martedì, marzo 24, 2020

DANTE E IL PUSILLANIME



Dante in un dipinto della Cappella della Maddalena nel Bargello di Firenze
Dante
chiuso nel suo elegante ‘lucco’ rosso.
Firenze, Bargello, Cappella della Maddalena.
Oggi si tende ad attribuirlo, invece che a Giotto, a qualche suo discepolo.
Ma è quasi certo che il cartone preparatorio fosse di Giotto,
che aveva conosciuto Dante, se non prima, almeno al tempo dei suoi lavori a Padova.



Tra le non molte iniziative culturali recenti degne di nota è certamente la decisione di consacrare una giornata (25 marzo) alla celebrazione annuale della “nostra maggior Musa”, di cui l’anno prossimo ricorre il settimo centenario della morte. Purtroppo la celebrazione inaugurale non parte sotto buoni auspici. Quest’anno, infatti, la data prescelta cade nel bel mezzo dell’epidemia.  Tuttavia, a dispetto del coronavirus, voglio festeggiare a mio modo l’Alighieri presentandovi un brano della sua opera.  
Non è tratto dalla Divina Commedia (a qualcuno potrebbe parere scontato o difficile!), bensì da un’opera relativamente minore, e per giunta incompiuta (proprio per il sovrapporsi di un progetto ben altrimenti ampio e profondo – la Divina Commedia – che finirà per assorbire anche il progetto precedente).  È tratto dal I libro del Convivio, ed è un passo in cui viene abbozzato il profilo del pusillanime. Lo so, è un vocabolo quasi scomparso dalla lingua corrente. Eppure è molto espressivo, e le considerazioni svolte da Dante più di sette secoli fa mi sembrano straordinariamente attuali. Non ci credete? Vediamo.

Anzitutto, trattandosi di un vocabolo poco conosciuto, un po’ di etimologia.
Deriva dal latino pusillanimis (ma anche pusillanimus, da cui il dantesco “pusillanimo”), composto di pusillus e animus. L’aggettivo pusillus significa “piccino”, “piccolino”, e, in accezione figurata, “ristretto”, “angusto”, “meschino”, “gretto” e simili. Accostatelo ad animus (“animo”, “anima”, “mente”, “sentimenti”…) e avrete il significato di “pusillanime”.



Li malvagi uomini d’Italia


All’inizio del Convivio, Dante discute, con la sottigliezza di chi si era formato alla filosofia “scolastica” (quella di Tommaso d’Aquino, per intenderci), le ragioni che lo hanno spinto a scegliere, per il suo trattato, il volgare invece dell’usuale lingua latina. Tra le varie ragioni richiamate, due sembrano oggi più interessanti. La prima è di ordine, diciamo così, politico-morale, di democrazia: dare la possibilità di leggerlo – data la grande importanza dei temi trattati: amore e virtù – anche a chi non ha avuto la possibilità e l’agio di familiarizzare con la lingua latina. La seconda è di natura sentimentale: “lo naturale amore de la propria loquela”, cioè della propria lingua materna; “l’amore ch’io porto al mio volgare”. Un “amore perfettissimo”, il suo, che, come qualunque amore autentico, comporta anche la difesa della cosa amata contro i detrattori.
Ed eccoci al tema, affrontato nel cap. XI del I Trattato.


A perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d'Italia, che commendano [lodano] lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano, dico che la loro mossa viene da cinque abominevoli cagioni [ragioni]. La prima è la cechitade di discrezione [mancanza di discernimento, incapacità di formarsi una fondata opinione personale]; la seconda, maliziata escusazione [scusa inventata ad arte per giustificare le proprie deficienze]; la terza, cupidità di vanagloria; la quarta, argomento d'invidia; la quinta e ultima, viltà d'animo, cioè pusillanimità.

Trascuriamo le prime quattro retadi [“reità”, cioè colpe] e soffermiamoci sull’ultima, anche se la terza, la cupidigia di vanagloria, si accompagna, non di rado, a quella che qui ci interessa maggiormente.

La quinta e ultima setta [setta: “gruppo di persone associate da un comune modo di pensare, per lo più acritico”] si muove da viltà d’animo. Sempre lo magnanimo si magnifica in suo cuore, e così lo pusillanimo, per contrario, sempre si tiene meno che non è.  E perché magnificare e parvificare [contrario di “magnificare”, dunque “rendere, fare piccolo”] sempre hanno rispetto ad alcuna cosa, per comparazione a la quale si fa lo magnanimo grande e lo pusillanimo piccolo, avviene che ’l magnanimo sempre fa minori li altri che non sono, e lo pusillanimo sempre maggiori.  E però che con quella misura che l’uomo misura sé medesimo, misura le sue cose, che sono quasi parte di sé medesimo, avviene che al magnanimo le sue cose sempre paiono migliori che non sono, e l’altrui men buone: lo pusillanimo sempre le sue cose crede valere poco, e l’altrui assai.  Onde molti per questa viltade dispregiano lo proprio volgare, e l’altrui pregiano: e tutti questi cotali sono li abominevoli cattivi [“vili”] d’Italia che hanno a vile questo prezioso volgare, lo quale, s’è vile in alcuna [cosa], non è se non in quanto elli suona ne la bocca meretrice di questi adulteri [tali in quanto amano la lingua altrui trascurando la propria]; a lo cui condutto vanno [“alla cui guida si affidano”]  li ciechi de li quali ne la prima cagione feci menzione.
Tale la situazione in Italia settecento e passa anni fa.

E oggi?

Ora, pensate al modo di esprimersi di tantissimi nostri concittadini – specialmente quelli che si piccano di politica – nei programmi televisivi, sui giornali, nei cosiddetti social, e persino nella comune conversazione; pensate agli innumerevoli anglismi di cui infiorettano il loro misero italiano, e chiedetevene le ragioni.
Se lasciamo da parte il ricorso all’inglese per ragioni strumentali, truffaldine, a imitazione del latinorum di don Abbondio (su tale uso v. post sulla neolingua orwelliana), sono convinto che  molti di voi richiameranno, al primo posto, quella che Dante classifica come terza, la cupidità di vanagloria, la futile ricerca di “gloria” (o, meglio, “gloriuzza”), la sciocca ostentazione di una presunta superiorità.  E certo, almeno in parte, è così (e il “richiamo del gregge”, poi, completa l’opera). Del resto, quanto la “superiorità” di questi tali sia, appunto, presunta, molto spesso è evidente già nelle storpiature o nelle forzature di pronunzia, e a volte dal significato forzosamente attribuito alla parola straniera, non di rado improprio, o addirittura inedito, rispetto a quello autentico della lingua originale.

Ma, in genere, questa cupidità di vanagloria è espressione di un atteggiamento psicologico più profondo, e – ciò che più conta – più pernicioso, che è appunto quella pusillanimità di cui parla l’Alighieri.  È più pernicioso perché spesso questa disistima di sé e delle proprie cose travalica l’ambito linguistico, per sfociare in una sorta di nazionalismo alla rovescia, di razzismo (o autorazzismo) nazionale. Noi Italiani, secondo questi nostri connazionali, siamo congenitamente inferiori, segnatamente rispetto ai Tedeschi, ma anche rispetto a molti altri. Pensate: una parte della nostra classe dirigente (alcuni sono ancora viventi e, purtroppo, ancora attivi in politica) ha giustificato le progressive cessioni di sovranità proprio in questo modo. Noi Italiani – dicevano (e dicono!) – siamo incapaci di autogoverno (e dire che a governare c’erano proprio loro!) e dunque, per evitare di far danni, abbiamo bisogno del vincolo esterno, abbiamo bisogno che altri – segnatamente Tedeschi e Francesi – ci tengano a freno… Un’argomentazione, questa, alla quale bisognerebbe rispondere – come si diceva in altri tempi – non con le parole ma “con le coltella!”. E perciò, lasciamo stare il coltello, e tronchiamola qui. Non prima, però, di aver notato, ancora una volta, l’attualità di Dante. Se in qualche cosa la lingua italiana è vile – diceva – è proprio nel fatto di risuonare ne la bocca meretrice di questi adulteri. Lo stesso accade oggi: se qualche ragione si può trovare di una presunta inferiorità del popolo italiano rispetto ad altri popoli,  essa sta proprio in questo: nel fatto di dover annoverare tra i propri concittadini questi detrattori, questi signori che dalla inettitudine (o disonestà) propria argomentano l’inettitudine (o disonestà) di un intero popolo.

cimabue, Madonna in trono
La Madonna in trono (La Maestà)
di Cimabue
chissà quante volte ammirata da Dante in Santa Trinita
(“Il nome del bel fior che sempre invoco / e mane e sera”…)


Dante provinciale?

Prima di concludere vorrei prevenire un’eventuale obiezione: l’accusa di provincialismo nei confronti di Dante.

Un’accusa del genere proverebbe solo l’ignoranza di chi s’arrischiasse a muoverla. Tale non era, Dante, né sul piano politico né su quello culturale e linguistico. Amava svisceratamente la sua ingrata Firenze, ma amava l’Italia, tutta l’Italia, “giardino de lo imperio”, da “Turbia” al “Carnaro / ch’Italia chiude e suoi termini bagna” (tranquilli, amici francesi; state sereni, amici croati: non sto facendo rivendicazioni territoriali, sto soltanto tracciando i confini dell’Italia fisica come li conosceva Dante!); dalle Alpi a “quel corno d’Ausonia che s’imborga / di Bari, di Gaeta e di Catona”, alla Sicilia, alla Sardegna… Politicamente disunita, ma spiritualmente una. Eppure, per ragioni politico-religiose, ama e sostiene Arrigo VII di Lussemburgo nel suo generoso tentativo di restaurare, anche in Italia, l’autorità imperiale. (Attenzione: Dante lo appoggia, con ogni mezzo, non perché ritenesse inferiori gli Italiani, ma perché era convinto che solo un monarca universale – di tutto padrone e di nulla bisognoso – potesse rimediare agli egoismi individuali e particolari connaturati in tutti gli uomini!).
E tale non era sul piano linguistico e culturale: nella sua opera si mostra bene informato sulla situazione politica di tutti gli Stati d'Europa dell'epoca; studiò e apprezzò tutte le parlate italiane con cui, direttamente o indirettamente, venne in contatto; conobbe sicuramente la letteratura e probabilmente la lingua francese (langue d’oil); conobbe certamente la poesia e la lingua provenzale (langue d’oc). Quest’ultima – oggi ridotta al rango di dialetto! – conobbe talmente bene da far parlare nel suo idioma, sul finire del XXVI del Purgatorio, il più illustre campione del trobar clus provenzale (trobar clus: “poetare chiuso, volutamente difficile”): Tan m’abellis vostre cortes deman, / qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire: / Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan”… (“Tanto mi piace la vostra cortese domanda, che a voi né posso né voglio nascondermi: Io sono Arnaut, che piango e vado cantando…”). Né fu seguace o promotore di un purismo rigido, alla maniera del Puoti o dell’Arlìa. Ma le parole straniere usava, convenientemente adattandole, quando lo riteneva necessario, per ragioni di proprietà semantica o di convenienza estetica. Come, per limitarmi al primo esempio che mi viene in mente, la parola preziosa “dolzore” (adattamento del provenzale dolzor = dolcezza) nel XXX del Paradiso: “Noi siamo usciti fore / del maggior corpo al ciel ch’è pura luce: / luce intellettual piena d’amore, / amor di vero ben pien di letizia, / letizia che trascende ogni dolzore”. E con questa splendida progressione poetico-musicale che descrive l’Empireo – a millemila miglia dalle beghe di “quest’aiuola che ci fa tanto feroci” – vi saluto, dandovi appuntamento al prossimo post.  

scorcio dell'interno del Battistero di Firenze

Uno scorcio del Battistero di Firenze
“il suo bel San Giovanni”
rimpianto, incessante anelito degli anni d’esilio.

martedì, marzo 10, 2020

Omaggio al drammaturgo Aldo Nicolaj nel centenario della nascita.


foto di Aldo Nicolaj

Aldo Nicolaj
(da Wikipedia)



Il 15 marzo prossimo ricorre il centenario della nascita di Aldo Nicolaj. È un drammaturgo italiano (nato a Fossano nel 1920 e spentosi a Orbetello nel 2004), insignito di vari riconoscimenti, e tuttavia forse più noto e amato all’estero che in patria.
Io stesso lo conobbi all’estero. Ne ebbi un’ottima impressione, e perciò mi sento quasi in obbligo di rendergli omaggio con la mia modesta testimonianza.
Era il 5 febbraio 1993. A Lubiana – fiera della riconquistata indipendenza – si dava la sua Classe di ferro (tradotta in sloveno col titolo Prva klasa, letteralmente “Prima classe”).
Al “Mala Drama” era atteso anche l’Autore, in ritardo per la nebbia. Nel frattempo ebbi modo di scambiare qualche parola col regista Babič, un uomo di grande modestia; originario dell’Istria slovena – diceva – ma abitante perlopiù a Trieste, dove aveva lavorato – e continuava a lavorare – per la TV slovena.
Verso la fine della rappresentazione arrivò, finalmente, Nicolaj, giusto in tempo per condividere con gli interpreti gli applausi e l’entusiasmo del pubblico.

“Avrei preferito andare a letto” mi confida mentre, in gruppo, ci rechiamo al ristorante. “Sono in piedi dalle sei”. Poi, forse stuzzicato da qualche mia attestazione di stima, accenna a un moto di rammarico per la scarsa accoglienza riservata alle sue opere in Italia.

A tavola ci sono i tre attori, il regista, Valeria (una gran bella ragazza incaricata delle pubbliche relazioni del teatro), un uomo che non conosco e che non parla quasi mai (forse l’autista), e, naturalmente, l’Autore. Gli attori affermano che nel recitare quest’opera si sono essi stessi divertiti. Nicolaj racconta che in Francia, dopo una rappresentazione di questa sua commedia davanti ad anziani e specialisti di geriatria, invitò i presenti a discutere. Ma non accenna al contenuto di quelle discussioni. Spiega, invece, il retroterra delle sue composizioni: “Non so guidare, perciò vado a piedi, o in autobus, e ascolto e… rubo”. Parla anche dell’inizio della sua collaborazione con la Borboni. Fu lei a chiedergli espressamente un monologo per una “puttana”; Nicolaj rispose facendo modestamente rilevare l’incongruità di quella professione con l’età della Borboni. L’anziana attrice parve arrendersi. Ma la sera dopo gli telefonò: “In Via Veneto ho conosciuto una puttana di 65 anni con la quale ho parlato per molto tempo; le ho posto il problema e le ho promesso che andrai a trovarla; pago io, ma ci devi andare, e mi devi scrivere il monologo”. “Naturalmente non ci andai – conclude. – Ma il monologo lo scrissi lo stesso”. Dice anche, visibilmente compiaciuto, che in quei giorni ben ottanta teatri russi stavano rappresentando opere sue.

Permettetemi, a questo punto, di aprire una parentesi per dedicare qualche riga alla bravissima interprete di Ambra, l’attrice Iva Zupančič, da un paio d’anni passata anche lei, purtroppo, nel mondo dei più.


foto dell'attrice Iva Zupančič
L’attrice Iva Zupančič (1931-2017)
(dal sito drama.si)
Nella conversazione, l’Autore – com’è ovvio – è conteso da tutti, e io, seduto al suo fianco, ritengo mio dovere restare un po’ defilato. Converso, perciò, soprattutto con l’attricenon più giovanissima (aveva 61 anni) ma ancora piacente e, soprattutto, molto garbata e simpatica. Si parla di vari argomenti. Di teatro, naturalmente (e scopro con soddisfazione che neanche a lei è piaciuto il tanto osannato Re Lear con la regia di Jovanović presentato l’autunno precedente); di Burri (aveva visitato la mostra appena inaugurata alla Moderna Galerija e ricordava di aver già visto una sua mostra a Venezia, forse nel ’60); di De Chirico, di cui desiderava tanto di aver l’occasione di vedere qualcosa. E, naturalmente, anche di cibi. Loda la bontà dei ristoranti italiani, almeno quelli di Londra. Nei ristoranti italiani di Londra – dice – posso andare sicura di mangiar presto e bene, e senza eccessive preoccupazioni per la mia non molto fornita borsa di attrice.

Ma torniamo a Nicolaj.

L’entusiasmo del pubblico si rinnova, la sera dopo, alla recita di alcuni suoi monologhi affidati alla brava Polona Vetrih. L’Autore è presente ma defilato.
A fine spettacolo la Vetrih si volge verso un palco di destra e dice in italiano: “Caro Aldo, grazie!”. Il palco s’illumina. Ed eccolo, Nicolaj, in piedi, restituire il ringraziamento. “Grazie – riprende l’attrice – di questi bei monologhi che reggono a Lubiana da ormai ben cinque anni!”.
Mentre la sala comincia a sfollarsi, corro nel palco a congedarmi dall’autore. Lo trovo molto compiaciuto. Nel breve colloquio accenna alla bravura dell’attrice, al fatto che tra breve dovrà incontrare il Presidente della Repubblica, alla storia del III dei monologhi recitati. “Mi fu chiesto dalla Magnani”, spiega. “– Voglio un monologo! – mi disse in tono perentorio.  – Un monologo per una donna che ancora scopa! –”.
   
Grazie anche da parte mia, Aldo Nicolaj. Chiudo con l’auspicio che questa ricorrenza rilanci (come pare stia già accadendo) le tue opere, che meriterebbero, nella tua patria, più ampio riconoscimento. E con l’invito, a chi legge queste righe, di andare a vedere – o almeno leggere – questa Classe di ferro, questa… “Prima classe”, come dicono gli Sloveni. Una commedia amara (ma divertente!), un testo oggi più attuale che mai, se è vero che, lanciata da un ‘intellettuale progressista’, va diffondendosi l’inedita convinzione che gli anziani siano, per definizione, nemici delle nuove generazioni (cioè dei propri figli e nipoti!), e vadano perciò privati quantomeno del diritto di voto!