lunedì, novembre 04, 2019

Roffredo Caetani: biografia


roffredo caetani al pianoforte
Giovane musicista
o
Principe di Bassiano?


Un musicista ignoto dal nome illustre

Il cognome Caetani è tra i più noti della storia d’Italia, non fosse altro che per il famoso  papa Bonifacio VIII, cui Dante attribuiva le sventure sue personali e quelle della sua città (e non senza ragione, per cui – da ammiratore del fiero “ghibellin fuggiasco” – io preferirei qualificarlo famigerato più che famoso!). Pochi, invece – anche nell’ambito musicale – conoscono l’ultimo esponente del casato, il musicista Roffredo Caetani, principe di Bassiano, duca di Sermoneta. Lo ignorano le storie della musica: non soltanto quelle più allineate alla furia innovazionista, come il manuale (in 3 voll!) di Cannarozzo e Cimagalli, ma anche il diffusissimo Massimo Mila; e persino Giulio Confalonieri, che pure in una conversazione alla Radio (1950) aveva registrato lo strepitoso successo a Basilea dell’Isola del sole, e ne aveva esaltato “la scrittura elegante”, la “costruzione musicale, salda e variata”, il  melodismo vocale ch’è intenso e comunicativo senz’essere mai enfatico o facilone”. Lo ignorano persino i repertori o dizionari enciclopedici, da quelli più modesti (la Garzantina, Allorto e Ferrari) a quelli più ponderosi. Invano lo cercherete nel Dizionario enciclopedico dell’opera lirica (ed. Le lettere), inutilmente nel monumentale Dizionario della musica e dei musicisti (Utet: 8 voll. di grande formato!) o nei 17 voll. di grande formato dedicati alle biografie della tedesca Die Musik in Geschichte und Gegenwart. Un po’ più di fortuna avrete inoltrandovi nella foresta dei 29 voll.  del New Grove Dictionary. Nel IV troverete un trafiletto di Raffaele Pozzi, da cui apprenderete che «il suo piccolo ma actractive corpus di opere è orientato verso le forme strumentali ottocentesche, in particolare quelle tedesche».

Eppure è un musicista di valore, riconosciuto, almeno all’estero, già ai primi del secolo. Persino in un ambiente all’epoca viziato da nazionalismo e normalmente ostile alla musica italiana com’era quello francese. Le Figaro (26 maggio 1903) gli riconosce «scrittura elegantissima ed elevatezza d’ispirazione»; «vi s’intravede una natura italiana naturalmente melodiosa, ma affinata dalla frequentazione dei grandi maestri classici e moderni». E arriva addirittura a formulare l’ipotesi che proprio da questo «connubio della franca e chiara melodia con la scienza armonica e strumentale» possa nascere nel futuro «una novella fioritura musicale». Auspicio forse un po’ troppo ottimistico, ma che sembrerebbe condiviso, ancora una ventina d’anni dopo, dal critico musicale della Vossische Zeitung, Max Marschalk, nella recensione alla prima weimariana dell’Hypatia. E, sempre in Germania, l’editore Schott di Magonza pubblica le sue opere, evidentemente riconoscendo loro un valore anche commerciale.
E allora? Perché questa… emarginazione? Cercheremo una risposta a conclusione di questo post. Prima è opportuno dare uno sguardo sintetico allo svolgersi della sua esistenza.

Una vita tutto sommato serena, ma segnata da una grande sciagura

Roffredo Caetani nasce a Roma il 13 ottobre 1871 in una famiglia che alla cura del patrimonio avito associa l’amore per la musica, tanto che Roffredo viene tenuto a battesimo nientemeno che da Franz Liszt. E sarà Liszt il suo primo “ammiratore”, segnalando al nonno Michelangelo le non comuni attitudini musicali del giovanissimo figlioccio. 
roffredo caetani giovinetto
Roffredo giovinetto
(notare la posa imitativa)
 Dopo aver studiato con Sgambati, De Sanctis e Tachinardi, Caetani, desideroso di allargare i propri orizzonti culturali, si reca a Berlino (fine novembre 1893 – fine aprile 1894), dove frequenta concerti, studia Schiller e Goethe, sviluppa simpatie per il buddismo e la filosofia di Schopehauer, compone un paio di opere strumentali e progetta una trilogia dal Ramayana (una passione, questa per la letteratura indiana, che – a mio parere – si alimenta dei contemporanei progressi negli studi di “grammatica comparata” e che, per limitarci solo a qualche esempio in campo musicale, ritroveremo nella Figlia del Re di Lualdi e in Sakùntala di Alfano). In tanto fervore di studi e di opere, poco tempo gli resta per i ricevimenti mondani. (Pare abbia fatto un’eccezione per una cena col Kaiser Guglielmo e consorte).
Da metà ottobre 1894 trascorre un paio di mesi a Vienna, riportandone una delusione. A Vienna, dice, si fa musica solo per divertire…, niente Wagner! Si consola con l’amicizia di Brahms (“la gentilezza in persona”), che però non condivide il suo entusiasmo per il creatore dell’Anello del Nibelungo.
Con il 1897, sostanzialmente concluso il periodo più propriamente formativo, comincia un periodo compositivo se non frenetico, certo piuttosto intenso: metà della produzione musicale di Caetani si situa a cavallo tra due secoli, tra il 1897 e il 1905 . Poi rallenta.
La composizione dell’opera che qui ci interessa, Hypatia, (v. introduzioni storiche qui e qui) è frutto di una lunga elaborazione. La stesura del libretto (che Caetani cura in proprio, sull’esempio dell’ammirato Wagner) dura abbastanza a lungo (appare nel 1910, preceduto – 1908 – da una versione in francese), certamente anche per la necessità di studi preparatori in campo filologico, storico e filosofico (v. riassunto). Ancora più impegnativa, ovviamente, la composizione musicale. Lavoro, peraltro, intralciato da incombenze di altra natura. 

Miss Marguerite Chapin
Miss Marguerite Chapin
nell’intimità della sua abitazione parigina
al tempo in cui conobbe Roffredo Caetani
(Vuillard, 1910)
Nel frattempo, infatti, l’ormai affermato musicista aveva trovato moglie, l’americana Marguerite Chapin. Roffredo la conosce a Parigi, dove lei studia canto, la sposa a Londra, e la porta a vivere a Versailles (1911), in quella Villa Romaine che presto diventerà luogo d’incontro e discussione di letterati e artisti.
Altra ‘distrazione’ dal lavoro attorno a Hypatia è la guerra (Caetani vi prende parte, volontario, da maggio 1916 ad agosto 1917). Ad ogni modo, nel 1918 la partitura dell’opera è ormai completa, ma per la pubblicazione dovrà aspettare il 1924. E solo due anni dopo vedrà, finalmente, la prima esecuzione (Weimar 1926), coronata da successo di pubblico e critica (sia pure non senza qualche riserva).

Nel frattempo l’attività compositiva del musicista langue, probabilmente ostacolata da altri interessi. Tra l’altro, va ricordato che l’entusiasmo attorno agli incontri letterari di Villa Romaine aveva convinto la signora Caetani a fondare una rivista letteraria (Commerce, 1924) che dirige personalmente – certo con la discreta ma solerte collaborazione del marito – fino al 1932, quando il principe decide di trasferirsi con la famiglia nel castello di Ninfa, presso Sermoneta. La sua attività principale, in questo periodo, è probabilmente l’amministrazione del patrimonio familiare.
Marguerite Chapin Caetani
La signora Caetani
Nel 1939 un primo, importante riconoscimento ufficiale: la nomina ad accademico di Santa Cecilia. Breve soddisfazione, presto offuscata da un’immane sciagura. Il 15 dicembre 1940, sul fronte d’Albania, cade, a 25 anni, Camillo Caetani, suo unico figlio maschio, mettendo così fine a una dinastia che per almeno otto secoli aveva influito, nel bene e nel male, nella storia d’Italia.
Il tremendo lutto viene lentamente elaborato. Il 30 gennaio1943, il Teatro dell'Opera di Roma esegue L'isola del sole. A fine guerra la famiglia si trasferisce a Roma, nello storico palazzo del casato, in Via delle Botteghe Oscure. Riprendono gli incontri artistico-letterari, ancora una volta animati dalla signora Caetani che dà vita a una nuova rivista (Botteghe Oscure) che ospiterà scritti di molti tra i principali autori dell’epoca (Tomasi di Lampedusa, Arpino, Anna Banti, Bassani, Calvino, Cassola, Dessì, Carlo Levi, Silone, Pratolini, Soldati, Petroni, Moravia, Brancati, Saba, Montale) oltre a scrittori francesi e anglo-americani.
Nel 1958 ebbe il conforto di vedere trasmessa in Italia (domenica 19 gennaio, terzo programma della radio) la sua indimenticabile Hypatia, diretta da F. Previtali. Nell’intervista concessa per l’occasione alla scrittrice e giornalista Liliana Scalero il compositore ormai ultraottantenne rivela il desiderio di continuare a scrivere (“dei piccoli pezzi sacri e un po’ di musica da camera”. Non so se riuscì a realizzare il suo proposito. Morì solo tre anni dopo (11 aprile 1961), non a Roma come comunemente si crede, bensì a Ninfa, dove si era ritirato. L’Accademia Filarmonica Romana volle onorarne la memoria con un concerto in cui furono eseguite la Sonata per violino e pianoforte, le Dodici variazioni su Chopin e il Trio per pianoforte, violino e violoncello.

Roffredo Caetani nel secondo dopoguerra
Il musicista nel secondo dopoguerra


Perché sconosciuto in Italia

Il problema se l’era già posto Vito Raeli nel 1943. Nella prima parte di un articolo dedicato alla prima dell’Isola del sole, Raeli distingue, accanto ai musicisti professionisti (che esercitano l’arte per guadagnarsi da vivere), la categoria dei “musicisti non professionisti”, i cosiddetti “dilettanti” in senso nobile. E aggiunge:  
«Da qualche tempo, in particolare nel settore della cronaca e della critica giornalistica, si nota il ripetersi ad ogni occasione, del piglio ostentatore di una tal quale indifferenza, quasi anzi il proposito di non fare attenzione – e quindi di tacerne o di discorrerne appena un tantino e senza molto impegno o approfondimento, e pertanto con pochissimo e nessun rispetto – delle opere di musicisti non di professione».
Questo atteggiamento, diffuso quanto ingiustificato, spiegherebbe il contrasto, riscontrato alla prima dell’Isola del sole, tra il favore del pubblico e le riserve di alcuni “frettolosi giudizi critici”. E non manca di sottolineare che Hypatia, nonostante il notevole successo ottenuto a Weimar e in altri due teatri stranieri, non era mai stata eseguita in Italia.
Un’altra spiegazione potrebbe essere suggerita da una lettera di Bruno Walter. Stando a quanto riferito da Luigi Fiorani, il celebre direttore d’orchestra, sollecitato a rappresentare Hypatia all’Opera di Vienna, avrebbe risposto negativamente perché «il senso di musicalità elementare del pubblico che frequenta il teatro esclude che possa godere a pieno di un’opera che può essere eseguita soltanto sotto particolari presupposti». Ora, è vero che la creazione di Caetani non è di immediata accessibilità né per il testo né, ancor meno, per la musica. Tuttavia il successo di Weimar testimonia, a mio parere, che si tratta di una scusa diplomatica (peraltro, non so quanto credibile, e creduta!). E, d’altra parte, la vera o presunta difficoltà della sua musica potrebbe, forse, spiegarne la scarsa popolarità, non il silenzio degli addetti ai lavori. Si pensi a Busoni, di qualche anno più anziano, anche lui più incline alla musica strumentale e interessato a qualunque segno di innovazione: lo ignora completamente; salvo errore da parte mia, non c’è traccia, in nessuno dei suoi scritti, del nome di questo suo non trascurabile collega.
Per quanto mi riguarda, io direi che la ragione più fondata sia quella esposta da Raeli: in sostanza, la sua qualità di outsidercome si direbbe oggi. Ad essa si potrebbe aggiungere il lungo tempo trascorso all’estero, la sua predilezione per generi strumentali, il fatto che i primi successi d’importanza internazionale li avesse ottenuti a Parigi (anche per il solerte interessamento dell’influentissima contessa Greffuhle, come egregiamente dimostrato da Mariantonietta Caroprese). E, non ultima, l’aristocratica riservatezza del duca, felice del successo ma restìo a ricercare appoggi e notorietà.

 
Camillo e Lelia Caetani in un dipinto di Vuillard
Camillo e Lelia Caetani
(Vuillard, 1921)


Riconoscimenti:

-      la bibliografia da me consultata è abbastanza vasta; in questa sede devo limitarmi a citare, tra i contributi più recenti, i saggi contenuti nei «Quaderni di Ninfa /3» (Latina 2011) e, particolarmente importante, il volumetto Roffredo Caetani. Un musicista aristocratico, Atti della «Giornata di studio» (Latina, 23 nov. 2012), curato da Mariantonietta Caroprese, che ne firma anche il primo saggio (Appunti sulla formazione musicale e sull’itinerario artistico dell’ultimo duca di Sermoneta).
-       le foto sono tratte dal sito della Fondazione Roffredo Caetani (I, III e IV), dal citato numero dei «Quaderni di Ninfa» (II e V), dagli Atti della «Giornata di studio» (VI).



venerdì, ottobre 25, 2019

Caetani, Hypatia: “Inno alla Bellezza”


fior di loto, simbolo di rinascita
Fior di loto, comune nell’antico Egitto.
A Ipazia dovette essere particolarmente caro,
non solo per la sua bellezza,
ma anche in quanto simbolo di rinascita
(cfr. mito di Er, da Cetani inserito nel suo dramma)



L’inno qui presentato non è propriamente di Ipazia, la studiosa alessandrina – nota più per la tragica fine che per i suoi celebri ma perduti studi di matematica e astronomia – alla quale ho dedicato due post, disponibili – chi volesse leggerli – in questo blog (la studiosa alessandrina; sua tragica fine).  Bensì della sua reincarnazione poetica nel melodramma Hypatia di Roffredo Caetani, dove il nome greco della protagonista è trascritto alla latina (puoi vederne il riassunto qui).
Per renderlo fruibile anche a chi ignora i post precedenti, premetterò una breve introduzione, necessaria alla contestualizzazione, e farò seguire qualche spunto di analisi, utile a una corretta interpretazione inquadrata nel contesto storico-culturale appropriato.  

erma del cosiddetto Omero Caetani

Omero “Caetani”
(erma del Museo del Louvre
Nella creazione del Caetani – che nell’essenziale rispetta i dati storici – l’insigne studiosa, sostegno e riferimento degli ultimi pagani di Alessandria (e perciò malvista dai cristiani), è amata da Oreste, Prefetto imperiale dell’Egitto. Hypatia vorrebbe ricambiarlo, ma quell’amabile governatore troppo è lontano dal sublime ideale di lei.
Ed è proprio l’incomprensione dell’uomo a dare occasione all’espansione lirica dell’eroina del pensiero. Dal punto di vista strutturale, infatti, l’inno si presenta come un tentativo, da parte della donna, di spiegare a Oreste le ragioni profonde di atteggiamenti a lui incomprensibili, come la cura con cui ogni giorno adorna di fiori l’erma di Omero, cioè – a suo vedere – un “marmo”, un pezzo di pietra!  Oh! Se tu almen intender mi potessi…!” sospira Hypatia. “Ogni qual volta / miro quei tratti, / mi sembra d’esser colta dal delirio / di quegli in cui discende un nume…”.
 No, Oreste non può intendere… “Come, / da un delirio?” domanda frastornato. Ed ecco la risposta:


Da l’estasi ineffabile
che la Bellezza
accende in chi ne ha l’anima compresa.

Intendo la beltà
di quanto gode giovinezza eterna;
che sia lo spirto del poeta antico,
od il profumo
di questi fiori che fiorir stamane.

Ognuno d’essi
non è come un sorriso
d’uno spirto celeste?
Ve’ quanta gioia è espressa in quei colori!
………………………………………
Ascolta la cadenza
lenta del mar…
il fremer misterioso de le foglie…
il gemito del vento,
e il canto de gli uccelli…
È  Pan, l’eterno!
Di gioia è l’inno intenso
di quanto vive
e palpita in riconoscenza al Re
de l’Universo
che fe’ fiorire la materia inerte,
vestendola del manto
di sua Bellezza!

Spunti di analisi

Cerchiamo di chiarire, anzitutto, la parola che ha gettato nella confusione il povero Prefetto: delirio. Insomma, “l’estasi ineffabile / che la Bellezza / accende in chi ne ha l’anima compresa” – spiega Hypatia. Più semplice di così… No, non è semplice – conveniamone. Non lo crede nemmeno lei, del resto. Tant’è vero che riprende “Intendo”…

Platone (partic. della "Scuola di Atene" di Raffaello)
Platone col dito puntato verso il cielo
a indicare che la vera realtà è quella spirituale
dell’iperuranio Mondo delle Idee
Il delirio, l’estasi cui qui si allude è un concetto elaborato da Platone nello Ione. Riprendendo spunti pitagorici (e comunque ampiamente presenti – sia pure in embrione – nella cultura greca presocratica) il filosofo ateniese aveva attribuito alla poesia, e in genere all’arte, un’origine chiaramente irrazionale. Non si può certo dire razionale – argomenta Socrate (personaggio principale del Dialogo) – il comportamento di chi è  in preda al fascino della musica o della poesia. Per piangere sulla sorte di Andromaca, o di Priamo, come accade a te, o Ione, quando sei sul palcoscenico, splendidamente abbigliato con gli abiti di scena, lontano mille miglia dalla penosa situazione di  quei personaggi, bisogna esser di fuori! E lo stesso dicasi per il tuo pubblico, anch’esso commosso fino alle lacrime. Ma guarda che il poeta stesso, Omero, si è trovato nelle condizioni medesime di te e del tuo pubblico. No – conclude Socrate  – il poeta che crea queste belle opere d’arte non è se stesso. Qualcun altro parla in lui e per lui, e non può essere che la divinità. C’è una specie di compenetrazione tra il poeta e la divinità: il dio si trasferisce nell’uomo e l’uomo nella divinità. L’uomo, in quel momento è éntheos, inserito nella divinità e gestito dalla divinità. E lo stesso accade all’interprete (rapsodo, attore…), e lo stesso al pubblico e, insomma, al fruitore della musica o della poesia. E qui Socrate-Platone usa un’immagine di straordinaria evidenza.  È come il magnete – dice. Posto in vicinanza di un anello di ferro, lo attrae. Non basta: non solo l’anello subisce l’energia del magnete, ma a sua volta ne diventa partecipe e capace dello stesso effetto sull’anello successivo… Ad ogni modo quello che conta è che tanto il creatore quanto il fruitore della bellezza artistica non è in sé, ma, per l’appunto, in estasi (la condizione di chi ex-ìstesi: “è di fuori”, “sta di fuori”). O, col linguaggio bonariamente campagnolo dei Romani, è in delirio, delira (lat. delirat: “va fuori solco”!).

Hypatia, al contatto con la bellezza, viene presa dal delirio, il delirio / di quegli in cui discende un nume (= una divinità); “da l’estasi ineffabile / che la Bellezza / accende in chi ne ha l’anima compresa” (“intrisa, impregnata” o, meglio, “com-penetrata”).  È la gioia – pregna di infinita gratitudine – che si accende quando l’anima sensibile accoglie in sé (e ne è parimenti assorbita) la Bellezza universale, in tutte le sue infinite manifestazioni (quella che Dio crea attraverso gli uomini-artisti e quella che crea direttamente Lui mediante la Natura). Gioia ineffabile, che riempie il cuore e lo gonfia di gratitudine verso il Re dell’Universo (e qui il platonismo dissolve in neoplatonismo plotiniano), quel Dio che ha voluto e vuole comunicare parte della sua Bellezza alla innumerevole ricchezza delle sue creature.
La bellezza – spiega Plotino – è essenzialmente spirituale. Anche le essenze materiali, i corpi in generale, sono belli in grazia della forma, che è di natura spirituale, dell’ idea, per dirla con Platone. I corpi sono belli nella misura in cui partecipano dell’idea, che emana da Dio e dà forma alla materia inerte. E chi, trascendendo la materia, è capace di elevarsi al mondo delle idee, al mondo dello Spirito, alla contemplazione del Bello nella sua assoluta integrità, questi sente in sé “la traboccante gioiosa meraviglia, la percossa che non reca dolore” (trad. Cilento), raggiungendo il culmine della felicità. “Infelice è colui che non consegue il Bello, il solo Bello!” grida Plotino, attingendo un misticismo non meno sublime di quello cristiano. “Per la sua conquista, conviene far gètto dei regni e degli imperi di tutta la terra, di tutto il mare, di tutto il cielo!”. Vi immaginate la faccia del povero Prefetto, se l’amata Hypatia gli avesse sciorinato queste frementi esternazioni del suo maestro spirituale?
vialone dei cipressi da San Guido a Bolgheri
I cipressi che a Bolgheri alti e schietti
van da San Guido in duplice filar…
(foto ripresa dal sito sviluppomanageriale.it)

L’esemplificazione della protagonista (la bellezza della poesia, il profumo la forma e i colori dei fiori, la cadenza lenta del mare…) va vista e intesa in questo quadro della visione neoplatonica. Non a caso, essa è riassunta nella mitica figura di Pan, inteso come il Tutto. Notevole (per risalire alle fonti della cultura del Caetani) che il compositore lo evochi con la ripresa di un emistichio carducciano, con la lievissima variazione che trasforma la congiunzione in verbo. “E Pan l’eterno”… – cantano i cipressi del vialone di San Guido al poeta maremmano dal cuore gonfio di tristezza – “E Pan l’eterno […] il dissidio, o mortal, de le tue cure / ne la diva armonia sommergerà”. Esatto. È proprio questo il significato che ha Pan l’eterno nel canto di Hypatia: il ritmo eterno dell’Universo, capace di sollevare l’uomo dalle miserie quotidiane al regno incantato dell’armonia universale. 

martedì, ottobre 08, 2019

Caetani, Hypatia. Riassunto e analisi del libretto



donna triste - ritratto femminile da el Fayum
Ritratto femminile da El Fayyum
(già lo conoscete dal post precedente). 
L’espressione del viso fa pensare alla sua
sfortunata conterranea.

Dopo due post precedenti, dedicati il primo al personaggio storico di Hypatia, e il secondo alla sua tragica fine, ecco ora il riassunto del libretto in cui quella fine è, dallo stesso musicista, poeticamente rielaborata in funzione del rivestimento musicale che la tradurrà in “dramma lirico in tre atti”.


Atto I, [sc. I]

“Terrazzo su una torre del palazzo tolomaico”, da cui vista su tutta Alessandria e sul mare inondato di luce. Quasi al centro Cirillo, il patriarca, “seduto in cattedra” come un monarca orientale.
Giunge Eudocia, madre di Oreste, prefetto (cioè governatore) dell’Egitto. Viene da Efeso, obbediente all’ordine di Cirillo. T’ho convocata – dice il patriarca – per un incarico di estrema importanza: convincere tuo figlio, in guerra con me per via della cacciata “di quei figli irrequieti d’Israele”, a rifare pace. Oreste – spiega – soggiace al malefico influsso della bellissima Hypatia, coltissima e punto di riferimento di un piccolo gruppo d’irriducibili pagani. Basterà che ti rechi oggi stesso a quella candida casetta di lei, laggiù, tra gli alberi, per chiederle di usare il suo ascendente sul prefetto per indurlo alla pacificazione, minacciando, in caso d’insuccesso, di abbandonarla al furore del popolo cristiano.


Atto I, scenario II

Delizioso giardino. Sul fondo la casa di Hypatia, preceduta da portico. Sulla sinistra, immersa nel verde, l’esedra, ornata dei tre numi tutelari della padrona: le erme di Omero, Pitagora, Platone. Ed eccola, di ritorno dal mare, dove si è bagnata.  Accompagnata da bambini e ancelle, seguita da amici, tra cui Oreste, accolta con gioia dal padre e dal di lui amico Ercoliano.
Attinge a piene mani fiori portati da fanciulli e ragazze e ne orna l’erma di Omero. Spiega a Oreste, che non si capacita della sua perenne devozione a “quel marmo”, che ogni volta che guarda l'immagine dell'antico poeta si sente invasa dal “delirio”, dall’“estasi ineffabile” di chi accoglie in sé la bellezza. E alla bellezza eternamente giovane – la poesia di Omero, i fiori, il mare, il vento, il canto degli uccelli… (“ È  Pan, l’eterno!”) –  scioglie il suo inno (testo e commento nel prossimo post). Un canto di riconoscenza al Re dell’Universo, al Dio che crea il mondo rivestendolo della sua bellezza.
Alla statua confida la sua pena: ormai non spera più di poter realizzare il suo sogno d’amore: estinta è la generazione degli eroi, per sempre estinta. Risentimento di Oreste, che le ricorda il suo amore e il suo ardimento. Hypatia malinconicamente gli ricorda la chiusura del Serapeo, in obbedienza all’editto imperiale, e il divieto di accedervi. Ma quel divieto lei lo infrangerà. Proprio là, tra quelle rovine, radunerà i superstiti fedeli agli antichi valori.

Giunge Izèbel, l’ebrea convertita, cameriera di Eudocia. La sua padrona – annuncia – vuol parlare a Hypatia, su mandato di Cirillo. Oreste ammonisce l’amica: attenta, potrebbe essere una maga, un’avvelenatrice. “Oreste?!” esclama Izèbel, sentendolo appellare così da Hypatia. “O signore / non bestemmiar…/ ella è… tua madre!”. Lei uscita, Oreste chiede di poterla ricevere da solo. Hypatia acconsente, esortandolo a essere gentile.

Altri, non me, ten vai cercando” – risponde a Eudocia che lamenta la fredda accoglienza del figlio.   So che sei irretito dal fascino e dalle arti magiche di Hypatia – ribatte, e lo esorta a far pace con Cirillo, rinunciando a proteggere gli ‘elleni’ (cioè i pagani), gli ebrei e gli eretici. E poiché Oreste insiste che è disposto a far pace, ma senza accettare altre condizioni, “Sappi” – gli rivela – che se non lo farai, “insorgeranno i servi / di nostra chiesa, e gitteranno in quella / impura casa il fuoco”. Inorridito, Oreste lo grida agli “elleni” sopraggiunti, seguiti dai “galilei” (i cristiani) capeggiati da Ammonio. In cori contrapposti, elleni e galilei si lasciano andare a provocazioni e insulti reciproci.

Richiamata dal volgare baccano, esce Hypatia. Oreste la informa delle intenzioni di Cirillo. “Se non ti penti e ti sommetti a lui!” corregge Ammonio, il fanatico braccio destro del patriarca. Di fronte alla reazione sdegnata di Oreste, Ammonio prende una pietra e si scaglia contro di lui. Trafitto dalla spada del prefetto, muore (non proprio cristianamente!) invocando vendetta. Grida d’approvazione dei pagani, promessa d’inesorabile vendetta da parte dei cristiani. “Ancora sangue!” deplora Hypatia desolata.


Atto II, [sc. I]

Cameretta malamente illuminata da una lucerna. In un lettino giace Eudocia, in ansiosa attesa di Oreste.  Giunge, “avvolto in un manto nero”, Pietro, il lettore, messaggero di Cirillo. Se Oreste non cede, Hypatia e i suoi saranno massacrati. Eudocia inorridisce: “Iddio” – dice saggiamente – “non vuole i corpi de’ nemici suoi / ma l’anime pentite”.  È necessario ucciderla – spiega il lettore:

… Lei spenta,
d’incanto vaniranno gli avversarȋ
nostri, quali ombre a lo sparir del fuoco;
poiché del mondo antico,
costei è la sola fiamma che arda ancor.

Ma come? – chiede sgomenta Eudocia – Cirillo vuole la sua morte?! Pietro non risponde alla domanda. Si limita a farle sapere che folle di monaci si aggirano per la città, apertamente minacciando morte alla “meretrice immonda”. Questa è, per Oreste, l’ultima chance – conclude. Se non si sottometterà, Cirillo ti ordina di accendere una fiaccola ed esporla alla finestra, prima che lui possa giungere a tentare di salvare Hypatia. Solo così, forse, potrai salvarlo dall’imminente strage.

Giunge Oreste. Colloquio penoso: Eudocia è convinta che il figlio sia sotto il fascino malefico di Hypatia, Oreste è sicuro che la madre sia plagiata dalle arti del vescovo, quel Cirillo che “per sete di dominio, / avvolge d’odio chi non gli si prostra”. Alla fine Eudocia, convinta dell’irrimediabile perdizione del figlio, lo disconosce, affidandolo a Dio. Solo gli chiede la promessa che, almeno per stanotte, starà lontano da Hypatia: non vuole morire figurandoselo insieme con la maledetta.
Partito Oreste, Eudocia invoca la vendetta di Dio e ordina all’ancella di esporre la fiaccola, ma questa rifiuta e fugge per tentare di salvare Hypatia. La espone Eudocia di persona, scatenando la folla inferocita, già radunata sotto casa.

Atto II, Scenario II

Notte, tra le gigantesche rovine del tempio di Serapide, abbattuto per ordine di Teodosio. Hypatia ha mantenuto la sua sfida. Proprio qui, tra queste imponenti rovine interdette ai devoti dell’antico culto, e da tempo abbandonate, si sono radunati, su suo invito, i pochi alessandrini rimasti fedeli alle antiche divinità. E qui, all’insolita luce di torce e fuochi votivi, si svolgerà un rito misterioso, seguito e condiviso da una variopinta folla in festa. 

scorcio notturno del tempio di Venere e Roma
Nulla, ch’io sappia, è rimasto dell’Alessandria greco-romana.
Delle imponenti rovine del Searapeo, teatro della ‘sacra rappresentazione’ di Hypatia,
può forse dare un’idea questo scorcio notturno del Tempio di Venere  e Roma.


Preceduta da musici e sacerdotesse in abito purpureo, entra Hypatia, vestita di bianco e coronata di fiori, seguita da persone addette al culto, da Teone e filosofi, da gente del popolo. Sale i gradini di quel che resta dell’antico altare, e prega Dio, concepito in termini neoplatonici. Quindi si rivolge alla folla, invitando al coraggio e alla forza necessari per sostenere la lotta scatenata dai cristiani.

Il rito appena cominciato è interrotto da un inquietante rumore di armi. No, non sono i temuti galilei; è Oreste, scortato da guardie unne, accolto con esultanza dagli elleni, che gli chiedono protezione. Tenero colloquio tra i due, interrotto dal sacro araldo, che invita tutti al silenzio e a spegnere le fiaccole. Hypatia si ritira, Oreste si accosta all’altare, scosso dalla dolorosa visione della madre corrucciata. Buio.

Riprende il rito religioso, una iniziazione – voluta da Hypatia – “al sacro e arcano senso / del flusso de la vita e de la morte”, necessaria a sostenere lo scontro imminente.  Presto ci accorgiamo che ciò che si sta svolgendo sotto i nostri occhi è una sorta di “sacra rappresentazione” pagana: la solenne commemorazione del millenario momento di reincarnazione delle anime, ripreso pari pari dal platonico mito di Er.

Nel buio si odono voci. Sono le anime provenienti dal Tartaro, di coloro, cioè, che hanno concluso la lunga espiazione delle colpe commesse nella vita precedente (Coro I). Specularmente rispondono le anime scendenti dal Cielo, premiate per la saggia condotta nella vita terrena, e ora destinate a nuova prova (Coro II). Ed ecco un raggio di luce bianchissima, verticale su Hypatia, illumina la scena. Su un trono, al centro, vediamo assisa lei, Hypatia, nelle vesti auguste della Necessità. Attorno a lei girano, a passo di danza, mime disposte in otto cerchi concentrici a rappresentare le orbite dei corpi celesti. Di fronte  alla Necessità stanno i troni delle Parche (Cloto, Lachesi, Atropo).
Dileguatesi le mime, entrano in scena, dai due lati, le anime dei purificati e quelle dell’empireo: si fondono accogliendosi come chi si rivede dopo lunga assenza (lunga un millennio, infatti!). Lo jerofante (propriamente interprete e guida del rito) prende manciate di spighe dal grembo di Lachesi e le sparge al suolo. A turno le anime scelgono ciascuna una spiga (il destino che determinerà la nuova vita!), poi, dal grembo di Lachesi, una sferetta luminosa, simbolo del genio tutelare che le assisterà nella vita incipiente. Ciò fatto, si dispongono attorno al trono della Necessità, ritta in piedi e con le braccia verso di esse. Quindi, all’invito delle Parche, tutte si dirigono verso la pianura del Lete, mentre la Necessità si inabissa lentamente.

“Sàlvati, Hypatia, sàlvati!” – grida Izèbel irrompendo sulla scena. A Oreste rivela che i fanatici cristiani hanno giurato di uccidere la donna e sono già qui. Si avanza Pietro, che promette salvezza a tutti purché gli sia consegnata “la scellerata”. Ma Oreste con le sue guardie e i pochi elleni non fuggiti li ricaccia verso il fondo, mentre donne e bambini accorrono intorno a Hypatia. Voci femminili annunciano che i “parabolani” (tra i cristiani quelli di più ottuso fanatismo) incendiano le case. Hypatia le rassicura: se il prezzo della salvezza è il suo sangue, è pronta a versarlo. “L’Ellade muore” – conclude desolatamente il canto – o pianto – delle donne.


Atto III

Piazza d’Alessandria. A sinistra la chiesa del Cesareo, a destra la casa di Oreste. Notte. La chiesa è aperta e illuminata. Fedeli inginocchiati sui gradini e anche nella piazza.

Pietro incita la folla di fedeli (che reclamano vendetta per Ammonio), esortandoli a non lasciarsi ingannare dall’aspetto seducente della nemica. Eccitati e furiosi, si disperdono urlando verso il fondo, in direzione dei giardini imperiali.

Entra in scena Hypatia, ancora con gli abiti rituali dell’atto precedente, seguita da Izèbel che inutilmente la esorta a fuggire. Giungono elleni con pessime notizie. Tra essi Teone, che scongiura la figlia a partire: una nave è pronta a portarli lontano. Urla remote e suon di corni fanno credere a Hypatia che Oreste abbia vinto; invano alcuni avvertono che sono i galilei. Qualcuno afferra Teone e lo trascina lontano dal pericolo.

Giungono marinai e schiavi ubriachi, preceduti da Jerace. Le due donne si ritirano verso il pozzo, posto in primo piano sul lato destro della scena. Alcuni riconoscono Hypatia e vorrebbero metterle le mani addosso; altri (ariani) chiedono perché. Perché – spiega Jerace – a quanto si dice, è per i suoi filtri magici che Oreste è nemico dei cristiani. I due gruppi litigano. Izèbel ne approfitta per spingere Hypatia nel Cesareo, mentre lei resta fuori, richiudendo la porta.

Ed ecco i cristiani, guidati da Pietro. Riconoscendo Izèbel, il caporione la minaccia di morte se non svela il nascondiglio di Hypatia. Spaventata, la donna indica l’abitazione di Oreste. I cristiani accorrono intenzionati a incendiare la casa quando, vestito di nero e pastorale in mano, appare Cirillo. Rimprovera Pietro per l’attentato alla dimora del prefetto. “Signor… – gli risponde – la donna / che per incarco tuo cerchiam… lì entro / s’è rifugiata”.  
Ma ecco Oreste. Ardente di sdegno, attraversa impavido la folla e affronta Cirillo, accusandolo di aver ucciso una donna per colpirlo. Non per odio mi son mosso contro di lei – gli risponde il vescovo – “ma perché in essa alligna / la radice del mal che ci divide!”. Ad ogni modo Hypatia è viva, rifugiata nella tua casa, in mio potere. Ho vinto – dice – ma voglio essere clemente. Ella sarà salva, purché parta immediatamente per l’esilio. Oreste nega, ma Cirillo ne ha intuito la disperazione interiore. Messagli paternalisticamente una mano sulla spalla, entra nella casa, seguito dallo sconfitto.  “Hypatia!” grida Oreste. La filosofa ode il richiamo dal suo rifugio e appare sulla porta della chiesa, serena, illuminata da un raggio di luna. Oreste – le dice Pietro – è entrato in casa insieme con Cirillo per annunziarti che avrai salva la vita in cambio dell’esilio. Hypatia non vuole, non può crederci. Nondimeno, “Son pronta a morire – esclama – ma prima di farmi abbandonare la mia città natale dovrete  svellermi le membra ad una ad una!”. Si riode il richiamo di Oreste. Hypatia risponde e si slancia verso l’abitazione. La folla cede, si apre… “Muoia!” grida qualcuno.  La massa inferocita si rinserra intorno a lei, ingoiandola. Piomba come un fulmine su quell’ammasso omicida Oreste, scindendolo. Troppo tardi. Lo vedremo riemergere sorreggendo tra le braccia il corpo inerte di Hypatia. “Ohimè! C’han fatto!... / Oh forsennati!” deplora il patriarca uscendo dalla casa.

Hypatia! Hypatia!” – compiange Oreste; “[…] Troppo splendevi a gli occhi di costoro; / perciò t’odiavano! Ad un’antica dea troppo eri simile… / perciò t’infransero…”.
La colpa è sua! / Falsa, al par de’ suoi falsi dei, fu essa!” – insulta il tristo lettore. Che paga sull’istante, trafitto dal prefetto, la sua temeraria impudenza.

L’anàtema su chi di voi si muove!” – grida il patriarca alla folla inferocita che vorrebbe linciare il prefetto che, incurante del pericolo, è assorto nella contemplazione della donna distesa al suolo. Poi, rivolto a Oreste, giura di non aver voluto lui la morte della donna, e gli ripropone la pace. “L’odio, l’odio furente come l’Idra / Oreste t’offre in cambio!” – risponde. E, rinfacciatogli ancora una volta l’assassinio, dà il suo addio alla “città maledetta”, votata alla tirannide, lasciandole, a perenne memoria, la sua spada insanguinata.
La folla, seguita da Cirillo e dai tedofori, porta in processione il corpo di Pietro dentro la chiesa. La porta si richiude. La scena rimane vuota e buia.

Tornano ad ardere le stelle. Hypatia, agonizzante, rialza il capo a contemplarle ancora una volta. Il loro lucore sbiadisce gradualmente, sopraffatto dalle fosche fiamme degli incendi appiccati dai cristiani. A quella luce sinistra diventa visibile a Hypatia (e agli spettatori) l’immagine bizantina del Redentore sulla facciata della chiesa.

Oh uomo, o dio… per te che son? Perché…
perché mi fissan gli occhi tuoi in tal modo…
perché son essi lacrimosi e tristi?
È forse per pietà… di me… che piangi…?
 
Sono le ultime parole di quella donna meravigliosa, vittima del fanatismo ignorante. “Ella muore. – dice la didascalia – I battenti de l’ecclesia si aprono lentamente e ne esce una luce che cade sul corpo d’Hypatia”. Evidentemente a indicare che il Redentore è con lei, non con gli assassini. E sarebbe stata una splendida conclusione. Ma l’autore fa risuonare un coro interno:

O Signor, cos’è l’uom, che n’abbi cura?
Cos’è il figliuol de l’uomo
che tu ne faccia conto?
Simile a vanità
è l’uomo; i giorni suoi son come l’ombra
che passa.

Lo scopo, certo, è quello di proiettare la tragedia d’Ipazia sullo sfondo della miseria umana. Ma, a mio modesto parere, è una conclusione alquanto scontata, e anche un tantino incongrua, messa in bocca a un coro di bruti che dell’umanità ha appena fatto scempio.


Spunti di analisi

La lunghezza del riassunto – necessaria a una visione chiara e completa della trama e delle motivazioni e carattere dei personaggi – m’impone, in sede di analisi, di limitarmi a qualche spunto, che il lettore potrà sviluppare in proprio.

a) la storia

La composizione del libretto fu preceduta, da parte dell’autore, da studi e ricerche accuratissime. Il frutto di queste fatiche è facilmente rilevabile nella precisa collocazione dei fatti sullo sfondo della turbolenta Alessandria dell’epoca (e, a un livello più alto, nel quadro del trionfo del cristianesimo sulla civiltà pagana); nella altrettanto precisa collocazione ideale della protagonista nella filosofia neoplatonica, e, soprattutto, nel rispetto dei dati storici essenziali.  È questo che gli consente, circa l’inevitabile nodo problematico della responsabilità diretta del patriarca, una scelta equlibrata, che si traduce nel lasciare il problema irrisolto. Alla precisa domanda di Eudocia, Pietro non dà risposta.  È vero che, poi, al vescovo designa Hypatia come “la donna / che per incarco tuo cerchiam”, ma l’ordine di cercarla non implica quello di ucciderla, e, meno che mai, di farne strazio.  E, d’altra parte, il patriarca giura, in un momento solenne che renderebbe mostruoso un falso giuramento, di non aver voluto lui la morte della donna. Sempre per bocca di Pietro viene invece individuata con precisione – a mio modo di vedere – la vera causa della morte della filosofa: non quella, ridicola, dell’invidia, ma la protezione che – tramite l’amicizia del prefetto – ella esercita sui superstiti pagani. E dunque, in definitiva, l’insanabile conflitto ideale.

b) Hypatia e Oreste: due sconfitti

Nobilissima la figura di Hypatia, sintesi e personificazione di una civiltà splendida ma ormai al tramonto. «Del mondo antico – dice giustamente Pietro – costei è la sola fiamma che arda ancor».  Una sopravvissuta, certo, ma ben risoluta a non abbandonare la lotta.
Nonostante l’affetto e la stima di cui la circondano i suoi partigiani, è sostanzialmente sola. I pagani superstiti si affidano a lei, ma non sono in grado di difenderla dalle orde di monaci fanatici e risoluti, e dall’isteria della plebaglia che li segue. Oreste ne è innamorato e cerca di aiutarla, ma in fondo nemmeno lui la capisce (e la donna ne è ben consapevole): troppo alti gli ideali di lei, troppo lontani dalla meschina realtà quotidiana.
Hypatia lotta sino alla fine, accettando di pagare con la vita la fede nella cultura e l’attaccamento alla sua un tempo splendida città natale: se volete cacciarmi – dice con tragica preveggenza – dovete prima svellermi le membra ad una ad una! Oreste, a sua volta, scopertosi disarmato e impotente di fronte al fanatismo ignorante e isterico, schifato e disperato abbandona patria e potere.

c) la forma

Il testo è redatto in versi, prevalentemente endecasillabi con inserzione frequente di settenari e, più raramente, di quinari. Lingua caratterizzata da una patina arcaizzante che contribuisce a sollevare la materia in un’aura di ieratica maestà, degna dello scontro finale di due mondi, l’uno al tramonto, l’altro nel momento della sua vigorosa ascensione.

Nel complesso, a mio modesto parere, un ottimo libretto, funzionale al suo ufficio di supporto o, meglio, di componente poetica del dramma in musica, dotato esso stesso di valore autonomo. Geniale, in direzione della wagneriana “opera d’arte totale” (Gesamtkunstwerk), l’inserzione del mito di Er. Nelle mani di un bravo coreografo, rispettoso del testo e della sua funzione (più che della propria narcisistica vanità), può diventare un momento di eccezionale spettacolarità, oltre che di profondo significato filosofico.

mosaico ravennate del Buon Pastore
Quanto più rispondente al Vangelo questa mite immagine di Cristo buon pastore
piuttosto che quella violenta e vendicativa dei fanatici alessandrini!
Eppure l’anonimo mosaicista ravennate la compose solo qualche decennio dopo l’assassinio di quella
adorabile filosofa, prediletta da Dio”!