domenica, luglio 08, 2018

Newspeak, o neolingua, nella lotta politica attuale



Governanti e condottieri allergici alla morale non hanno avuto bisogno di attendere la codificazione di Machiavelli per applicarne i princìpi. Così, da tempo immemorabile, chi è interessato alla manipolazione delle coscienze fa ricorso alla manipolazione linguistica. (Anche se oggi questo strumento risulta ampiamente surclassato dall’uso truffaldino delle immagini – disegni, foto, video – variamente manipolate: contraffatte, decontestualizzate, reinterpretate…). E quindi non è detto che gli espedienti cui accenneremo siano direttamente riconducibili agli ‘insegnamenti’ di Orwell. È vero invece che lo scrittore inglese ci aiuta a identificarli.

Partiamo dalla fine: la riscrittura dei classici

Ricorderete che il post precedente si concludeva con un accenno alla manipolazione dei classici, tradotti in neolingua. Vorrei ripartire proprio da qui. O, più precisamente, dalla reinterpretazione delle opere teatrali, in particolare delle opere in musica, oggi bersaglio privilegiato di registi e scenografi indifferenti ai valori musicali, ma ben attenti al successo e al denaro. Per brevità mi limito a un solo esempio tra tanti, scegliendolo tra quelli più recenti.
Probabilmente tutti conoscono la trama della Carmen di Bizet, ambientata nella Spagna ottocentesca. Nel dubbio, ecco qui un riassunto telegrafico.
Don Josè, brigadiere dei dragoni, soccombe al fascino e alle seduzioni di Carmen, una zingara… Ups, eccomi caduto nel politicamente scorretto: dovevo dire “rom”. E se era “sinti”? In fondo, io mica li distinguo. Facciamo così: in luogo del proibito "zingara" userò il corrispondente vocabolo spagnolo. Mi consentite di chiamarla “gitana” senza accusarmi di razzismo? Grazie, la chiamerò così. Don Josè – dicevo – soccombe alle seduzioni di Carmen, una gitana arrestata per rissa con uso di coltello. La lascia scappare e, per amore, da gendarme si fa contrabbandiere e bandito, pur tormentato da continui soprassalti di rimorso. Ma quella che per lui è passione fatale, per Carmen è un capriccio passeggero, presto sostituito dall’amore per Escamillo, il torero in auge al momento. A nulla valgono le suppliche dell’amante tradito. Carmen, gelosa della sua libertà, gli risponde in maniera sprezzante e – com’è nel suo carattere – provocatoria. Accecato dalla gelosia, don Josè mette mano al coltello. Un omicidio passionale in piena regola, da qualche tempo ridefinito “femminicidio”, nella speranza (fondata?) che un mutamento di vocabolo contribuisca a risolvere questa tragedia sociale. Quale migliore occasione per una riscrittura politicamente corretta?

don José disperato, con ai piedi Carmen uccisa e a fianco una donna allibita dalla scena
don José uccide Carmen (partic.)
(dal blog di Monica Cadoria)

E infatti, qualche mese fa, a Firenze, un tizio a caccia di “gloria” a costi stracciati, da regista reinventa la storia, offrendo, a spettatori presunti annoiati dalla musica e sessualmente intorpiditi, un intrattenimento a base di scenette più o meno piccanti. Ma il vero colpo di genio si svela nel finale. L’affascinante gitana dismette l’odioso ruolo di vittima della fatale passione amorosa del maschio per assurgere a quello – politicamente corretto – di vindice di tutte le donne offese, di tutte le vittime di “femminicidio”. Così la fosca tragedia della passione fatale qual era in Mérimée (autore del racconto originale), temperata ma non tradita dai librettisti e soprattutto dalla musica immortale di Bizet, si avvia a diventare altra cosa. A farla finire in farsa ci pensa la banalità del destino: alla prima rappresentazione, per ben due volte la vendicatrice preme il grilletto vendicatore, e altrettante volte la pistola di scena risponde con beffarda cilecca. Mentre Don Josè si accascia inspiegabilmente a terra, forse colpito da infarto. Tra i fischi e gli urli dei musicofili traditi, e lentusiastica approvazione del Nardella.

Manipolazione ideologica della lingua italiana

Prima di cominciare questo paragrafo, permettetemi una premessa superflua per i più, necessaria per qualcuno. Sia chiaro che quando segnalerò l’uso a mio modo di vedere strumentale, o addirittura truffaldino, di certe espressioni, mi limito a considerare la natura ideologica di tale l’impiego, mentre lascio assolutamente impregiudicata la plausibilità o meno dell’ideologia che sta dietro. Affrontare seriamente simili problemi richiederebbe trattazioni lunghe e articolate, fuor di luogo in un blog dedicato alla musica e alla letteratura, e ai linguaggi che le esprimono. 
   
Bene. Diciamo, anzitutto, che oggi, in Italia, la prima fonte di espressioni usate per nascondere più che per esprimere è proprio l’inglese in quanto lingua “alta” (espediente cui ricorreva già il vecchio don Abbondio, con il suo latinorum, per confondere le idee al povero Renzo!). È vero che molte persone nobilitano il nostro volgare – inguaribilmente “provinciale” – inzeppandolo di espressioni inglesi (molto spesso storpiate nel significato e/o nella pronuncia) per pura vanità, o per dimostrarsi “non provinciali” (ignari del fatto che la lingua italiana, da loro non sempre ben conosciuta, sia la quarta lingua più studiata al mondo, dopo la koiné inglese, lo spagnolo, e il cinese). Ma i politicanti, oltre che per queste ragioni, lo fanno anche a scopo truffaldino. Un esempio per tutti: l’ineffabile jobs act

Pinocchio ingannato dal Gatto e la Volpe allusivi al Fronte formato dacomunisti e socialisti
Reinterpretazione delle Avventure di Pinocchio, in chiave anticomunista
(copertina di un fumetto del 1948: dal sito pinocchio-e-pinocchiate.blogspot)
 
Un serbatoio analogo è costituito dai cosiddetti linguaggi settoriali (soprattutto quello dell’economia), inesauribile miniera di parole presumibilmente “straniere” alla maggioranza dei cittadini comuni. Ma non disperdiamoci. Passiamo a spigolare qualche esempio tra le locuzioni più comuni (altri ne potrei fare, e tanti e tanti altri verranno in mente a voi!).
Ricordate bellyfeel? Ha il suo bravo corrispondente anche in italiano: è un sintagma avverbiale di formazione molto recente: “di pancia”. Ha lo stesso significato (sottolinea, appunto, l’irrazionalità di un’adesione non mediata dalla ragione), ma con una valenza politica opposta: nella nostra società è un disvalore. Proprio per questo l’uso ideologico che se ne fa è non meno orientato e tendenzioso. Questo è particolarmente evidente in un’altra locuzione, formata con la stessa figura: la “pancia dell’elettorato”. Parlare alla “pancia dell’elettorato” si dice di partiti o uomini politici rivali, per insinuare che essi fanno appello agli istinti, alle pulsioni più basse degli elettori. Derubricando a basso impulso irrazionale quelle che magari sono esigenze fondate e legittime, tradotte in scelte politiche pienamente razionali, benché legittimamente messe in discussione da chi segue un diverso orientamento ideologico. Per non dire di quelli che la usano nel senso di “rivolgersi a un segmento particolare degli elettori”, quelli metaforicamente ascrivibili alla “pancia”; elettori visivamente degradati alla sola funzione digestiva, escretoria. Con l’ovvio sottinteso di riservare arbitrariamente a se stessi, e ai propri seguaci, la funzione nobile di cervello, di “testa pensante”… Con una distinzione ben più cruda di quella del vecchio Menenio Agrippa. 
Garibaldi scaccia De Gasperi
Reinterpretazione del Risorgimento:
Garibaldi scaccia De Gasperi, diffamato come “austriaco”
perché nato in Trentino, al tempo parte dell’Impero austro-ungarico
(illustrazione ripresa dal sito loccidentale.it)
 
C’è poi la vasta categoria della lingua “politicamente corretta”. Non nego l’opportunità della sostituzione di qualche espressione effettivamente discriminatoria, come “negro”, giustamente sostituito con “nero” (mentre trovo ridicolo ed offensivo il tentativo di riverniciatura implicito nella locuzione “di colore”!). Ne rifiuto l’abuso. Prendete la parola “genere”, o addirittura gender, come preferiscono i seguaci di conduttrici e conduttori televisivi. Nell’uso inedito introdotto da movimenti d’opinione postnovecenteschi, essa si è appropriata vari significati tradizionalmente spettanti alla parola “sesso”. Perché? Perché la parola “sesso”, nella sua greve materialità anatomicamente determinata, è meno disponibile ad acconciarsi alle esigenze di chi, in materia, propone visioni largamente innovative. 
 

Controreinterpretazione del Risorgimento:
Garibaldi ammonisce gli elettori
denunciando l’indebita appropriazione della sua immagine
da parte del Fronte popolare
(dal sito flickriver)

 Oppure, per entrare nel campo più proprio delle blanket words, delle “parole-coperta”, pensate all’uso del suffissoide –fobia, estrapolato dall’ambito della patologia neurologica di sua pertinenza (agorafobia, claustrofobia ecc.), per formare parole come xenofobia, omofobia, addirittura islamofobia, composti chiaramente intesi a degradare a malattia psichiatrica un’opinione politica sgradita, così da liberarsi del noioso impiccio di confutarla con argomentazioni razionali! Pensate alla parola “razzista”, passata – in bocca a molte persone – dal significato proprio di “aderente a un’ideologia di presunta superiorità di una ‘razza’ umana sull’altra (con conseguente difesa della sua ‘purezza’)” a ingiuria pressoché onnicomprensiva. O pensate all’uso del neologismo “buonista” per condannare sbrigativamente un atteggiamento senza darsi la pena di provarne l’inadeguatezza. Riflettete all’uso ingiurioso di parole come fascista, che propriamente designa un preciso movimento storico e un ben determinato corpus di dottrine politiche. E “populista”? Che significa “populista”? Staccatosi dalla designazione storica (populismo russo del XIX sec.), oggi dovrebbe avere assunto il significato estensivo di aderente a un movimento “che tende genericamente all’elevazione delle classi più povere” (Diz. Garzanti); e non si vede che cosa, questa tendenza, abbia di intrinsecamente negativo fino fargli assumere, nei casi estremi, il significato di “qualcuno che si diverte a vedere affogare i bambini”. Mentre, sull’altro versante, non manca chi usa, come ingiuria sanguinosa, la qualifica di “comunista”: uno che i bambini non vuole farli affogare, perché preferisce mangiarseli!  Eh via! Lasciamo queste scempiaggini a chi non è capace d’altro. Torniamo a un uso razionale della lingua! Combattiamo le battaglie per le nostre idee con argomenti razionali. Probabilmente ci capiterà di smussarne le punte più aspre; in qualche caso ci potrebbe persino capitare – come effetto dello sforzo raziocinativo – di doverle addirittura cambiare. Con vantaggio della nostra coscienza. E di quanti ci circondano.



 La fine di Syme

Ah, a momenti me ne dimenticavo. E Syme? Si dissolse veramente come vapore, secondo le previsioni di Winston?
Ebbene sì. Ne dà il ferale annuncio George Orwell in persona, all’inizio del cap. V (cfr. post sulla lingua del GF); sempre il V (destino?), ma della Parte II, questa volta. Un bel giorno Syme non si presenta al lavoro. Soltanto quelli già parecchio avanti nell’arte di non pensare si posero qualche domanda. Il giorno dopo, nemmeno loro. Il terzo giorno Winston andò a dare un’occhiata alla lista del Comitato Scacchi a cui Syme era iscritto. La lista era lì, uguale a quella di sempre, ma invano l’occhio avrebbe cercato il nome di Syme. Nessuno, del resto, avrebbe mai ammesso di aver conosciuto un certo Syme, filologo, in servizio al Miniver. In nessun documento, in tutto il Superstato di Oceania, si sarebbe trovato il suo nome. Syme non era mai esistito!