sabato, settembre 29, 2018

Barilli, Medusa. 2) Analisi del libretto




testa femminile adagiata sulla propria chioma costituita di serpenti
Testa di Medusa
il celebre quadro un tempo attribuito a Leonardo e ora a un anonimo fiammingo
prototipo della bellezza medusea

 Nel tracciare il riassunto del libretto (vedi post "la trama") ho abbondato di particolari, lasciandomi andare, qua e là, a toni giocosi o a bonaria ironia (senza, peraltro, tradirne mai la sostanza!). L’ho fatto perché il lettore potesse rendersi conto personalmente di che stoffa siano fatti i personaggi e il dramma nel suo complesso. Qui intendo approfondire l’analisi per: a) richiamare il contesto culturale in cui quel libretto si situa e trova spiegazione, b) individuare le ragioni dell'insoddisfazione, c) azzardare una risposta al perché il musicista (che è anche un fine scrittore) abbia scelto una base letteraria tanto inadeguata.


a)    Il contesto culturale

Ho già accennato, nel post precedente, al personaggio mitologico che alla protagonista dà il nome e qualche carattere (salvo il fatto che i giovani di casa Veniero dallo sguardo di Medusa più che pietrificati vengono rincretiniti).
Ma, all’epoca della composizione, Medusa è anche l’emblema di un particolare tipo di bellezza, quella “bellezza medusea” cui Mario Praz dedica il primo capitolo del volume La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica. La definizione probabilmente è stata suggerita dal fascino singolare esercitato sul poeta inglese Percy B. Shelley da un quadro degli Uffizi a quel tempo attribuito a Leonardo e ora, con più ragione (e minor sacrilegio!), a un qualche fiammingo.  Shelley gli dedicò una poesia che godette fama vasta e duratura: On the Medusa of Leonardo da Vinci. Come i giunchi nella belletta dannunziana, la “bellezza medusea” ha “l’odore / delle persiche mézze e delle rose / passe, del miele guasto e della morte”. Una bellezza – come scrive Praz – “intrisa di pena, di corruzione e di morte”, quale poteva piacere al gusto romantico. O, più esattamente, a una sua corrente, quella cui doveva riferirsi Goethe quando dichiarava a Eckermann: “Das Romantische (nenne ich) das Kranke  (“Romantico io chiamo ciò che è malato”). Un gusto, quello dominante tra i romantici “malati”, destinato ad essere ripreso e approfondito dal decadentismo.

Questo speciale concetto di bellezza, applicato al fascino femminile, viene poi esteso e mescidato con quello della “donna fatale”, della “belle dame sans merci”, della “donna-vampiro”, e via digradando di mostro in mostro. “Le donne della specie di Cecily – scrive Sue nei Misteri di Parigi – esercitano un’azione improvvisa, un’onnipotenza magica sugli uomini di sensualità brutale” (confrontate la folgorazione esercitata dalla nostra eroina sui tre giovani, ma in particolare su Orso, quello in cui la “sensualità brutale” si rivela con più immediatezza). E ancora: quando Cécily vedeva le sue vittime anelanti ai suoi piedi, “si passava lo sfizio di prolungare il loro desiderio ardente con una civetteria raffinata e feroce; poi, tornando al suo primo istinto, li divorava coi suoi abbracci micidiali” (embrassements homicides!).

Insomma, ai primi del Novecento motivi come quelli della “bellezza medusea”, della “donna fatale” e simili amenità, erano ormai componenti immancabili nella letteratura erotica corrente, in prosa e in versi. In Italia erano stati magistralmente introdotti da D’Annunzio, e, sotto il suo magistero, si erano poi celermente diffusi. Mi limito a un paio di esempi, tratti da un libro di Giuseppe Rino (L'estuario delle ombre) pubblicato a Messina nel 1907. Due passi particolarmente significativi, perché con il nostro libretto presentano addirittura qualche coincidenza verbale (il che, naturalmente, non implica garanzia di derivazione diretta, dato che si tratta di elementi ormai largamente banalizzati). La sua “Demoniaca” (!) “rise d’un riso perfido nivale / e ne l’iride sua selvaggia e impura /  parvero i veli d’un gran sogno astrale”; e ancora: “Porgi le labbra al mio veleno chiaro / che brilla in tazze fine di smeraldo”. (Tra i “doni” sciorinati dalla nostra pellegrina figurano “smeraldi, verdi al par d’acque fonde”, “cristalli preziosi ricolmi di terribili profumi”… E Troilo: “d’Oriente i toschi brucian sovra il tuo labbro! ” – sospira verso Medusa).


b1) Una storia artisticamente incoerente

Tale il poco esaltante contesto in cui si colloca il nostro libretto. Pure, anche in quell’atmosfera ammorbata, artisti capaci di produrre opere dignitose non ne erano mancati, e, in qualche caso, ci era scappato persino il capolavoro. Ma Schanzer era artista di altra pasta.
Franco Abbiati (quello che dichiara la sua inabilità a dirne tutto il male che ne pensa!) trova il libretto “oscillante fra reale e irreale”; “totalmente privo d’azione stimolante”; un testo che “all’ascoltatore non dice nulla di vero e ben poco di verosimile”. Ed è proprio così.
Pensate, per esempio, alla storia raccontata dalla protagonista, con l’inspiegabile apparizione del servizievole “nocchiero”, e il non meno misterioso “destino” di eterna errante…  È una storia così assurda che solo quel bonaccione di Salvestro Veniero poteva bersela. O a particolari quali il grido lacerante di Aglauris al solo toccare il funesto regalo della sciarpa, grido dissoltosi nella più totale indifferenza degli astanti. O al momento in cui Medusa sfiora coi suoi capelli la fronte di Stefan. Com’è naturale (“fan nido i serpi nelle chiome mie …”!) “il giovane indietreggia rabbrividendo e fissa Medusa con occhi sbarrati”. E, con quegli “occhi sbarrati” d’orrore, “Oh! Che aulenti chiome hai tu!” la corteggia galante. Poi, nel terzo atto, mentre Troilo, ormai irretito senza scampo dalla seduzione di Medusa, ne invoca disperatamente il bacio, lei risponde invitandolo romanticamente a contemplare le stelle! E poco dopo, quando, accecato dal desiderio carnale di Medusa, nemmeno riconosce la giovane sposa, questa, per riconquistarne l’amore, non sa far di meglio che proclamare la propria superiorità in fatto di castità (“Ma di’, non son più pura io di costei?). Si potrebbe continuare un pezzo a elencare incongruenze e ingenuità, goffaggini e puerilità del testo, senza aggiungere nulla di nuovo. Prima di proseguire, però, lasciatemi precisare, una volta per tutte, che qui non è questione di verisimiglianza banalmente intesa (che per Barilli è la parole des idiots”!): quello che qui si lamenta è la mancanza di coerenza interna al mondo fantastico di Schanzer, la mancanza di logica artistica! Ma passiamo a un altro aspetto.

Che cosa rappresenta veramente Medusa, la protagonista attorno a cui ruota tutta l’azione?
Medusa, di V. Kotarbinsky (1903)
Medusa, di V. Kotarbinsky
(1903)
C’è una battuta che sembra rivelatrice. Verso la fine del primo atto, Stefan “si precipita nuovamente su Medusa e l’afferra alfine a mezzo il corpo”; e, sicuro ormai della conquista,  le grida: Mia or tu sarai. La donna “si divincola invano”, ma non sembra preoccupata; anzi risponde in tono di sfida: “Me vincere vuoi tu? Non sai ch’io mi sia? Sono la voluttà!”. E dalla voluttà – sembra sottintendere – tu non hai scampo. Questa strana battuta mi ha fatto pensare che l’intenzione dell’autore fosse di presentarci il dramma della ricerca spasmodica del piacere, dell’edonismo eretto a sistema di vita, e destinato a finire tragicamente. O forse, con un pizzico di misoginia, il carattere fatale del fascino femminile.
Ma l’atmosfera culturale era quella che era, e Schanzer, scarso – a quanto si può giudicare da questa sua creatura – di personale energia creativa, si aggrappa a quello che le letture di cui si era nutrito potevano suggerirgli. E così la sua Medusa assume, con sempre maggiore evidenza, i caratteri della “donna fatale”, della “belle dame sans merci”, senza però rinunciare del tutto agli altri modelli di femminilità perversa che la morbosità romantico-decadente aveva saputo escogitare. 
Così Medusa è anche un po’ la Salomè di Wilde e Strauss (Ve la ricordate? Chiusa nella sua sacrilega passione per il corpo casto di Jochanaan, ossessionata dal desiderio libidinoso della sua bocca purpurea, non bada minimamente al cadavere di Narraboth che si è appena suicidato per amore di lei, non più di quanto la nostra Medusa si curi del cadavere di Stefan, appena morto per lei, o di quello di Aglauris, da lei stessa assassinata…). Ma può a buon diritto rivendicare anche qualche tratto della donna-vampiro: “L’amaro pianto e il sangue tuo con voluttà vo’ sugger in questa notte”; e ad Aglauris: “Tutto è mio il sangue di costui”. Eh, quanta sanguinaria ingordigia! Del resto non stupisce trovare, con questa, non poche altre tracce delle lussuriose superdonne dannunziane, da Pantea a Comnena (naturalmente in formato ridotto!). Né poteva mancare, in un librettista di lingua materna tedesca, qualche eco del linguaggio d’Isotta (“Pei miei occhi profondi come obliosi mondi, per questa notte chiara”…), anche se in questo la nostra eroina è addirittura superata dal “folle bimbo”, come si è visto nel post precedente.

Sugli altri personaggi poco c’è da aggiungere a quanto emerge dal riassunto. Un vecchio governatore, onesto e fedele al suo ufficio e a Venezia, capofamiglia bonario e gentile, ma totalmente incapace di vedere cosa accade attorno a lui. Due fratelli che, pur felicemente ammogliati e non più giovanissimi, sembrano aver scoperto “le gioie del sesso” solo all’apparire della misteriosa straniera e si comportano come adolescenti in preda ad un’eccitazione incontrollabile. Non si tratta di amore, e ancor meno di fascino per la bellezza. Ciò a cui mirano è l’accoppiamento o, più esattamente, il possesso di quel corpo. Lo dicono esplicitamente, senza sotterfugi o ambagi: per loro il congiungimento carnale con la bella straniera è un “dovere”, una necessità insopprimibile. Medusa, “ricorda (!) ch’io ti debbo avere” – le rammenta Stefan.
Il terzo fratello, quello che – stando alle convenzioni dei registri vocali – parrebbe il più attempato, sembra scoprire l’esistenza del sesso solo alla vista  di Medusa. In lui, anzi, la natura della concupiscenza appare allo stato primitivo, ferino (“sensualità brutale” direbbe Sue). Io vo’ con la violenza conquistar costei!” dice; e ancora: Vo’ posseder quel corpo suo divino! Quel corpo lo eccita e dunque gli appartiene; e... chi lo ostacola va eliminato, punto!   
Meno ancora c’è da dire sui due personaggi femminili. Evanescente Orestella. Aglauris prende vita, per qualche attimo e in mezzo a non poche goffaggini, quando cerca disperatamente di far rinsavire il marito rintronato dal desiderio di Medusa. (E anche questa sensazione è, forse, principalmente merito della musica!).


b2) Incoerenza stilistica

La molteplicità irrisolta delle fonti si rivela anche a livello stilistico.
Elementi tipici del melodramma ottocentesco (gli innumerevoli “deh”, i ripetuti “mio cuor” e “cuor mio”,  Ciel! Ciel!”, “O gran Dio!”, “Celeste ardore!”, “Dolce mio bene, giurami eterna fè”) convivono con elementi di marca dannunziana (“le mani liliali”, “il corpo mio nivale”, “aulenti chiome”, “folle mio desire”,  despota”, “L’amaro pianto e il sangue tuo con voluttà vo’ sugger in questa notte”,  d’Oriente i toschi brucian sovra il tuo labbro”...). E persino con elementi di sapore verista (“or tu vaneggi, bimbo”, “taci tu, folle bimbo”, “scontare il peccato mortale”, l’imprecazione più o meno blasfema “Per Gesù!, e l’impagabile “O Medusa, vieni qui!”).            
D’altra parte, non potevano mancare echi wagneriani. Si pensi al carattere prevalentemente esclamativo del testo, agli incessanti sospiri lirici dei duetti: “O follia dei miei sensi!... Indicibile gioia!”, “ O lungo brivido… oh gioia!”, “Ebbrezza dell’amor! Luce del viver mio!”… Sembra d’essere catapultati nell’interminabile duetto del II atto del Tristano!


c) Ragioni di una scelta

Chi conosce le doti di Barilli scrittore non può fare a meno di domandarsi come mai abbia accettato come base per la sua opera d’esordio una simile roba. Tanto più stupisce, in un critico teatrale acuto e severo come lui, l’accettazione di un libretto che, oltre ai difetti già accennati, mostra, almeno a mio avviso, una singolare goffaggine nel taglio degli atti.  
E infatti il recensore dell’Eco di Bergamo (dr. p.) si chiede, incredulo, “come mai il maestro Barilli che, senza dubbio, è un musicista di valore e lo ha dimostrato anche in questo lavoro, ed è un letterato che si distingue, si sia innamorato del libretto di Medusa”. E allarga le braccia, rassegnandosi alla vecchia spiegazione oraziana: Quandoque bonus dormitat Homerus! (“Qualche volta sonnecchia anche il buon Omero!”). Abbiati attribuisce l’accettazione di una roba del genere all’inesperienza del musicista, dovuta all’età al momento della composizione, ma anche alla scelta di vivere da “solitario maledetto”.

Bruno Barilli, in una caricatura di A. Baldini
Il nostro musicista
in una caricatura dell’amico Baldini
A parte l’innegabile inesperienza, non mancano però – io credo – altre e più sostanziali ragioni.
La prima è che al libretto Barilli attribuiva una funzione molto marginale. “Quando il musicista sorge, il librettista tramonta” annotava nel Taccuino XXVIII; “non esiste un testo di libretto da mettere in valore nella sua grana preziosa [di vocaboli e di metafore vane], nelle sue letterarie squisitezze: il ritmo e l’armonia avvolge d’un altro mantello un libretto, sia esso di D’Annunzio o di Sem Benelli, e le parole son come sassi che non si vedono in fondo al torrente se l’acqua è profonda, <non> più che ciottoli sui quali il canto scivola come l’acqua”. Un libretto, per il nostro compositore,  non può essere che una travatura molto schematica con poche parole che poi non si sentono”. (B.B., Capricci di vegliardo, Einaudi, passim). Anzi, a non capire ci si guadagna”! (Ma, francamente, non so se con quest'ultima, paradossale affermazione si riferisse al libretto per musica in generale o a qualche caso particolarmente sfortunato!).  
Altra probabile ragione attiene direttamente alla scelta dell’argomento: una ‘favola’ sufficientemente esotica, lontana dalla realtà quotidiana e da quella visione razionale dell’uomo (sulla cui fondatezza Barilli nutriva non pochi dubbi!) da consentirgli di prender le distanze dal “verismo” a favore di una musica originale, fortemente lirica ed evocativa, quale lui aveva in mente.
 E, come lui stesso affermava, ed è convinzione comune tra gli amanti del teatro musicale, ciò che conta veramente è la musica. E quella – concludevo nel post precedente – è davvero un’altra cosa. Non un capolavoro, probabilmente; ma certo un’opera di grande interesse, che giustifica la faticosa lettura e analisi del libretto, e soprattutto merita un attento ascolto. Ce ne occuperemo nel prossimo post.


Riconoscimenti:
per le due riproduzioni di Medusa ringrazio Annalisa P. Cignitti, curatrice del blog rocaille.it





domenica, settembre 16, 2018

La Medusa di Barilli. 1: la trama





Voglio celebrare a modo mio un anniversario un po’ particolare (infatti passato inosservato): quello della prima esecuzione di Medusa di Bruno Barilli (1880-1952), andata in scena a Bergamo ottant’anni fa, precisamente il 12 settembre 1938. Lo farò a tappe, passando dalla presentazione e riassunto all’analisi del libretto e, in fine, alla musica.

Vita teatrale della Medusa di Barilli

Si trattò di una prima molto particolare: Medusa, infatti, “nasceva alle scene” alla considerevole età di quasi trent’anni. Vita peraltro stentata e presto finita. Ma andiamo con ordine.
L’opera, iniziata forse nel 1907, era già completa nel 1910, in pieno trionfo del cosiddetto verismo musicale, da cui – come si vedrà – intendeva prendere le distanze. Rimase però nel cassetto per quasi tre decenni. E non per incuria o insoddisfazione dell’autore. Il povero Barilli credette sempre fermamente nel valore della sua opera, e cercò di farla eseguire. Riuscì anche a far pubblicare alcune pagine della partitura (“Sia lode a te”, dal primo atto; “Rimango”, dal II) già nel 1914; nel 1917, poi, l’intero spartito (canto e pianoforte) fu stampato dal Mignani, un modesto editore fiorentino. Ma nessun teatro, nessun editore importante gli dette ascolto. In fine, nel 1938, quando ormai non ci credeva più nemmeno lui, il miracolo – diciamo così – della rappresentazione teatrale; peraltro in un sito marginale (Bergamo), in quel “Teatro delle novità” che per un’opera composta quasi trent’anni prima doveva suonare francamente ironico. Il successo non mancò, ma nemmeno i dubbi e le riserve.
La vita teatrale dell’opera, del resto, fu breve. Ripresa poco più di un anno dopo al San Carlo di Napoli, sparì definitivamente dalle scene, almeno finora. Con la sola, parziale eccezione di un’edizione radiofonica (26 luglio 1952), forse tardivo riconoscimento all’autore scomparso pochi mesi prima. Dopo di che la povera Medusa sprofonda in un oblìo totale, ignorata persino da due repertori abbastanza recenti: la nuova edizione del Dizionario dell’opera lirica, Mondadori 1991, curata da Michele Porzio, e la coeva edizione italiana (Dizionario enciclopedico dell’opera lirica) dell’oxoniense Concise Oxford Dictionary of Opera.
Eppure, a mio modesto avviso, la Medusa non merita affatto il dimenticatoio. Vediamo, dunque, di conoscerla da vicino, partendo dall’elemento più debole e problematico, il libretto.

L’autore del libretto
è Ottone Schanzer (Vienna 1877 – Roma 1956), austriaco di nascita ma italiano per formazione e sentimenti. Laureatosi in legge all'Università di Roma, acquistò una certa notorietà come poeta e librettista, nonché critico musicale. Grande ammiratore dei “nostri” compositori del XVI-XVIII sec., “più grandi, Dio mi perdoni, degli stessi Numi Germani della Musica” (lettera del 1943 a Giovanni Tebaldini), non disdegnò di tradurre dal tedesco parecchi libretti d’opera e di scriverne in proprio per musicisti italiani, principalmente per Alberto Gasco.  

Riassunto

L’azione a Negroponte, sul finire del XV secolo”, avverte l’autore. Cioè in Eubea, nella II metà del XV sec., in ogni caso prima del 1470, anno in cui “Negroponte” cade in mano ai Turchi.

Atto I

Magnifico “palagio del Podestà Veniero”, (rappresentante della Serenissima), splendidamente affacciato sul mare. Ci abita il Podestà (baritono) con i suoi familiari: i figli Stefan (baritono) e Troilo (tenore) – con le loro mogli Orestella (contralto) e Aglauris (soprano) – e Orso (basso), scapolone impenitente. Una famiglia patriarcale, armoniosa, tranquilla. “È un chiaro mattino d’aprile”, e l’intero gruppetto è lì, sull’ampia terrazza, intento a contemplare la vasta distesa marina, donde giungono misteriose voci che riudremo poi varie volte nei momenti salienti dell’opera. Affascinati da tanta bellezza, i due giovani ne traggono occasione per complimenti galanti alle rispettive consorti.
Ma ecco, lontano, sul mare, un vascello fila velocissimo verso la riva, e, in men che non si dica, approda proprio lì sotto, a due passi. Ne scende una signora, che sale al “palagio” accompagnata da “portatori negri recanti urne d’ebano”. È Medusa (mezzosoprano), misteriosa forestiera, protagonista dell’opera.

Su questo personaggio ritornerò nell’analisi del libretto, oggetto di un post successivo. Ma qui ritengo opportuno anticiparne poche righe, necessarie all’intelligenza del dramma.

Medusa, dall'Artemision di Corfù
Medusa, il personaggio mitico da cui prende nome la protagonista,
qui in una delle più antiche rappresentazioni: quella del tempio di Artemide a Corfù
(585 a.C. circa)
Notare, sopra il grazioso gonnellino, l’eleganza del nodo della cintura di serpenti
(veri e vivi, come quelli che le spuntano dalla chioma ben curata!)

Il nome della protagonista non è casuale. E’ un nome evocativo, carico di connotazioni e suggestioni accumulate nel corso della storia letteraria e artistica. Medusa è un personaggio del mito greco. È la più nota – e la più spaventevole – delle tre Gòrgoni, fanciulle alate, con folta capigliatura infestata di serpenti, e avvezze a portare una cintura dello stesso nobile materiale vivente; capaci di pietrificare chiunque le guardasse (non so se per il magnetismo dello sguardo – come generalmente si crede – o non piuttosto per lo spavento!). Medusa fu poi uccisa da Perseo con uno stratagemma, e la sua testa fu scelta da Atena come terrificante insegna al centro dello scudo. Ma torniamo al libretto.

Medusa in terracotta colorata, da Siracusa
Medusa  dal tempio d’Atena a  Siracusa (ora nel locale Museo regionale P. Orsi)
terracotta colorata del I quarto del VI sec a.C. ( non colorate le integrazioni moderne)  
Il cavallino che tiene con tanto amore è la sua creaturina:
 lo splendido cavallo alato Pègaso (capricci della Natura!)

Accolta con simpatia, Medusa offre gioielli e vesti, e narra una sua improbabile storia: “Ne l’Oriente s’aprì / di mia vita il fiore; / e l’infanzia passai / tra mille ignoti incanti / dove alto il sol fiammeggia, / dove ampio in fra i palmizii  / trascorre il pio Giordan”. Vita idilliaca, troncata – dice – dal Simùm, l’ardente vento del deserto.
Si risveglia “dal letargo” sulla riva del mare (come dal Giordano fosse arrivata, in letargo, sulle rive del Mediterraneo, distanti almeno una cinquantina di km, non ve lo posso dire… perché l’interessata non lo spiega!). Che è che non è, ecco apparire un provvidenziale vascello, “guidato da un cupo nocchier” che la invita a bordo. Ed eccomi qui – dice. “Doman lungi m’addurrà il cieco destino”. Non sia mai! – protesta il Podestà. Questa è una casa accogliente, “quest’è de’ pellegrini il fido asilo”, e tu resterai qui! A nulla valgono strani segni premonitori: l’immediato, misterioso fascino esercitato sui giovani, inquietanti particolari dell’autopresentazione (“fan nido i serpi nelle mie chiome”!), le maniere ciarlatanesche con cui offre i suoi doni, il grido lancinante di Aglauris appena toccata la sciarpa offertale in dono…  Salvestro Veniero, capofamiglia e Podestà di Venezia, è talmente accogliente e solidale che il buon Papa Francesco lo farebbe santo senza processo!n sia mai!"  a bordo.pparire un provvidenziale vascello,  storiae. accogliente che Papa Francesca l'
E tu (sei) l’aulente fiore che pel mio sogno di giovinezza il gaio april fiorì” aveva detto alla consorte – pochi minuti prima – Stefan, questo improbabile precursore di D’Annunzio. Macché! “Sempre te sognai negli abissi del tempo!” dice ora a Medusa, appena rimasti soli. E, più di Orestella, troverà “aulenti” le terribili chiome di Medusa. Invano lei lo ammonisce: “Deh, pensa alla sposa tua”! Ammaliato dall’ “angelico suon di sua voce”, dall’“ardor dei suoi sguardi”, il giovane vuole assolutamente baciarne “le mani liliali, le nere chiome”, dovesse pur col suo sangue “scontare il peccato mortale”. È il primo dei tre fratelli a cader vittima del fascino mortale della misteriosa forestiera. E, incurante del’enigmatico avvertimento di lei (“Me vincere vuoi tu? Non sai ch’io mi sia? Sono la voluttà!”) passa alle vie di fatto, tentando d’abbracciarla. Suscitando, così, lo sgomento di Troilo e il furore malamente represso di Orso, entrambi gelosi e  intenti a spiarlo.


Atto II

Qualche tempo dopo. La situazione è precipitata. Disperate, Aglauris ed Orestella implorano il suocero di scacciare la straniera. “Oscura il nostro ciel da quel dì che costei dolore e pianto in questo asil portò”. Ma non vedi, o padre – aggiunge Aglauris – che “come ombre muti vanno i tuoi figli per deserte stanze”, accecati dalla concupiscenza per Medusa?
No! Il vecchio Podestà è irremovibile. “Giammai negar vorrò l’asilo che in questo dì Venezia per opra mia le offrì” (“in questo dì”? ma non glielo aveva offerto il giorno del suo arrivo?). “È questa mia casa – aggiunge con solenne gravità – al par d’un tempio sacra!” (Lo vedete? Santo subito!).
Troilo rivela a Orso di aver visto Stefan baciare ardentemente Medusa. “S’ei l’osa ancor, l’ucciderò, gli strapperò la preda” reagisce istintivamente Orso. Ma, sgomento, deve registrare che anche il buon Troilo, sia pure con mille scrupoli e ripentimenti, aspira alla medesima conquista.
Riecco Stefan e Medusa. Il loro colloquio sembra una ripresa e continuazione di quello interrotto nell’atto primo, ma in realtà dobbiamo presupporre che esso giunga dopo altri incontri e l’ardente bacio spiato da Troilo. I due intrecciano ora un duetto d’amore; quel duetto che suscitò l’entusiasmo del pubblico e, per il testo, l’ira del critico Franco Abbiati: “solo Barilli saprebbe dirne tutto il male che penso”!
A me la bianca mano tua, deh!, porgi che il ciel dischiude… Io vo’ baciarla, Medusa. Baciarla e poi morire. Medusa tenta (o finge) di resistere, tra l’altro con una molto ragionevole osservazione: “Baciar mi vuoi? La brama accender vuoi, la folle brama che il tuo cuor possiede?”. Ma l’amante non vuol sentire ragioni. “Ricorda ch’io ti debbo avere… La bocca tua, Medusa, la debbo… la vo’ baciar”. E basta che l’amata lo sfiori coi capelli (non dimenticate che sono i capelli di Medusa: fan nido i serpi nelle mie chiome”!), e – nonostante l’istintivo, esterrefatto balzo all’indietro – quasi cade in deliquio: “Oh! Che aulenti chiome hai tu! O follia dei miei sensi!... Indicibile gioia!...”. E Medusa, ormai sicura della conquista, si passa anche lo sfizio della beffa: “Se vuoi, tienlo pur” concede, porgendogli con un sorriso crudele il prezioso suo fazzoletto” (da testa, evidentemente). Ma non senza ammonirlo (onestà, o suprema perversione?): “Mortifero è l’aroma (quello che rende aulenti le nere chiome!) che trassi da lugubre fior”. Peggio: “Magia penetrante;… nel gelo dell’avello ancor dovrà seguirti”. (Così non potrà dire di non essere stato avvertito!). E, visto che il ragazzo insiste: “Vien. Vien. Vien! Sono tua, cuore ardente!”. E, forse nel timore di non essere stata abbastanza chiara: “Vien sul mio seno fremente, Stefan. Ti sazia alfin del corpo mio nivale”. L’immagine preziosa trova immediata eco nello spasimante, ma con una non innocente variante: “Saziar mi vo’ sul corpo tuo nivale”.  Qual despota qui giunta io son, qui rimango” – può concludere, fiera di se stessa, la trionfatrice.
A notte scenderò nel parco in riva al mar. Tu verrai, t’attenderò laggiù”. Ma ormai è l’imbrunire (“La notte vien”); non può non scapparci l’anticipo d’un bacio. Più d’un bacio. “Le labbra, le labbra tue come ardon, Stefan; ancor un bacio io vo’!”. “Egli la bacia con estasi appassionata sulla bocca; d’un tratto essa si libera dal suo amplesso e scompare nell’attigua stanza tenebrosa”. Come mai?
Evidentemente Medusa ha osservato, o intuito, una presenza estranea. Orso, infatti, balza fuori dal nascondiglio e, con tre pugnalate alla schiena, attua la feroce promessa.
Ai lamenti disperati di Orestella, accorsa al grido lacerante del marito morente, s’intreccia il coro beffardo dei soldati avvinazzati: “O Rossana! Se ti vuoi confessar tu le calze non mostrar….
Intanto giunge Troilo. Allarmato ma ignaro, chiede a Medusa di Stefan. “È morto per me; l’uccise il fratel” risponde tranquilla la donna. E senza perdere altro tempo: “L’ardor ti vo’ donare del mio cuore” e “lo trascina dolcemente nei suoi appartamenti”. Il coro reintona divertito il suo ritornello: “O Rossana, vuoi far penitenza o no?”…


Atto III

L’atto si apre a scena vuota, coi disperati richiami dall’interno del vecchio Veniero, all'oscuro dell’accaduto ma reso inquieto dall’assenza del figlio a tavola. “Stefan, Stefan! Dove sei, figliuol mio?”. Passa per la scena sorretto da Aglauris e ne esce, per nulla tranquillizzato dalla bugia pietosa della nuora.
Entra in scena Troilo, seguito da Medusa. E mentre ancora risuonano gli strazianti richiami del vecchio, inizia tra i due un duetto che uno, istintivamente, mette mano al telefonino per chiamare d’urgenza il Telefono Azzurro. Medusa mette in atto, nei confronti di Troilo, una vera e propria strategia di corruzione di minorenne (non sempre l’età anagrafica corrisponde all’età psicologica!). E se ne vanta pure: “Conosco tutte l’arti che gl’ignari corrompono”, dirà tra poco, quando l’opera di seduzione avrà raggiunto il suo scopo! Ma andiamo con ordine.
Troilo tenta di resistere, lamentando l’uccisione del fratello. “Fanciul, deh, obliamo i  morti; e a me ti dona” ordina Medusa E poiché quello si mostra preoccupato anche dei lamenti della donna “che un tempo amai!”, dagli ordini passa alla seduzione vera e propria. “La bella fronte posa sul seno mio, nei profondi miei occhi or tutto oblia!”. Come resistere? Ode i lamenti di Aglauris…, ma alla voce suadente di Medusa gli pare di udir “canti dal ciel discesi in su la terra”. Medusa schiude a lui “le porte del piacer, che il varco danno a mondi ignoti al cor!” Troilo non può che rassegnarsi al suo destino: “Oh, t’amerò in eterno! (...) Io debbo amarti, Medusa”. Deve, capite? Anche lui, come già Stefan, deve.
Medusa ha vinto ancora. “Inebria il bacio mio come il tosco infernal…”, si complimenta con se stessa. E: “Vinto tu sei, per sempre mio sei tu ormai”. Ma non le basta: vuole esasperarne il desiderio col minaccioso ritornello che ripete dal momento dell’arrivo: “Lungi diman trarrammi il cieco destino!”. E, alla prevista, disperata reazione, “Taci tu, folle bimbo: vieni qui sul mio sen!”. E, a quel contatto, il folle bimbo rivive, nientemeno, la mistica esperienza d’Isotta, sperimenta la voluttà del disfarsi nel Tutto. “Debbo io (…) dolcemente in vapori / dissiparmi?”, chiedeva la giovane irlandese. “Nell’ondeggiante oceano / nell’armonia sonora, / del respiro del mondo / nell’alitante Tutto…” – si rispondeva – “naufragare, / affondare… / inconsapevolmente… / suprema letizia!” (trad. G. Manacorda). Il nostro folle bimbo è, naturalmente, più sbrigativo: “In te già mi dissolvo… Medusa!”. Una “dissoluzione” che Orso, apparso a una finestra, gli augura (e gli prepara) a modo suo. E che il Coro gli contrappunta con le sue beffarde ammonizioni: “O Rossana, è Pasqua, tu le calze non mostrar! Praticare tu dovrai la virtù!”.
A interrompere l’estasi vale piuttosto l’arrivo di Aglauris, la sposa tradita. Anche qui viene in mente il capolavoro wagneriano. Ricordate la conclusione del I atto del Tristano? L’arrivo della nave in Cornovaglia è salutato da un infernale chiasso di festose acclamazioni e assordanti squilli di tromba. Tristano e Isotta, persi nell’estasi amorosa, non si accorgono di nulla. Il buon Kurwenal tenta di richiamare alla realtà il suo signore: “S’appressa Re Marco”. “Chi s’appressa?”. “Il Re”. E Tristano: “Quale Re?”. Così Troilo. Guarda con la fissità ebete d’un ubriaco la sposa che implora pietà e tenta di farlo tornare alla tragica realtà (il cadavere del fratello è ancora lì, a pochi passi). “Chi sei tu?” le chiede stralunato, aggiungendo sgomento alla disperazione. “Oh, Dio! Non mi conosci? O Dio, qual furia avvinse la chiara anima tua?”. E con tutta la forza della disperazione grida: “Io sono Aglauris! (…) la fida donna tua che amasti un dì (…) O mio Troilo!”...
Ma se Troilo è perduto in qualche suo arcano mondo d’amore, è ben presente, e con i piedi ben piantati sulla terra, la nefasta ospite, stizzita dell’inopportuno arrivo dell’intrusa.  Che vuol questa demente?” chiede brutalmente. E: “Via! (…) Non t’ode più, non t’ama più!” le grida spietata. “Tu piangi invano… Tutto è mio il sangue di costui”! E alla violenta reazione dell’infelice risponde a stilettate. “Aglauris cade senza grido presso la soglia di una porta”.  
La stessa disumana freddezza permette a Medusa di notare per tempo l’effetto della folle gelosia di Orso. “Fuggiam, fuggiam. La casa è in preda al fuoco!” grida a quello stordito dell’amante. Che può fare, il folle bimbo, se non aggrapparsi alle gonnelle della “mamma”? Ma lei si divincola, e fugge. Appena in tempo, ché il soffitto crolla. E Troilo, già quasi sepolto, “Medusa, dove sei?” invoca. E poi, le sue estreme parole: “Oh ardente letto di morte!”. Tragicocomico, involontario doppiosenso.
Medusa corre al vascello, mentre Orso tenta di sbarrarle la fuga. “No! Non dei fuggir da qui; devi esser mia!” (Quando si dice l’ossessione!). “Seguimi!” gli intima lei, slanciandosi sul vascello. “Sei mio! – afferma la presunta preda. “Per sempre perduto!”. E l’orchestra lo sancisce con un pieno accordo di tonica (si bemolle maggiore).

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Tale il non eccelso il libretto, di cui completerò l’analisi (con l’indicazione del contesto letterario di riferimento) nel prossimo post. Ma la musica…, quella è un’altra cosa! E ne parleremo in seguito.