giovedì, febbraio 02, 2017

Non sarebbe il caso di spegnere la musica?


Non si allarmino i miei quattro lettori. Non sono un talebano e non sto proponendo di bandire dalle nostre case, e dalla nostra vita, la musica, questa peccaminosa adescatrice. Al contrario. È proprio l’amore per la musica che mi spinge ad affrontare l’argomento odierno, quello delle conseguenze negative della pervasiva presenza della musica un po’ dappertutto: centri commerciali, locali pubblici, ristoranti, negozi, parcheggi, alberghi… Musica spesso di infima qualità (Muzak!), e, in ogni caso, musica non richiesta, alla cui fastidiosa ingerenza non troviamo scampo. E notate che non è solo un problema di gusto, di fastidio personale. Pensate, per esempio, alla condizione di una commessa forzatamente esposta, per otto ore al giorno, al bombardamento di musica rock a tutto volume. Alla lunga, molto probabilmente, svilupperà problemi di ipoacusia. Da subito, e senza incertezze, possiamo dire che al termine della giornata di lavoro non può non uscire rintronata. A meno che non impari a non ascoltare. (E confesso che quella d’imparare a non ascoltare, o meglio ad abituare l’orecchio a un ascolto selettivo, è l’unica strategia difensiva individuale che sono riuscito a elaborare).

campagna inglese

“Il silenzio è diverso dall’assenza di rumore. È qualcosa di positivo che viene dal didentro”, dice Scruton nel film documentario da cui è tratto questo fotogramma (At home in Scrutopia, con Alicja Glescinska). È vero, ma l’ambiente aiuta!



È un soggetto su cui rifletto da tempo. Se mi decido a parlarne ora è per via di un recente intervento, proprio su questo tema, del filosofo inglese Roger Scruton su Radio 4 della BBC. Scruton  affronta  il problema con sinteticità e completezza esemplari – e con la chiarezza che distingue un po’ tutti i suoi interventi – soffermandosi principalmente sui danni per l’orecchio e la sensibilità musicale. Ne risulta un testo utilissimo a stimolare la riflessione: anzitutto di quanti, a vario titolo e livello, si occupano di educazione musicale; ma anche, più in generale, di tutti quelli che amano la musica (e anche di quelli che non sanno di amarla!). Penso, quindi, di far cosa gradita presentandone la traduzione, non senza premettere qualche riga sull’autore (che ringrazio per la cortese autorizzazione). Se poi tutto questo invoglierà qualcuno a ricercarne in Internet la registrazione originale, sarà ancora meglio.

 
ritratto di Sir Roger Scruton

Sir Roger Scruton (dal sito www.roger-scruton.com)
Sir Roger Scruton è un filosofo e scrittore poliedrico. Al suo attivo ha già una quarantina di volumi e innumerevoli contributi minori. Affronta spesso argomenti scottanti di politica e di costume, esprimendo punti di vista ispirati a un conservatorismo che non disdegnerebbe il motto di Edmund Burke, scrittore politico del Settecento, che nella “propensione a conservare” e nella “capacità di migliorare” vedeva le qualità costitutive del perfetto uomo di Stato (“A disposition to preserve, and an ability to improve, taken together, would be my standard of a statesman”: “una sintesi di propensione a conservare e capacità di migliorare costituirebbe, per me, l’uomo di Stato ideale”!). Punti di vista talvolta condivisibili, altre volte discutibili, ma sempre stimolanti. Almeno per chi ricerca la verità senza condizionamenti preconcetti.
Ma il campo filosofico in cui Scruton si muove da vero specialista è quello dell’estetica. E qui la sua posizione sembra a me largamente condivisibile. Specialmente per quanto attiene alla musica, un ambito in cui Sir Roger può vantare anche un’esperienza diretta in veste di compositore  (pezzi per pianoforte, lieder – alcuni su testi di Garcia Lorca –, un paio di opere liriche…), anche se lui tende a minimizzare, proclamandosi niente più che un “amateur”, qualcuno che si siede davanti a un pianoforte “per puro divertimento personale”. La sua presa di posizione sul nostro argomento è dunque dettata da amore nutrito di competenza. Non ci resta che ascoltarlo. E... magari discuterlo.


Perché è ora di spegnere la musica

Oggigiorno quasi in ogni spazio pubblico gli orecchi sono presi d’assalto dal suono della musica pop. Nei centri commerciali, nei locali pubblici, nei ristoranti, alberghi, ascensori il rumore di fondo non è la conversazione umana, ma la musica rovesciata nell’aria da diffusori – di solito diffusori invisibili e inaccessibili, che non possono essere ‘puniti’ per la loro invadenza. Certi locali si caratterizzano con una sigla musicale loro propria – folk, jazz o brani di musical di Broadway. Ma, nella maggior parte dei casi, la musica prevalente è di una banalità stupefacente: in realtà, c’è per non esserci. È solo un sottofondo a un’attività volta al consumo, un avvolgente nulla sul quale noi scarabocchiamo i graffiti dei nostri desideri. Le forme peggiori di questa musica – dal nome commerciale nota a volte come Muzak – sono prodotte senza l’intervento di musicisti, trattandosi di pezzi tratti da un repertorio di effetti standard e montati al computer.
Il sottofondo sonoro della vita moderna è dunque di giorno in giorno meno umano. Il ritmo, che è il suono della vita, è stato largamente sostituito da impulsi elettrici, prodotti da una macchina programmata a ripetersi all’infinito, e a far penetrare le sue rimbombanti note di basso direttamente nelle ossa della vittima. Intere zone di spazio pubblico nella nostra società sono ora presidiate da questo suono, che esaspera alla follia chiunque abbia un minimo di sensibilità musicale, e garantisce che per molti di noi una capatina in un pub o un pasto al ristorante hanno perso il loro significato accessorio. Non sono più incontri sociali, ma esperimenti di resistenza: non si fa che gridare l’uno all’altro al di sopra di quel rumore infernale.
Ci sono due ragioni che spiegano perché questa musica vacua ha invaso ogni spazio pubblico. Una è il grande cambiamento apportato all’orecchio umano dalla produzione di massa del suono. L’altra è la mancanza di leggi volte a proteggerci dal risultato. Per i nostri antenati la musica era qualcosa che uno si metteva a sedere per ascoltarla, o farla da se stesso. Era un evento rituale, al quale si partecipava, passivamente come ascoltatore o attivamente come esecutore. In entrambi i casi si dava e si riceveva vita, condividendo qualcosa di grande importanza sociale.
Con l’avvento del grammofono, della radio e ora dell’iPod, la musica non è più qualcosa che dobbiate fare da voi stessi, o che dobbiate mettervi a sedere per ascoltarla. Vi segue dovunque andiate, l’accendete come sottofondo. Non è propriamente ascoltata, quanto sentita sbadatamente. Le melodie banali e i ritmi meccanici, le armonie prefabbricate riciclate canzone dopo canzone: queste cose significano l’eclisse dell’orecchio musicale. Per molte persone la musica non è più  un linguaggio formato dai nostri sentimenti più profondi, non è più un rifugio dalla pacchianeria e frenesia della vita d’ogni giorno, non è più un’arte in cui idee avvincenti sono seguite fino alle loro lontane conclusioni. È soltanto un tappeto sonoro destinato ad abbassare pensiero e sentimento al suo livello, per scongiurare l’eventualità che qualcosa di serio venga detto o avvertito.
E non c’è alcuna legge che vi si opponga. A voi è giustamente impedito di inquinare col fumo l’aria di un ristorante, ma niente impedisce al proprietario di infliggere ai clienti questo ben peggiore inquinamento; un inquinamento che avvelena non il corpo, ma l’anima. Naturalmente, voi potete ben chiedere di spegnere la musica. Ma vi troverete di fronte sguardi stupefatti, persino ostili. Che razza di sciroccato è questo tipo, che vuole imporre a tutti il proprio volere? Chi è lui per imporre il livello del rumore? Questa è la comune reazione. La musica di sottofondo è la condizione normale. Non al silenzio si ritorna quando si smette di parlare, ma al vacuo baccano della scatola da musica. Il silenzio deve essere escluso ad ogni costo, giacché vi fa aprire gli occhi sul vuoto che si profila inquietante al margine della vita moderna, minacciando di mettervi di fronte alla spaventosa verità che non avete proprio niente da dire. D’altra parte, se noi conoscessimo il silenzio per quello che era una volta, la docile materia a cui la vera musica dà forma, non ci spaventerebbe affatto.
Io penso che non dovremmo sottovalutare la tirannia esercitata sul cervello umano dalla musica pop. L’implacabile ripetizione, ad ogni momento del giorno e della notte, di banalità musicali porta alla dipendenza. Ed ha un effetto deleterio sulla conversazione. Ho l’impressione che la crescente incapacità di esprimersi dei giovani, la loro inettitudine a completare le frasi, a trovare locuzioni ed immagini espressive, o a dire una qualunque cosa senza ricorrere all’ausilio della parola “come”, abbia qualcosa da vedere col fatto che i loro orecchi sono costantemente imbottiti di bambagia. Nelle loro teste girano e rigirano le progressioni armoniche, le parole vuote e i frammenti immiseriti d’un motivetto orecchiabile, e la scatola cranica gli scoppia ad ogni inizio di battuta.
L’inquinamento della musica pop ha, sul gusto per la musica, un effetto paragonabile a quello della pornografia in ambito sessuale. Tutto ciò che è bello, speciale e pieno d’amore è sostituito da un meccanismo implacabile. Proprio come il pornodipendente perde la capacità di un autentico amore sessuale, così il popdipendente perde la capacità di una genuina esperienza musicale. Il magico incontro con il quartetto beethoveniano, la suite bachiana, la sinfonia di brahmsiana, nel quale tutto il vostro essere è afferrato da idee melodiche e armoniche e condotto in un viaggio attraverso l’immaginario spazio musicale – questa esperienza che giace nel cuore della nostra civiltà ed è un’incomparabile fonte di gioia e consolazione per tutti quelli che la conoscono – non è più una risorsa universale. È diventata una stravaganza privata, qualcosa cui resta aggrappato un gruppo decrescente di vecchietti, ma che molti giovani considerano irrilevante. Giovani orecchi via via più numerosi risultano incapaci di raggiungere questo mondo incantato, e quindi ci rinunciano. La perdita è loro, ma voi non potete farglielo capire, non più di quanto possiate spiegare la bellezza dei colori a chi sia nato cieco.  

Scruton al pianoforte

Al pianoforte (“en amateur”!): fotogramma dal film documentario At home in Scrutopia

 C’è rimedio? Sì, io penso di sì. L’orecchio assuefatto, reso ottuso dalla ripetizione, è sigillato come un mollusco bivalve attorno alle sue stupide perle. Ma potete forzarlo ad aprirsi con gli strumenti musicali. Mettete un giovane in condizione di far musica, e non di ascoltarla soltanto, e subito l’orecchio comincerà a risvegliarsi dal letargo. Insegnando ai bambini a suonare strumenti musicali, li facciamo familiarizzare con le radici della musica nella vita umana.
Il passo successivo consiste nell’introdurre l’idea della valutazione critica. La convinzione che esiste una differenza tra buono e cattivo, significativo e insignificante, profondo e insulso, emozionante e banale – questa convinzione una volta aveva un’importanza fondamentale nell’educazione musicale. Ma si scontra con la correttezza politica. Oggi c’è il mio gusto come c’è il tuo. L’idea che il mio gusto sia migliore del tuo è elitaria, un’offesa all’uguaglianza. Ma se non insegniamo ai bambini a valutare criticamente, a discriminare, a riconoscere la differenza tra musica di valore duraturo e il mero effimero, rinunciamo al compito educativo. La valutazione critica è la precondizione di una fruizione autentica, e il preludio alla comprensione dell’arte in tutte le sue forme.
La buona notizia è che, in cuor loro, le persone sono consapevoli di questo. Tutti quelli che hanno fatto l’esperienza di insegnare ad apprezzare la musica sanno che è così. Il primo passo è far conoscere il bene prezioso del silenzio, in modo che i vostri studenti tengano le orecchie ben aperte all’ascolto del cosmo, e comincino a dimenticare i piaceri non dissimili a quelli delle droghe. Poi suonate loro le cose che amate voi. Dapprima si mostreranno disorientati. Insomma, come può questo vecchiaccio starsene seduto in silenzio per 50 minuti ad ascoltare qualcosa che non ha un ritmo marcato, che non presenta un qualche motivo orecchiabile? Poi passate a discutere le cose che amano loro. Avevano notato, per esempio, che Lady Gaga in “Poker Face” per la maggior parte della melodia resta su una nota sola? È vera melodia, questa? Dopo un po’ si renderanno conto che loro fanno valutazioni da sempre – solo che le facevano sbagliate. Quando al festival di Glastonbury del 2014 apparvero i Metallica, ci fu un momento di presa di coscienza di questo genere: il riconoscimento che questi ragazzi, diversamente da tanti che si erano esibiti là, avevano effettivamente qualcosa da dire. Sì, ci sono differenze anche nel regno del pop.
La fase successiva consiste nel fare agire gli studenti: cantare all’unisono, e poi per parti corali. Ben presto capiranno che la musica non è una coltre per silenziare la comunicazione, ma una forma di comunicazione essa stessa. E gradualmente impareranno a conoscere il posto di questa grande forma d’arte nel mondo che hanno ereditato. La nostra civiltà è stata modellata dalla musica, e la tradizione musicale che abbiamo ereditato merita la nostra approvazione non meno di tutte le altre nostre conquiste nell’arte, nella scienza, nella religione e nella politica. Questa tradizione musicale parla da sé, ma per sentirla bisogna ripulire l’aria dal rumore.