimenti / che duo tori gelosi e d’ira ardenti” diventa “e vansi incontro a passi tardi e lenti /
qual duo tori gelosi e d’ira ardenti”.
Più
importante la trasposizione al principio della stanza LV, con l’inversione
della posizione dei primi due distici. Nell’originale (Degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno / teatro, opre sarian sì
memorande. / Notte, che nel profondo oscuro seno / chiudesti e ne l’oblìo fatto
sì grande…) Tasso sospende la narrazione per svolgere una sua
considerazione, il rammarico che un duello tanto emozionante si svolga nel
chiuso della notte, in assenza di testimoni che possano darne plauso e
perpetuarne la fama (rincrescimento che sarà espresso dal protagonista stesso
nella stanza LX). Questa considerazione gli offre l’occasione (la giustificazione logica) della lirica
invocazione alla Notte, affinché consenta al poeta di squarciarne il velo,
mettendo “in bel sereno” “fatto
sì grande”, così da tramandarlo ai posteri. Nella trasposizione
monteverdiana il rammarico entra a far parte dell’invocazione stessa, con un
leggero spostamento dei rapporti logici. L’intervento del musicista è
evidentemente dovuto all’opportunità di cominciare la stanza con l’invocazione
alla Notte, parola-chiave che dà all’espansione lirica la sua peculiare nota
affettiva, la sua atmosfera. Inoltre, nella versione monteverdiana la strofa si
presenta più compatta e nettamente isolata dal contesto, facendone un pezzo
lirico ben individuato. L’effetto di pausa dell’azione è ancor più sensibile.
Opposto, per certi aspetti, l’effetto
dell’omissione della LXIII. La similitudine dell’“alto Egeo”, le cui onde continuano a essere agitate anche dopo la
caduta dei venti che l’avevano sconvolto (come i duellanti, benché esausti,
continuano la lotta spinti dal furioso slancio iniziale) crea una sosta, in
modo che la ripresa, così isolata, funzioni come una ripartenza, un riavvìo del
discorso, l’inizio dell’atto finale, della catastrofe (nel significato
etimologico di capovolgimento della situazione). Perché dunque Monteverdi la
omette, resistendo – si badi – alla tentazione, per un musicista dell’epoca
irresistibile, di rendere con facili onomatopee il contrastante infuriare dei
venti e la violenta agitazione delle onde? Perché era un musicista vero –
verrebbe da dire – a cui la coerenza artistica interessava più dei facili
effetti (lo stesso motivo per cui vieta le “gorghe”!). Evidentemente volle che
l’episodio, dopo la pausa lirica dell’invocazione alla Notte, corresse rapido e
compatto verso la catastrofe e la trasfigurazione dell’eroina.
Musica e poesia
Non
entriamo nel complesso problema generale del rapporto tra la musica e la poesia
sottostante, e della vera o presunta idoneità della musica a esprimere
concetti, immagini, emozioni, sentimenti. Limitiamoci a ricordare che il
musicista che intona un testo poetico può muoversi tra due estremi. Da un lato
avremo il tentativo di seguire il testo parola per parola, aderendo ai
cosiddetti significati lineari; dall’altro quello di esprimerne il tono, il
sentimento, l’atmosfera, il senso complessivo. Si pensi, per questo secondo
caso, alle composizioni strofiche, dove la musica, uguale di strofa in strofa,
intona un testo sempre diverso.
Ora,
prima di chiederci quale procedimento segua Monteverdi, diamo un’occhiata
veloce al testo del Tasso. In sostanza ci troviamo di fronte alla narrazione
delle varie fasi di un duello fino al suo epilogo doppiamente tragico. Il
poeta, naturalmente, sa che la persona che Tancredi combatte come nemico
mortale è, in realtà, la donna di cui è perdutamente innamorato. Questa consapevolezza
proietta un’ombra di tragedia su tutto l’episodio (vedi, p. es., l’epifonema “Oh nostra folle / mente ch’ogni aura di
fortuna estolle”, con quel che segue) e finisce con l’insinuarsi persino
nell’animo dei protagonisti, in particolare di Tancredi, suscitandone vaghi
presentimenti e un’atmosfera di mestizia e di tragica fatalità. Inoltre la
scena è inserita in un paesaggio che si colora di quell’atmosfera e
contribuisce a esprimerla. La notte fosca avvolge la parte più furibonda dello
scontro, mentre via via che si avvicina l’alba il furore dei duellanti esausti
si va smorzando, preparando il ribaltamento della situazione sentimentale e la
conversione, o piuttosto la trasfigurazione, dell’eroina morente.
Come lo reinterpreta il
musicista?
Il
riconosciuto primato della poesia potrebbe far pensare all’immediata adesione
ai significati lineari, col tentativo di adeguare la musica alle singole
locuzioni o addirittura alle singole parole. Ma Monteverdi è troppo grande
musicista per limitarsi all’applicazione di formule teoriche semplificate.
Vediamo.
Del
testo tassiano egli coglie principalmente gli aspetti che più lo interessano
dal punto di vista musicale, in particolare l’alternanza di momenti intrisi di
ira e combattività con altri in cui quel furore si stempera nella stanchezza,
in soste meditative, nella preghiera e, infine, nella morte: i momenti canonici
dell’applicazione – conforme alla teoria – dello stile “concitato” e di quello
“molle”. Il primo è realizzato principalmente mediante il ritmo frenetico, in
particolare mediante quella sua invenzione tanto rivoluzionaria da incontrare la
caparbia resistenza passiva degli strumentisti, ma destinata a un glorioso
avvenire: il tremolo degli archi, poi
generalmente usato a esprimere non solo concitazione ma anche tensione
drammatica, inquietudine, trepidazione (vedi, p. es., l’inizio della Nona di Beethoven). Il secondo è in
genere realizzato mediante un recitativo ‘melodico’, spesso dall’andamento
languido, rispettoso della oratione,
ma lontano dalla rigida monotonia di Peri e Caccini.
In
realtà, tra le parti teoricamente sotto il segno della “mollezza”, alcune se ne
staccano assumendo un’individualità tutta propria. Prima fra tutte la stanza “Notte”
ecc. Abbiamo visto come le modifiche testuali apportate dal musicista
contribuiscano a isolarla maggiormente dal contesto, proprio perché in essa si
sospende la narrazione per abbandonarsi a un momento di altissima espansione
lirica. La melodia, generalmente in sol minore, procede appassionata ma calma e
solenne al tempo stesso, spesso ribattendo la stessa nota o muovendosi per
gradi congiunti. Non si supera mai l’intervallo di quinta, tranne verso la
fine. Nella terzultima battuta, infatti, Monteverdi sembra aver voluto
prevenire prevedibili abusi di “gorghe” in vista di un finale strappa-applausi.
Ha notato lui la “divisione”, realizzando una “gorga” – in corrispondenza della
parola “alta” – dove la melodia raggiunge la massima estensione, dal re al sol
dell’ottava superiore, per ricadere sul si con un intervallo di sesta
discendente.
Degno
di nota anche il finale. E non solo dal punto di vista melodico. Qui melodia e
armonia cospirano meravigliosamente a rendere il senso di una morte che non è
tale, bensì un passaggio, o meglio – come già accennato – una trasfigurazione.
Alle parole di Clorinda morente “S’apre
il ciel: io vado in pace”, noi sentiamo, noi vediamo, il cielo mattutino aprirsi accogliente e benigno, e la
sfortunata eroina, come per un fenomeno di levitazione, staccarsi da terra,
levarsi leggera leggera, ascendere cullata da lievi oscillazioni della brezza,
e infine riposare definitivamente su un accordo di re maggiore che dal fa
diesis1 si è innalzato vertiginosamente fino al la5.
Ma
un musicista come Monteverdi, così fermamente convinto del primato della parola
poetica, non poteva certo disinteressarsi dei significati lineari. La sua
attenzione per le singole locuzioni, per la parola singola, è costante, e dove
può ne accompagna e sottolinea il significato e le connotazioni con i mezzi
della musica. Ed è costante la ricerca di strumenti tecnici al servizio della
poesia. È il caso, per esempio, delle onomatopee, ottenute sia con mezzi di
natura ritmica (imitazione dei colpi di spada, imitazione delle diverse
andature del cavallo…) sia con accorgimenti strumentali, come quell’altra sua
invenzione destinata a durare: l’uso del pizzicato, in corrispondenza del passo
“dansi co’ pomi, e infelloniti e crudi /
cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi”. Ed è il caso dei cosiddetti
madrigalismi, in particolare il cromatismo espressivo, tanto caro al Principe
di Venosa e, sulle orme degli Italiani, anche a Heinrich Schütz. Si osservi
l’effetto del cromatismo discendente applicato a espressioni come “mar di
pianto”, “il piè le manca”, o, nell’espressione “tinge di molto sangue”,
l’orrore conferito alla vista del… “sangue”.
La riscoperta del Combattimento
Dopo
un lungo periodo di oblìo, il Combattimento
è stato riportato sulle scene nel Novecento, e diverse formazioni musicali nel
mondo si sono cimentate con la sua esecuzione. Chi mi ha seguito
nell’esposizione dei due testi introduttivi del musicista non può fare a meno
di domandarsi: ma oggi, le prescrizioni così minuziose del compositore sono
generalmente rispettate?
Prima
di rispondere, sgombriamo il campo da un equivoco. Diciamo subito che le
partiture dell’epoca non sono così minuziose e precise come quelle odierne.
Sono, piuttosto, una traccia, a volte molto approssimativa, da interpretare (si
pensi, per esempio, al problema della realizzazione del cosiddetto basso
continuo). Naturalmente sono state elaborate tecniche di filologia musicale
idonee a consentire, allo studioso serio e preparato, di restituirci partiture
presumibilmente molto vicine alle intenzioni dell’autore. Ma un certo grado di
incertezza, e dunque di arbitrio, resta ineliminabile. Questo insopprimibile
margine di insicurezza residua, tuttavia, non basta a legittimare interventi
‘interpretativi’ chiaramente arbitrari. Intendiamoci, può darsi che a qualcuno
(o a molti) quell’intervento piaccia. Può darsi addirittura che l’avventuroso
interprete riesca ad andare oltre il povero Monteverdi (consapevole, peraltro,
dell’imperfezione dell’opera sua, e reo confesso del suo scarso valore di
musicista – cfr. poco sotto), può darsi che riesca a… migliorarlo. Ma a chi
interessa ascoltare la voce di Monteverdi e della sua epoca, gli interventi
‘attualizzatori’ non possono riuscire molto graditi.
Nelle
poche esecuzioni che ho potuto ascoltare, non manca chi generosamente si
prodiga a dare una rinfrescata al vecchio Monteverdi per metterlo al passo coi
tempi e adeguarlo all’ultimo grido (mai
parola fu tanto appropriata!). Ma, per nostra fortuna, c’è anche chi l’acutezza
della propria sensibilità interpretativa, l’eccellente abilità tecnica e
notevoli virtù canore mette al servizio della musica, nell’intento di offrire
all’ascoltatore un’opera quanto più possibile vicina alle intenzioni
dell’autore. È il caso, per esempio, dell’esecuzione, vecchia ormai di quasi
trent’anni, della Capella Savaria, diretta da Nicholas Mc Gegan, con Guy De
Mey, Martin Klietmann e Mària Zàdori.
Sono
solo le ‘opere d’arte’ prive di valore proprio ad aver bisogno di
rimaneggiamenti in grado di attribuire loro un valore che di per sé non hanno.
Ma né la Liberata né il Combattimento monteverdiano rientrano in
questa categoria. Il valore dei versi del Tasso è stato certificato, lungo più
di quattro secoli, da innumerevoli generazioni di lettori. E la musica di
Monteverdi, per chi è in grado di intenderla e apprezzarla, ha dimostrato
abbondantemente di sapersi reggere sulle proprie gambe. “Nel più famoso tra i Madrigali guerrieri et amorosi di
Monteverdi – scrive Giulio Confalonieri – noi assistiamo ad uno dei rarissimi
“incontri pari” tra musica e poesia; un incontro in cui la musica non ha mai
bisogno di umiliarsi per servire la poesia, e dove la poesia può compiacersi di
tutte le sue parole e di tutti i suoi accenti, perché la musica ha trovato un
prodigioso equilibrio”.
Vero
è che, su questo, Monteverdi stesso sembra nutrire più di qualche dubbio. “So – scrive a
conclusione della citata Introduzione – che [la mia opera] sarà imperfetta,
perché poco vaglio in tutto, in particolare nel genere guerriero, per esser
nuovo et perché “omne principium est
debile”; prego perciò il benigno lettore a gradire la mia bona volontà”. Ma
voi mica gli darete retta! Monteverdi aveva il vizio, oggi imperdonabile, della
modestia. Trovate modo di ascoltarla in una corretta interpretazione, questa
sua musica. Vi accorgerete che, almeno in questo, il buon Claudio aveva torto!
[1] Per
chi avesse poca dimestichezza con questo genere di scritture, forse non saranno
superflue un paio di avvertenze: 1) il gruppo /ti/ seguito da vocale veniva
pronunziato /zi/ (oratione, pron.:
orazione); 2) nella congiunzione “et”,
la /t/ era pronunziata
se seguita da vocale, muta – ma con ‘raddoppiamento sintattico’ – se seguita da
consonante.
[2] Sembra che i cantanti
eseguissero nascosti dietro la scena (come gli strumentisti, del resto), mentre
a mimare i gesti fossero attori o mimi.