giovedì, settembre 12, 2019

Hypatia, melodramma di R. Caetani. 2. Responsabilità dell’assassinio d’Ipazia.





mosaico che rappresenta filosofi
Filosofi.
C’è chi in questo mosaico pompeiano vuol vedere
una rappresentazione ideale dell’Accademia di Platone.
 Osservate il mantello del personaggio più lontano:
è tipico dei filosofi antichi.
Avvolta in quel mantello, stando alla Suda, girava Ipazia,
incurante di chi mugugnava osservando ch’era indumento maschile.




Premessa

La tragica fine di questa meravigliosa donna della tarda antichità – da Caetani assunta a protagonista della propria “azione drammatica” – ha offerto irresistibile esca a chi ha pensato bene di gettare discredito sul cristianesimo, in particolare nella sua versione cattolica. Hanno cominciato gli anticlericali di varia origine e natura. Ma in anni a noi più vicini, i mangiapreti sono stati ampiamente surclassati dall’irrompere sulla scena di esponenti dell’estremismo femminista, che l’insigne filosofa alessandrina si sono indebitamente appropriati, trasformandola nella propria portabandiera. Poco importa che si tratti, non di rado, di persone senza nessuna preparazione filologica. C’è un tale che – in base a competenze e documenti che ignoro – scrive, sulla studiosa alessandrina, un articolo zeppo di ‘informazioni’ mirabolanti, e lo intitola Il folle martirio di Ipazia torturata e bruciata viva! Mi ricorda una collega di storia e filosofia che, esponendo la fine del Savonarola, fuorviata da santo sdegno contro gli assassini del frate domenicano, affermò che era stato “ucciso, impiccato e bruciato vivo”! (La frase fu registrata dai suoi alunni, che poi per lungo tempo ne risero benevolmente con lei, che peraltro era brava e benvoluta).
Le affermazioni più oltranziste, spesso prive di fondamento, sono poi assunte come verità incontestabili, e come tali più o meno innocentemente ripetute, da tante brave persone digiune di conoscenza dell’antichità ma forti di incrollabile fede nei loro feticci ideologici.
Il tentativo di rettificare le numerose distorsioni apparse di recente richiederebbe, dunque, volumi. Più saggio, in questa sede, limitarsi, come già nel primo post (la studiosa alessandrina), a una “onesta lettura delle fonti”. È qui la radice di ogni discorso serio sull’argomento. Sennonché, pur alleggerito e sintetizzato al massimo, anche questo lavoro richiederebbe analisi filologiche indigeste ai più. E allora facciamo così: 


Esporrò per prima la versione che a me sembra più prossima alla verità dei fatti. Poi, per chi vorrà, farò seguire una sorta di appendice d’approfondimento, con una breve discussione delle altre.

Circostanze e responsabilità della morte di Ipazia. La versione di Socrate.

Il Socrate di cui qui si parla non è – ovviamente – il noto filosofo maestro di Platone e martire della ricerca filosofica.  È una personalità più modesta, e tuttavia importantissima per la ricostruzione della storia della sua epoca.
Vissuto, all’incirca, dal 380 al 450, è autore di una Storia ecclesiastica dal 305 al 439.  È uno storico serio e accurato. Laico, con qualche simpatia per correnti e personalità cristiane poco ortodosse, dà prova di sostanziale imparzialità. Ricordo, inoltre, che è l’unico, tra le nostre fonti (a parte il frammentario Filostorgio), ad essere contemporaneo ai fatti. E a disporre di testimonianze di prima mano. Viveva, infatti, a Costantinopoli dove, per ordine imperiale, fu avviato il relativo processo, destinato a finire insabbiato. Da storico qual era (e da avvocato di professione!) è difficile che non abbia sentito di persona le parti, giunte nella capitale per perorare la causa davanti alla corte.

Estraneo a trattazioni filosofiche, Socrate racconta la morte di Ipazia per illustrare il quadro del conflitto di potere, nella città di Alessandria, tra l’autorità politica, rappresentata dal prefetto Oreste, e quella religiosa, impersonata dal focoso vescovo Cirillo, sullo sfondo dei conflitti etnici e religiosi che affliggevano la società alessandrina del tempo (secondo decennio del V sec.).
Diamo un riassunto dei relativi capitoli per poi riportare in traduzione quello specificamente dedicato al nostro argomento.

Il popolo alessandrino – dice – è forse il più litigioso del mondo. Basta, a scatenare risse furiose, il tifo per i mimi (una sorta di danzatori-attori).
Così un sabato gli ebrei, liberi dal lavoro, accorsero numerosissimi ad uno spettacolo di pantomimi per applaudire il loro divo, e la festa degenerò in rissa. Il prefetto represse prontamente i disordini, ma nell’animo degli ebrei restò vivo il rancore verso gli avversari, individuati nei cristiani. 

Qualche tempo dopo, Oreste celebra in teatro una festa. Sono presenti ebrei e cristiani, specialmente i partigiani di Cirillo, interessati a spiare ogni gesto del prefetto. Tra di loro si distingue un maestro elementare, un certo Gerace, fanatico seguace del vescovo, noto per essere sempre il primo a innescare gli applausi a ogni suo discorso. Gli ebrei cominciano a inveire contro di lui, accusandolo d’essere venuto a teatro solo per provocare. Oreste, che detesta l’arroganza e le ingerenze del patriarca, lo fa prendere e frustare. Cirillo convoca i caporioni degli ebrei e li ammonisce a non provocare altri disordini contro i cristiani.
Poco tempo dopo, il silenzio notturno di vari quartieri è squarciato da urli: la chiesa di Alessandro è in fiamme. I cristiani accorrono per spegnere.  È una trappola: i congiurati ebrei fanno strage degli ignari volenterosi. Il giorno dopo la verità viene a galla. Cirillo, seguito da gran numero di cristiani, attacca le sinagoghe ed espelle dalla città gli ebrei, confiscandone gli averi. Oreste ne è angustiato, e, sentendosi impotente, denuncia la cosa all’imperatore. Così fa anche Cirillo, peraltro costretto dal popolo a chiedere l’amicizia di Oreste. Ma il prefetto rifiuta ostinatamente ogni tentativo di riconciliazione. E in molti si chiedono le ragioni di tanta ostinazione.

Nel frattempo scende in campo un gruppo di monaci del monte Nitria, animati da un fanatismo ottuso. Un’orda di circa cinquecento di questi invasati lascia i conventi e scende in città. Bloccano il prefetto per la strada accusandolo di essere pagano, sordi alle proteste dell’interessato che si dichiara cristiano, battezzato a Costantinopoli. Un tale, di nome Ammonio, dà inizio alla sassaiola colpendo il prefetto alla testa. L’incredibile impudenza e audacia di questo criminale si spiega, forse, con la fiducia nel numero dei suoi compagni. Infatti le guardie del corpo fuggono terrorizzate.  È il popolo che salva il prefetto. Questo brav’uomo, evidentemente inadeguato al compito di governatore, ha almeno il merito d’essersi saputo conciliare l’amore del suo popolo, che coraggiosamente interviene contro gli scalmanati salvandolo e catturando l’attentatore. Ammonio viene bastonato e messo a morte. Cirillo lo fa seppellire sotto falso nome e venerare come martire. L’odio verso il prefetto (evidentemente da parte di cristiani fanatici) si approfondisce, coinvolgendo quelli che, a torto o a ragione, sono sospettati d’essere suoi sostenitori e magari consiglieri.


«C’era in Alessandria una donna, di nome Ipazia. Era figlia del filosofo Teone, e si era spinta tanto avanti negli studi da primeggiare tra i filosofi del tempo, così che fu lei a raccogliere la  successione nella scuola platonica derivata da Plotino ed esponeva tutti gli insegnamenti filosofici  a quelli che volevano seguirla. Perciò quelli che intendevano praticare la filosofia accorrevano a lei da ogni luogo. A causa della straordinaria libertà di parola riconosciutale in grazia della sua cultura, frequentava con semplicità anche i potenti, e non mostrava alcun imbarazzo a trovarsi in mezzo agli uomini; tutti, infatti, conoscendone l’irreprensibilità di costumi, ne avevano un sacro rispetto. E allora il livore si armò contro di lei. Poiché, infatti, s’incontrava con Oreste piuttosto spesso, questo fatto suscitò contro di lei nella massa dei fedeli la calunnia che fosse proprio lei a dissuadere Oreste dal trovare un accordo amichevole col vescovo. E appunto uomini dalla testa calda, guidati da un tale di nome Pietro, lettore, messisi d’accordo, le tendono un agguato mentre rientrava a casa, e, tiratala giù dal carro, la trascinano alla chiesa detta Cesareo e, spogliatala, la uccisero con frammenti di terracotta. E, fattala a pezzi, ne portarono le membra in un luogo chiamato Cinaro e le distrussero col fuoco. Questo fatto apportò non poca infamia a Cirillo e alla chiesa alessandrina: uccisioni, risse e simili sono, infatti, assolutamente estranee a chi medita gli insegnamenti di Cristo. E queste cose accaddero nel quarto anno dell’episcopato di Cirillo, decimo consolato di Onorio, sesto di Teodosio [= 415 d.C.], nel mese di marzo, durante la Quaresima».  

 




ritratto femminile da el fayyum
Ritratto femminile da El Fayyum (Egitto).
Con la profonda tristezza del suo viso
potrebbe ben rappresentare la sua conterranea alessandrina.
Magari mentre riflette sulla stoltezza umana,
o mentre contempla qualche arcano presagio della sua tragica fine.


Questi sono i fatti così come sono narrati dall’unica fonte contemporanea giunta integra fino a noi. Fonte quanto mai attendibile. «Pur commettendo gravi errori e non comprendendo talora le questioni dottrinali» scrive di Socrate S. L. Greenslade, «egli è generalmente giudizioso e diretto, semplice nello stile, interessante per la sua prospettiva laica». E, almeno per quanto riguarda la fine di Ipazia, dimostra, a mio parere, un raro equilibrio.
 È facile vedere che, mentre non tace delle ingerenze del vescovo alessandrino in ambiti di pertinenza del potere civile (ma forse tali ingerenze non facevano che colmare vuoti aperti dall’incapacità del prefetto a mantenere la pace sociale), gli addossa grosse responsabilità per il clima di tensione nel quale quell’omicidio matura, e perciò fa ricadere anche su di lui – riconosciuto capo spirituale – l’infamia riversatasi sulla chiesa alessandrina. Ma implicitamente lo scagiona da responsabilità dirette. L’assassinio di Ipazia viene correttamente attribuito al fideismo cieco di una massa di cristiani convinti che fosse lei l’ostacolo alla desiderata riconciliazione del potere civile con quello religioso. Vittime, a loro volta, quegli assassini, del fanatismo di un’orda di monaci brutali ed ignoranti (ché uccisioni, risse e simili sono assolutamente estranee a chi medita gli insegnamenti di Cristo!). Più limpido di così…

Eppure già nell’antichità nacquero e si diffusero altre spiegazioni. Ed era certo inevitabile, dato il clima infuocato di quei giorni. Ma, esaminate oggi, rivelano, a mio avviso, la loro scarsa attendibilità.

 
sala biblioteca d'alessandria ricostruzione ideale
Biblioteca d’Alessandria
(ricostruzione ideale di una sala).
Qui era contenuto tutto il sapere
dell’antichità greco-latina.



Approfondimenti (per chi non s’accontenta!)


1.  Osservazioni sulla traduzione

a)   «così che fu lei a raccogliere la  successione nella scuola platonica derivata da Plotino»

Scrive Socrate:
hōs tn de Platōnikn apò Plōtìnou katagoménēn diatribn diadéxasthai (ς (…) τν δ Πλατωνικν από Πλωτίνου καταγομένην διατριβν διαδέξασθαι). Cioè: assunse lei la funzione di scolarca, di caposcuola, di guida della scuola filosofica platonica derivata da Plotino. In altri termini: grazie all’altissimo prestigio di cui godeva, fu riconosciuto proprio a lei il ruolo di capo tra i cultori di filosofia accomunati dalla condivisione del neoplatonismo. Ho riportato il testo greco per dar modo, a chi lo conosce, di sincerarsi di cosa dice l’autore, perché di questa espressione càpita di leggere interpretazioni… diciamo piuttosto curiose.

b)   «E allora il livore si armò contro di lei»

La parola greca phthònos (φθόνος), generalmente tradotta con “invidia” ha, come il corrispondente lat. invidia, un significato più ampio (“malanimo”, “astio”, “ostilità”, “rancore” e sim.). Qual è l’esatto significato che assume nel nostro testo? “Invidia”, si dirà; per le frequentazioni altolocate. All’origine dell’assassinio ci sarebbe, dunque, l’invidia per la sua posizione sociale privilegiata. Può essere. Ma a me sembra che Socrate spieghi chiaramente (gàr – it. “infatti” – è una congiunzione dichiarativa, che annuncia una speigazione) che i sentimenti suscitati dalle frequentazioni di Ipazia sono d’ostilità generata non da invidia, ma dalla convinzione che sia proprio lei, pagana, ad alimentare l’ostinazione del prefetto contro il vescovo.

c) «la uccisero con frammenti di terracotta»

La parola gr. òstrakon, usata da Socrate, designa propriamente ogni oggetto di terracotta, da tegole a mattoni, a vasellame integro, a cocci... (Ricordate l’ostracismo, detto così perché i votanti segnavano su “schede” costituite da cocci di riuso il nome dell’infelice candidato all’esilio!). Può significare anche conchiglie, ma qui mi sembra francamente fuori luogo. Restano comunque poco chiare le precise modalità della morte. Il confronto col testo di Giovanni di Nicio (v. sotto) mi fa pensare che la povera donna sia stata finita col lancio di schegge di tegole, mattoni o altro (che nelle vicinanze ci fosse una discarica?), usati come ciottoli per lapidarla; forse – per colmo di crudeltà – mentre l’infelice cercava una qualche via di scampo dalla folla inferocita.


2.      SUDA

Il compilatore del lessico Suda (fine del X sec.) alla voce “Ipazia” si limita a riassumere acriticamente quanto leggeva in due autori: Esichio (prime 12 righe) e Damascio (le 60 restanti).

2a. Esichio (storico pagano morto verso il 530: scrive, dunque, circa un secolo dopo i fatti):

«Fu fatta a pezzi dagli Alessandrini: il suo corpo fu oltraggiato e disperso per tutta la città. Soffrì questo a causa dell’invidia e della sua superiore cultura, soprattutto in fatto di astronomia. Secondo alcuni, per responsabilità di Cirillo, secondo altri per la sfrontatezza e la faziosità degli Alessandrini».

Come si vede, di contro alla razionale, precisa ricostruzione di Socrate, qui abbiamo un mucchietto di ipotesi sconclusionate, da quella piuttosto puerile dell’invidia, a quella della diretta responsabilità di Cirillo, a quella del carattere fazioso  degli Alessandrini. Esichio sembra propendere per quest’ultimaotesi (da Socrate relegata sullo sfondo), ripudiando così le altre. Tant’è vero che si affretta ad aggiungere, quasi a riprova, che simile sorte era toccata anche ad altri. E conclude: «Ciò che dovette subire Ipazia è la dimostrazione del carattere litigioso degli Alessandrini».

2b. Damascio (filosofo neoplatonico, ultimo scolarca del neoplatonismo ateniese, fino alla chiusura della scuola (Accademia) da parte di Giustiniano nel 529):

Damascio parlava incidentalmente d’Ipazia nella sua Vita d’Isidoro (il filosofo neoplatonico che Esichio aveva appioppato a Ipazia come “marito”, forse tratto in inganno dalla condivisione, tra i due, di niente più che simpatie per il neoplatonismo.
È lui l’autore del quadretto riportato nel post precedente e che qui riprendo:
«Ora un giorno avvenne che Cirillo, a capo della setta religiosa avversaria, passando accanto alla casa di Ipazia, vide davanti alla porta una gran ressa confusa di uomini e di cavalli: alcuni si avvicinavano, altri si allontanavano, altri sostavano. E avendo chiesto che cosa fosse quell’assembramento e a che si riferisse tutto quel chiasso davanti alla casa, gli fu risposto dai seguaci che quella era l’abitazione della filosofa Ipazia, e che quella gente era lì appunto per salutarla».
E continua:
«Venuto a sapere questo, il suo animo ne fu morso a tal punto che ben presto ordì il suo assassinio, il più sacrilego degli assassinii. Essendo lei uscita secondo il suo solito, l’assalirono in gruppo compatto molti uomini brutali, e, veramente abominevoli (né della vista degli dèi tennero conto alcuno, né della vendetta degli uomini), uccisero la filosofa, marchiando la loro patria dell’infamia di questo efferato delitto».
Prosegue accennando al processo penale, avviato per ordine imperiale, e finito poi insabbiato per corruzione. (Come vedete, in caso di delitti con risvolti politici non è che nel V sec. le cose andassero molto meglio di oggi!).

E veniamo a qualche considerazione critica, cominciando da un paio di problemi interpretativi.

a) «il suo animo ne fu morso» 
  
Il testo greco scrive dechthnai tn psychn (δεχθναι τν ψχν): proriamente “ne fu morso nell’animo”, cioè “se ne sentì ferito nell’animo”.  Che la “ferita” fosse dovuta all’invidia è interpretazione arbitraria, e – mi pare – alquanto volgare. Più probabile che faccia riferimento allo sgomento, e allo sdegno, di un uomo di chiesa nel constatare di persona (lui che a quel poco che sopravviveva dell'antico paganesimo aveva dichiarato guerra senza quartiere!)  di quanto prestigio e affetto fosse circondata quella ‘abominevole’ pagana.

b) «essendo lei uscita»

La parola greca corrispondente (proelthoùsē) è participio aoristo di proérchomai. Il significato proprio di questo verbo è “venire avanti”, “farsi avanti”. Unito a hōs eiōthòs (“come d’abitudine”, “secondo il solito”) farebbe pensare che l’autore voglia dire: “uscita e fattasi avanti secondo il suo solito”… Questa interpretazione ci fa vedere Ipazia nell’atto abituale di uscire e inoltrarsi in mezzo alla  folla di ammiratori per scambiare con loro qualche parola, per ricambiare il saluto e l’affetto… Bellissima immagine, che mi tenta molto. E il fatto di venire uccisa proprio mentre con quel gesto esprimeva tutta la sua umanità e amabilità, orribile nella realtà, sarebbe, come finzione poetica, immagine degna di un grande tragico. Ma altrettanto onestamente bisogna riconoscere l’assoluta inverosimiglianza di tale interpretazione. Sembra arduo pensare che lì per lì, su due piedi, i seguaci di Cirillo possano avere osato massacrare Ipazia senza restare vittime, a loro volta, della rabbia degli ammiratori della filosofa. Del resto, a smentire un’ipotesi tanto bella quanto stravagante, c’è la ben altrimenti circostanziata ricostruzione di Socrate.
Quello che non si può mettere in dubbio è certo il fatto che, a detta dello storico, l’assassinio vada ascritto, come mandante, proprio a Cirillo. Come si spiega tutto ciò?

Bisogna sapere che Damascio contro i cristiani aveva, non senza ragione, il dente avvelenato. Su loro istanza, infatti, nel 529 l’imperatore Giustiniano aveva ordinato la chiusura dell’Accademia, la Scuola fondata da Platone, che – sia pure con un oscuramento di alcuni secoli (mancano notizie sicure della sua attività nei primi tre secoli della nostra era) – era riuscita a sopravvivere per ben novecento anni! Dell’Accademia era in quel momento capo riconosciuto proprio il nostro Damascio, che ne fu tanto addolorato (e giustamente sdegnato) che per qualche anno andò via da Costantinopoli. 
Questo sciagurato evento spiegherebbe, a mio parere, se non l’invenzione da parte di Damascio della diretta responsabilità di Cirillo, quanto meno la prontezza ad accogliere come vera una versione già esistente ma ispirata da analoghi sentimenti di ostilità contro i cristiani.



Quello che non si può mettere in dubbio è certo il fatto che, a detta dello storico, l’assassinio vada ascritto, come mandante, proprio a Cirillo. Come si spiega tutto ciò?
Bisogna sapere che Damascio contro i cristiani aveva, non senza ragione, il dente avvelenato. Su loro istanza, infatti, nel 529 l’imperatore Giustiniano aveva ordinato la chiusura dell’Accademia, la Scuola fondata da Platone, che – sia pure con un oscuramento di alcuni secoli (mancano notizie sicure della sua attività nei primi tre secoli della nostra era) – era riuscita a sopravvivere per ben novecento anni! Dell’Accademia era in quel momento capo riconosciuto proprio il nostro Damascio, che ne fu tanto addolorato (e giustamente sdegnato) che per qualche anno andò via da Costantinopoli. 
Questo sciagurato evento spiegherebbe, a mio parere, se non l’invenzione da parte di Damascio della diretta responsabilità di Cirillo, quanto meno la prontezza ad accogliere come vera una versione già esistente ma ispirata, comunque, da analoghi sentimenti di ostilità contro i cristiani.

3.  Filostorgio

La malevola versione di Damascio concorda, in buona sostanza, con quella tramandata da Filostorgio. Più o meno contemporaneo di Ipazia e di Socrate (e come quest’ultimo, vissuto a Costantinopoli), scrisse una Storia della Chiesa, andata perduta salvo frammenti conservati in vari autori e un riassunto, arricchito da estratti, tramandato da Fozio (metà del IX sec.). Già per Fozio, patriarca controverso, ma di indiscutibile cultura e acutezza critica, Filostorgio non gode di alcuna credibilità. La sua Storia, più che altro, è un “elogio degli eretici” – scrive – “nuda accusa e riprensione dei seguaci della retta dottrina”. Soprattutto più in questo caso, aggiungerei: Filostorgio, infatti, è apertamente schierato sul fronte ariano, una dottrina che Cirillo combatté aspramente per tutta la vita.

4. Giovanni di Nicio

Narrazione abbastanza articolata è quella che possiamo leggere nella Cronaca di Giovanni di Nicio, in Egitto, composta qualche decennio dopo l’invasione araba (dunque nella II metà del VII sec.) in greco e, parte, in copto; giuntaci in una traduzione etiopica piuttosto sgrammaticata, condotta, a sua volta, su una traduzione araba, non priva di errori e fraintendimenti, e anch’essa perduta. Io, a mia volta, traduco da una vecchia traduzione francese (di Hermann Zotenberg), sperando che, al termine di tutte queste traversie, del pensiero dell’autore resti almeno l’essenziale.

Giovanni (che il Signore l’abbia in gloria) è un pio vescovo monofisita. Per lui tutti gli imperatori e funzionari che hanno favorito il cristianesimo sono “santi” (a cominciare dal beato San Costantino imperatore!) o almeno “amici di Dio” (come l’imperatore Teodosio), e comunque “di felice memoria”. Quelli favorevoli al paganesimo (o a correnti “eretiche”) sono ispirati da Satana.
Anche Ipazia, filosofa esperta di « magia, astrologia e musica », soggiace al suo potere, e con gli artifici di Satana “seduce molte persone”. Giovanni colloca correttamente la sua morte sullo sfondo di contrasti etnico-religiosi, in particolare tra ebrei, presuntuosi e arroganti, e cristiani, vittime della loro prepotenza. Cirillo è irritato con Oreste, succubo della seduzione di Ipazia, per la sua presunta connivenza con gli ebrei, e, più ancora, per l’uccisione del “venerabile monaco” Ammonio (quello della micidiale sassata contro il prefetto!). Dopo il massacro di cristiani attratti con l’inganno del falso incendio, «la folla dei fedeli del Signore, sotto la guida del magistrato Pietro, perfetto servitore di Gesù Cristo, si mise alla ricerca di questa donna pagana che, con le sue arti magiche aveva sedotto molte persone della città e il prefetto. Scoperto il luogo dove si trovava, al loro arrivo i fedeli la trovarono seduta in cattedra (assise en chaire). La fecero scendere e la trascinarono alla chiesa chiamata Cesaria. Questo accadeva durante la Quaresima. Spogliatala, la fecero uscire e la trascinarono per le vie della città, fino a farla morire, e la portarono in un luogo chiamato Cinaro dove bruciarono il suo corpo. Tutto il popolo circondava il patriarca Cirillo e lo chiamava il nuovo Teofilo, perché aveva liberato la città degli ultimi resti dell’idolatria».

 È facile notare concordanze e discordanze rispetto a Socrate. In ogni caso, alla guida della squadraccia troviamo il solito Pietro, da “lettore” promosso a “magistrato”. Da nessuna parte, nel corso del capitolo si dice che l’ordine fosse partito da Cirillo. L’ultimo periodo sembrerebbe testimoniare la partecipazione del vescovo all’uccisione o, quantomeno, alla cremazione. Credo sia un’interpretazione errata (oltretutto, se Cirillo fosse stato presente, energico e autoritario com’era, avrebbe assunto personalmente la guida delle operazioni, senza lasciarne la “gloria” all’oscuro lettore). Stranamente, però, nel sommario del capitolo riportato nell’Indice (non sempre tali sommari concordano con l’effettivo contenuto) Cirillo viene esplicitamente individuato come mandante.  È  dunque probabile che Giovanni abbia creduto alla versione sfavorevole a Cirillo; tanto più che per lui l’eliminazione di quella che gli appare come l’ultimo baluardo del paganesimo non sembra costituire un problema morale.

5. Giovanni Malala (VI sec.)

Nella sua Chronographia accenna alla morte di Ipazia con un’espressione che parrebbe chiamare in causa Cirillo. Circa quel tempo – scrive – gli Alessandrini, «avutane licenza dal vescovo [insomma: ottenutane la connivenza], bruciarono con legna la celebre filosofa Ipazia». Ma come storico Giovanni Malala (parola siriaca che significa “retore”) non merita molto credito. “Poco critico, confuso e spesso puerile” lo definisce Arnaldo Momigliano. Che faccia confusione (probabilmente a causa di una lettura delle fonti molto frettolosa) lo rivela già solo il passo appena citato. A parte che altro è bruciare una persona e altro bruciarne il cadavere, che significa “con legna”? Viene da chiedere: e con cosa volevi che la bruciassero? (La benzina non era ancora in uso!). La spiegazione, probabilmente, si può trovare partendo da una nota di Zotenberg. Nel descrivere la situazione alessandrina al tempo di Cirillo, il buon vescovo ricorda che quei bravi fedeli «ripieni di santo zelo, radunarono una grande quantità di legna e bruciarono il covo dei filosofi pagani» (La biblioteca annessa al tempio di Serapide? La grande Biblioteca annessa al Museo? O addirittura il Museo nel suo complesso?). A questo punto Zotenberg si chiede se ci sia relazione tra questo passo e la frase di Malala. Con tutta la cautela del caso (non sono uno specialista), io azzarderei una risposta positiva. Evidentemente i due autori attingono alla stessa fonte, solo che Malala fa una gran confusione.



Torniamo al melodramma di Caetani

Bene. Questo è il quadro dei fatti storici che Roffredo Caetani ha assunto come materia della propria opera d’arte; opera di poesia (è suo il libretto) e, più ancora, capolavoro musicale. Ne parleremo, finalmente, a partire dal prossimo post.




Riconoscimenti:
 1. l'originale del mosaico dei filosofi è nel Museo nazionale di Napoli;
 2. la foto della Biblioteca alessandrina è presa dal sito danielemancini-archeologia;
 3. del ritratto da El Fayyum non conosco la posizione.








domenica, settembre 01, 2019

Hypatia, melodramma di R. Caetani. 1. La studiosa alessandrina.



 
giovane ragazza con stilo poggiato alle labbra
Così mi piace immaginare Ipazia giovinetta,
come questa ragazza da un affresco pompeiano (I sec. d.C.)
in atteggiamento riflessivo
prima di scrivere sul suo “quadernetto” nuovo di tavolette cerate
(lat. pugillares, gr. pìnakes o déltoi)



[È, questo, il primo di una breve serie di post dedicati al melodramma di Roffredo Caetani sulla fine di Ipazia, studiosa alessandrina del IV-V sec. d.C. Partiremo dalla figura storica della protagonista (I), per passare alle circostanze e responsabilità della sua tragica fine (II), e proseguire con l’esame del libretto e della musica dell’“azione drammatica” caetaniana (III e IV). Le immagini riportate a illustrazione dell'articolo non sono ritratti d'Ipazia – ne precedono la nascita di ben tre secoli! –  ma esemplificano (almeno le prime tre) la condizione delle donne nel mondo greco-romano in fatto di istruzione: non pari all'uomo, ma certo molto meno ignoranti di quanto certuni amano fantasticare.]
    

1. La “mia” Ipazia

La conobbi nei miei studi universitari di letteratura greca. La reincontrai negli studi di letteratura greco-cristiana, in relazione alle vere o presunte responsabilità del focoso vescovo Cirillo di Alessandria nella sua tragica fine. E da allora fu per me una delle figure femminili più affascinanti della tarda antichità.

A rendermela cara non furono le poche righe a lei dedicate dalle storie letterarie (poco o nulla ci resta dei suoi numerosi scritti, a parte la revisione del III libro del paterno Commento all’Almagesto), quanto il resoconto della sua uccisione e, più ancora, le poche lettere a lei indirizzate da Sinesio di Cirene. Naturalmente una donna così affascinante sul piano intellettuale e morale mi compiacqui di figurarmela bella. E fui lieto di trovarne conferma nelle cosiddette fonti.
«Viveva in castità, pur essendo talmente bella e di bell’aspetto, che uno dei suoi giovani frequentatori si innamorò perdutamente di lei» leggiamo nella Suda.
Vero è che la Suda è un lessico bizantino, compilato verso la fine del x sec., sulla base di documenti non sempre attendibili. E che lo sbrigativo e poco elegante espediente con cui Ipazia avrebbe “guarito” dall’insana passione lo spasimante “giovinetto” appannò un po’ l’immagine idealizzata che me n’ero fatta. Ma l’accenno all’eccezionalità della sua bellezza lo ritenni, allora, testimonianza inconfutabile. Del resto, poiché nessuna fonte afferma il contrario, possiamo ben continuare a immaginarcela bella, a gusto di ciascuno. Permettetemi, però, di aggiungere che, a rendermela ancora più fascinosa, è proprio il fatto che le fonti più attendibili attribuiscono la stima e l’affetto, di cui la circondarono quanti la conobbero, esclusivamente alle sue doti spirituali e morali, senza far cenno del suo aspetto fisico.    
Poi passai ad altri studi e altre occupazioni. E l’immagine dell’affascinante studiosa alessandrina regredì in un angolino semibuio della mia coscienza. Né valsero a trarla fuori le sparse notizie di più o meno recenti strumentalizzazioni della sua persona. L’interesse fu invece prontamente risvegliato dall’“azione lirica” a lei dedicata da Roffredo Caetani. L’immagine dell’amabile pensatrice alessandrina mi si ripresentò prepotente e m’indusse a orientare i miei studi verso questo a me ignoto e generalmente misconosciuto compositore.  

Ma torniamo a Ipazia, o Hypatia (pronuncia “Ipàzia”) secondo la trascrizione fedele al latino in voga ai primi del Novecento. Tranquilli: non vi annoierò con sottili disquisizioni erudite. Non mi curerò – almeno per il momento – nemmeno di confutare e raddrizzare le distorsioni perpetrate ai suoi danni da “studi” viziati da pregiudizi anticlericali e, ultimamente, soprattutto femministi. Vi presenterò la “mia” Ipazia, come la conobbi e l’amai basandomi esclusivamente su un’onesta lettura delle fonti.   

2. La studiosa

pittura pompeiana: donna con tavolette per scrivere
O come questa “liceale”
(sempre da Pompei)
anche lei molto giudiziosa:
riflettere, prima di scrivere!
Nata ad Alessandria verso il 360/370, ebbe dal padre (il celebre astronomo e matematico Teone) il nome beneaugurante di Ipazia (gr. πατία, pron. Hypatìa), che è quanto dire “eccelsa”, “sublime”. E, una volta tanto, l’orgoglio paterno non fu sconfessato dalla realtà. La figliola non solo assimilò e sviluppò gli studi paterni, ma da quelli passò alla filosofia, abbracciando – sembra – il neoplatonismo, ma senza trascurare i grandi classici. Sapeva passare con grande naturalezza da disquisizioni di argomento astronomico o matematico a spiegazioni di passi platonici o aristotelici, fino alle teorie filosofiche più recenti, suscitando nei giovani entusiasmo e, in qualche caso, ardente passione amorosa che lei seppe spegnere – stando al lessico Suda – se non con eleganza, certo con efficacia risolutiva. Questa studiosa io ve la presenterò come appare riflessa nell’affetto dell’unico, tra quelli che ne hanno tramandato il ricordo, che l’avesse conosciuta di persona.  



3. L’amica di Sinesio di Cirene

Raffinato cultore di lettere, più che di filosofia, Sinesio nacque a Cirene (Libia) verso il 370. Si accostò al cristianesimo timidamente e tra molte remore. Tuttavia, forse anche in seguito alla fama che si era guadagnato per aver saputo strappare all’imperatore Arcadio sgravi fiscali per la sua patria, nel 409-410 il popolo della città libica di Tolemaide lo volle vescovo. Colto di sorpresa, Sinesio cercò di esimersi, spiegando con franchezza i motivi che ne avrebbero dovuto sconsigliare l’elezione: lui poteva bensì aderire alla sostanza della dottrina e morale cristiana, ma non se la sentiva di condividerne tutti i dogmi (per esempio, la resurrezione dei morti) né l’ascetismo dominante negli ambienti ecclesiastici o, più propriamente, monastici. Ma non servì a nulla: il popolo lo volle vescovo, e a lui non restò che accostarsi ai sacramenti, dal battesimo (neanche quello aveva!) all’ordinazione sacerdotale, alla consacrazione episcopale. Accettato l’incarico, agì con l’onestà e l’energia che lo caratterizzavano: risanò l’amministrazione ecclesiastica e si oppose validamente a un’incursione di barbari. Purtroppo il suo governo durò poco: morì dopo soli tre anni, distrutto dal dolore per la morte prematura dei suoi tre figli, scomparsi nel giro di un anno o poco più.

pittura pompeiana: giovane donna immersa nella lettura
O come questa giovane donna
 (ancora da Pompei),
colta in una pausa di meditazione
nel corso di una lettura impegnativa.
Il futuro vescovo conobbe Ipazia, forse più anziana di lui di qualche anno, ad Alessandria; ne seguì gli insegnamenti e concepì per lei un’ammirazione spinta fino alla devozione.

Più che trentenne (nel 404) non sa decidersi a pubblicare due inediti senza la sua preventiva approvazione.  È convinto, Sinesio, che il primo gli sia stato ispirato addirittura da Dio (l’altro dalla cattiveria dei critici), ma si rimette interamente alla sua decisione. Giudizio inappellabile – dice –; tanto più che, per parafrasare Aristotele, la sa più amante della verità che dell’amico (lett. n. 154) .

E se anche fosse vero che i morti, nell’aldilà, dimenticano ogni cosa”, le scrive, riecheggiando Omero, in una lettera dell’anno seguente (n. 124), “io, invece, anche lì mi ricorderò della mia cara Ipazia”. Non può staccarsi dalla sua patria, martoriata da un’invasione barbarica – aggiunge –; ma se un giorno, avendone l’agio, si rassegnerà a farlo, sarà solo per amore di lei.

Nel 413, poi – dunque poco prima della morte – le scrive per raccomandarle due parenti, vittime di un’ingiustizia (n. 81). Ho sempre detestato l’ingiustizia, dice; e per questo, per correggerne le storture, sono stato sempre pronto a spendere quel credito che mi ero guadagnato presso i potenti, tanto che tu eri solita chiamarmi “il bene degli altri”. Altro tempo. Ora mi sento abbandonato da tutti, a meno che non possa fare qualcosa tu, che godi di quel potere che ti auguro di conservare per sempre, utilizzandolo per il meglio. (Allusione, qui, al forte ascendente di cui Ipazia godeva verso il governatore dell’Egitto; quell’ascendente che, appunto, sta per esserle fatale!).

Nello stesso anno, persi, nel giro di una dozzina di mesi, i suoi tre figli, separato, per effetto dell’ordinazione episcopale, dalla moglie – di cui peraltro non fa cenno –  cade in uno stato di profonda prostrazione: si sente solo, abbandonato da tutti, persino da quella cerchia di amici alessandrini che ha sempre nel cuore, e dai quali ha atteso inutilmente un qualche riscontro scritto... Ma soprattutto – le scrive – mi affligge la lontananza “della tua anima veramente divinaς θειοτάτης σου ψυχς), che sola speravo mi rimanesse fedele, più forte degli assalti del destino e di una malasorte di là dall’umano” (n. 10). Ci si è chiesti se l’atteggiamento di Ipazia qui lamentato non sia da connettere alla sua elezione al soglio episcopale. L’immagine che i pochi documenti ci hanno trasmesso di lei mi fanno propendere per una risposta negativa: forse Ipazia non era informata del suo stato, forse la depressione fa scambiare a lui per abbandono quello che è solo un ritardo... Vero è, però, che non abbiamo elementi decisivi. A me, comunque, interessa di più quella sublimazione della persona nell’“anima”, che lui – forse platonicamente più che cristianamente – definisce “divina”; anzi, nel caso di Ipazia, θειοτάτη, “divinissima”! Tale è la profonda ammirazione che ha per lei.

E infine, nell’ultima lettera che le invia (n. 16) – sempre nel fatale 413 – nell’augurarle dal più profondo del cuore quella salute che a lui manca, la chiama “madre e sorella e maestra, e per tutto questo mia benefattrice”, e insomma – aggiunge – tu sei per me “quanto di più prezioso vi è di nome e di fatto”. La prega poi – evidentemente consapevole che si tratta di un addio – di salutare quei fortunati che fanno parte della sua cerchia di amici e seguaci, a cominciare dal padre e dal fratello. E se – dice – al gruppo si è aggiunto qualcuno di tuo gradimento, “salutalo come il più caro dei miei amici, e digli che lo ringrazio del fatto che abbia saputo riuscirti gradito”.

Lascio da parte un paio di lettere meno interessanti. Ma non la n. 5, indirizzata non a lei ma al fratello del mittente. Proprio per questo mi è più cara; perché un eventuale sospetto di piaggeria, fuor di luogo nelle altre lettere, qui risulterebbe assurdo.  È dell’ottobre del 407. Sinesio non è ancora vescovo, e non ha ancora sperimentato la sovrumana crudeltà del destino.  È un tranquillo signore di campagna – ma non ignaro di un centro cosmopolita come Alessandria – colto, amante delle lettere, della sapienza e dell’arte.  “Salutami l’adorabile filosofa, prediletta da Dio (θεοφιλεστάτην)” – scrive al fratello – “e la fortunata schiera che può godere della sua voce divina”… Ho voluto sottolineare quel “prediletta da Dio”, perché non può non far pensare alla sua tragica fine e renderla più dolorosa e assurda, e più detestabile il fanatismo di chi, in nome di Dio, la uccise e ne fece strazio. Ma di questo parleremo in un prossimo post. 

4. Salutata dai suoi ammiratori

Qui voglio concludere con un passo del già accennato lemma a lei dedicato dalla Suda. «Ora un giorno avvenne che Cirillo, a capo della setta religiosa avversaria, passando accanto alla casa di Ipazia, vide davanti alla porta una gran ressa confusa di uomini e di cavalli: alcuni si avvicinavano, altri si allontanavano, altri sostavano. E avendo chiesto che cosa fosse quell’assembramento e a che si riferisse tutto quel chiasso davanti alla casa, gli fu risposto dai seguaci che quella era l’abitazione della filosofa Ipazia, e che quella gente era lì appunto per salutarla». Nel seguito del passo, l’autore si lascia andare ad arbitrarie illazioni (ne riparleremo in altra occasione) circa le ragioni e le conseguenze di una vera o presunta reazione rabbiosa di Cirillo. L’inattendibilità delle illazioni non comporta, però, il rifiuto della scena descritta come contesto della rabbia episcopale. Anzi, è probabile che proprio la spettacolarità della scena, e l’amore generale alla studiosa alessandrina che essa testimoniava, abbiano indotto il malevolo autore a prestare a Cirillo una buona dose della propria bassezza morale. 

mosaico pompeiano con ritratto di donna
Ed eccola
(sempre ‘prefigurata’ in un mosaico pompeiano)
mentre ascolta (con quanta pazienza!)
la sconclusionata esposizione d’un seguace
messo in difficoltà non sai se dalla propria impreparazione
o dal fascino dell’inegnante.

Comunque stiano le cose, a me Ipazia piace ricordarla così: assediata in casa da una ressa di ammiratori, là convenuti anche da lontano (a cavallo!) per vederla, ascoltarla, salutarla… E non è una diva dello spettacolo (ce n’erano anche allora!), non è un divo dello sport (ce n’erano anche allora!)… È una filosofa: una donna amante della sapienza



Riconoscimento:

  1. gli originali delle immagini riprodotte sono proprietà del Museo nazionale di Napoli.
  2. la numerazione delle lettere (che non segue l’ordine cronologico!) è ripresa dall’edizione “Les belles lettres” curata da Antonio Garzya.