martedì, giugno 13, 2017

Critica e pubblico (Manon Lescaut: “Pazzo son”)






Breve riflessione sul conflitto tra pubblico e critica, suggerita da un episodio risalente al tempo dell’inaugurazione del nuovo Teatro Regio di Torino (1973), egregiamente gestita dal Maestro Fulvio Vernizzi.
Quello del conflitto tra critica e pubblico è un problema vivo e ricorrente, specialmente in ambito musicale. Presumere di poter affrontare seriamente, nello spazio appropriato a un post, un tema di tale complessità sarebbe certo temerario. Ma non sarà considerata presuntuosa – almeno spero – l’idea di proporre un modestissimo spunto di riflessione, incentrato su un passo della Manon Lescaut pucciniana ("Pazzo son… Guardate"), e legato a un ricordo personale. Un episodio di molti anni fa, in sé e per sé di scarsa o nessuna importanza, ma che per me, allora molto giovane, fu significativo e non privo di qualche insegnamento. 
 
la platea del Regio di Torino
La platea del Regio di Torino in una bella foto di Fabrizia Rovasenda 
(si noti la forma a conchiglia bivalve e l'originale illuminazione a bacchette pensili)
Ebbi la ventura di assistere, nel lontano aprile 1973, all’inaugurazione del nuovo Teatro Regio di Torino. Non proprio alla serata inaugurale, sì alle opere liriche programmate per l’evento: I Vespri siciliani, Werther, Manon Lescaut
il Maestro Fulvio Vernizzi
Il Maestro Fulvio Vernizzi 
(part. della copertina del volume a lui dedicato da G. Satragni)

Inaugurazione svoltasi tra mille difficoltà. Per fortuna il Direttore artistico, il Maestro Fulvio Vernizzi, in carica da meno di quattro mesi, si prodigò senza risparmio, superandole tutte ottimamente (pensate: dovette persino assumere su di sé, si può dire all’ultimo momento, la direzione dei Vespri, in sostituzione del titolare – il celeberrimo Vittorio Gui! – colto da grave malore durante una delle ultime prove). Tra le tante iniziative, il solerte Maestro Vernizzi aveva messo in programma anche una serie di conferenze propedeutiche alle tre opere. Fu appunto in una di esse – se la memoria non m'inganna – che accadde il… fattaccio. 
Eravamo nel Piccolo, una sala minore, ma comunque capace di quasi quattrocento posti a sedere. Non mi pare fosse piena, ma per per la presentazione di un'opera (sia pure  della notorietà della Manon Lescaut) il pubblico era francamente numeroso. Il relatore aveva avuto l’accortezza di arricchire e vivacizzare il suo intervento con la proposta di brani esemplificativi preregistrati. Giunto all’illustrazione del III atto, ritenne opportuno avanzare serie riserve sulla qualità artistica della notissima romanza conclusiva (“No! pazzo son”), snobbando apertamente la “bocca buona” dei pubblici di mezzo mondo. E, a conferma, avviò la riproduzione del passo, ascoltato dal pubblico in religioso silenzio. Ma quando il povero Des Grieux ebbe concluso la sua disperata implorazione rompendo in irrefrenabili singhiozzi, tutta la sala esplose in un’ovazione strepitosa, come nemmeno a un’esecuzione dal vivo. L’incauto critico, quando finalmente ebbe la possibilità di riprendere la parola, dovette profondersi in miracoli di equilibrismo, nel non facile tentativo di ripristinare un minimo d’intesa col proprio uditorio.

 
Il tenore Francesco Anile

Il tenore Francesco Anile:
forse la più recente reincarnazione del cavalier Des Grieux
 Io ora, ad esser sincero, non ricordo esattamente né il merito né le argomentazioni di quelle critiche. Col senno di poi, inclinerei a credere che non fossero affatto infondate. C’è, in questa romanza, qualche tocco un po’ troppo enfatico; c’è, nell’implorazione di Des Grieux, qualche accento non propriamente virile, diciamo pure non particolarmente dignitoso (ma non aveva già riconosciuto, lo sventurato ‘cavaliere’, che quella passione fatale lo forzava a scendere “la scala dell’infamia”?); momenti negativi accentuati da interpreti propensi a pigiare sul pedale del patetico, e a coronare il tutto con l’immancabile salva di singhiozzi. Quanto più… realistica, questa, o – più esattamente – virtuosistica, tanto



meno sopportabile! (E – per tornare un attimo al punto di partenza – ricorderò che uno dei meriti precipui dell’attività artistica del Maestro Vernizzi fu proprio quello di esigere dagli interpreti la fedeltà all’autore, senza eccessive concessioni al virtuosismo esibizionistico di certi cantanti). 
 
boccascena originale del nuovo Teatro Regio di Torino
il boccascena originale (ora modificato per ragioni acustiche) stondato sul modello degli schermi televisivi dell'epoca
È anche vero, però, che la musica di Puccini, fin dall’apparire del tema ai violoncelli (doppiati da clarinetto basso, fagotti e contrabbasso) è così trascinante (oh, quella quarta ascendente su “Guardate”, che spinge all’acme la teatralità della parola e della scena, così enfatica ma così coinvolgente per chi non ha paura di… lasciarsi andare!), la musica di Puccini – dicevo – è così travolgente da far dimenticare l’enfasi, e le giuste convenienze borghesi, e la togata gravitas romana. E il critico, giustamente severo nel riprovare l’arbitraria amplificazione di interpreti troppo inclini a ‘titillare’, a solleticare “gli orecchi di quelli che meno intendono che cosa sia cantare con affetto” (vedi post dell’undici agosto 2016), forse dovrebbe per un attimo metter da parte anche lui la sua sapienza tecnica e la sua umana saggezza… E nulla vieta di recuperarle appena svaniti gli effetti dell’incantesimo del mago lucchese.

martedì, giugno 06, 2017

Busoni, Arlecchino e il futurismo



Busoni Arlecchino e il futurismo


ritratto di Ferruccio Busoni
Ferruccio Busoni nel 1911 (dal volume degli Atti)
 
Recensione (ultima modifica: 30 agosto 2017) del volume BUSONI / Arlecchino e il futurismo, Atti del Convegno dedicato all’argomento. 
Prendendo avvio dall’Arlecchino del musicista Ferruccio Busoni, gli articoli diramano in varie direzioni: dalle maschere della Commedia dell’arte, al loro multiforme riaffacciarsi nel teatro musicale novecentesco (Mascagni, Strauss, Pick-Mangiagalli, Wolf-Ferrari, Malipiero, Casella…), ai rapporti di Busoni con altri musicisti (Liszt, Pfizner, Sibelius…).
Argomenti specialistici? Be’, le maschere della Commedia dell’arte fanno parte del patrimonio comune di una persona mediamente colta; e i musicisti coinvolti non sono nomi tanto peregrini: Busoni, per dire, certo meno noto del popolarissimo Mascagni, è tuttavia da annoverare tra i grandi della musica mondiale del suo tempo, pietra miliare nello sviluppo della musica novecentesca… Tuttavia – devo ammetterlo – questo post un po' particolare lo è; gli argomenti trattati (e la maniera di affrontarli) sono specialistici. Che fare? Ai miei amici meno avvezzi a queste tematiche non posso che promettere (promessa formale, solenne!) che terrò la mano quanto più leggera possibile, (sperando di non tradire il pensiero degli autori). Anche per questo, più che di recensione, dovrei parlare di semplice segnalazione: dato il numero degli interventi, e l'ampiezza e varietà degli argomenti, una vera recensione avrebbe dilatato a dismisura un post già troppo lungo.

casa natale di Busoni

Casa natale di Busoni a Empoli, nella moderna Piazza della Vittoria,
piuttosto diversa dal ‘Campaccio’, “piazzale vastissimo e non lastricato”
come la descrive il musicista, venuto al mondo “in una delle casupole che lo circondano”
Ah, dimenticavo. Il convegno si è tenuto a Empoli, città natale di Busoni (1866-1924), il 13-14 marzo dell’anno scorso, organizzato, col patrocinio del Comune, dal Centro studi musicali “Ferruccio Busoni” egregiamente diretto dal Maestro Marco Vincenzi, con la preziosa collaborazione di Stefano Donati, segretario ‘factotum’. Gli Atti sono stati pubblicati (a cura di Giovanni Guanti) da LoGisma ed., 2016, (n. 71 di “Civiltà musicale”).
Ne do notizia tanto più volentieri in quanto a quel Convegno ho avuto il piacere di partecipare, beninteso in veste di semplice uditore, disciplinato scolaro.



Il contributo del curatore, Giovanni Guanti, (“Ridateci gli Arlecchini”, pp. 7-18) inquadra l’Arlecchino busoniano in una panoramica delle varie epifanie della maschera bergamasca in opere d’arte di varia natura. Ne emerge un personaggio che, forte della sua “intatta umanità” di maschera, e privilegiando le pulsioni “biofile” su quelle “tanatofile”, leva alta la voce a spezzare la “spirale del silenzio” che grava su concezioni etico-politiche  mortifere, imposte da uomini assetati di potere e passivamente assorbite da masse acquiescenti. L’Arlecchino di Busoni “ci apostrofa nel più urtante dei modi ma per svegliarci”.

Alcuni interventi sono strettamente connessi a esibizioni che hanno allietato l’incontro. Così Enrico Bonavera, allievo ‘di bottega’ di Ferruccio Soleri, ci offre una chiave di lettura della sua esibizione mimica ispirata al Rondò arlecchinesco di Busoni. Quirino Principe (“Tagliando a strisce la volta celeste, ovvero: divieni ciò che sei”) riporta una “selezione di passi tratti dagli scritti di Busoni, letti da Enrico Bonavera e alternati a composizioni del musicista empolese interpretate dal pianista Alessandro Marangoni”.

Giorgio Sangiorgi (“Maschere e burattini nel cinema muto o da poco sonorizzato”, 113-130) propone una filmografia di “maschere e burattini” dal 1905 al 1940. Piero Mioli, dal canto suo (“La messa in scena bolognese dell’Arlecchino di Busoni con la regia di Lucio Dalla”, 93-102) indica, nella regia del cantautore, “una doppia parodia, ora simpatica e ora graffiante, più spesso agrodolce, ancipite, ambigua, nonostante tutto tutta novecentesca”; e conclude con una rapida rassegna delle poche (e poco benevole) recensioni dello spettacolo.

Altri studiosi esplorano le varie reincarnazioni di Arlecchino in musica.
Così Francesco Fontanelli (“Tra Strauss e Malipiero. Persistenza ‘mitica’ di Arlecchino nel teatro musicale primonovecentesco”, pp.19-59) segue le varie metamorfosi simboliche via via subite dalla maschera bergamasca in alcune opere novecentesche. (vedi Fontanelli

Su un terreno analogo si muove la ricerca di Maria Cristina Riffero (“Le metamorfosi di Arlecchino. Esempi attraverso le creazioni di alcuni musicisti italiani del primo Novecento”, pp. 131-156) (vedi Riffero).



Giovanna Cermelli (“Romanticismo, tardo-romanticismo e maschere italiane”, pp. 103-112) ricerca nella cultura romantica tedesca le radici dalla Nuova commedia dell’arte busonianana (vedi Cermelli)


Con gli interventi di Silvano Salvadori ("Prosecuzione e fine dell'Arlecchineide: si riapra il sipario!", pp. 61-74; vedi Salvadori) e Monica Zefferi (“La prima traduzione italiana della seconda parte dell’Arlecchineïde di Ferruccio Busoni. Un libretto (quasi) sconosciuto”, pp. 75-92; vedi Zefferi) il discorso si focalizza su un’opera pensata come prosecuzione dell’Arlecchino e rimasta incompiuta.

Chi vuole farsi un’idea precisa delle circostanze biografiche che stanno dietro il pessimismo beffardo dell’Arlecchino e, più ancora, dietro quello apocalittico dell’Arlecchineide, non ha che da leggere il saggio denso e ben documentato di Laureto Rodoni (“Implicazioni biografiche nell’elaborazione letteraria e musicale di Arlecchino”, pp. 173-190; vedi Rodoni).

 In territori più sereni, e a relazioni più tranquille, ci riportano gli articoli di Marco Vincenzi (“Faust e Arlecchino ovvero Liszt e Busoni: intersezioni nella vita, nel repertorio e nelle composizioni per pianoforte”, p. 197-205; vedi Vincenzi) e di Ferruccio Tammaro ("Busoni e Sibelius: un’amicizia complementare”, pp. 207-218; vedi Tammaro)


Alla seconda parte del titolo del Convegno (… “e il futurismo”) dedica la propria ricerca la studiosa tedesca Martina Weindel (vedi Weindel).

Pianoforte di Busoni

pianoforte esposto nel Museo allestito nella sua casa:
sembra che il Maestro solesse esercitarsi su questo strumento
ogni volta che tornava nella cittadina natale