martedì, gennaio 21, 2020

Hypatia di R. Caetani: invito all'ascolto



roffredo caetani nel 1958
Roffredo  Caetani nel 1958
(da Radiocorriere)

Nel post precedente (qui) ho dato conto della prima weimariana e del giudizio dei contemporanei, riferendo ampiamente sulle recensioni di due critici tedeschi: Max Marschalk e Leopold Schmidt.

Che cosa può aggiungere un outsider come me, né critico né musicista, della musica niente più che un semplice cultore o amatore? Che, oltretutto, non ha avuto accesso alla partitura e ha potuto ascoltarla solo dalla registrazione della RAI messa generosamente in rete dall’ottimo baritono Allan Rizzetti?
Chi desidera un’analisi tecnica può rivolgersi a studi come il breve saggio di Piero Mioli (in Roffredo Caetani. Un musicista aristocratico) o aspettare l’uscita della monografia sul nostro autore promessa dallo studioso olandese Paul Op de Coul.
Io, come al solito, mi pongo dal punto di vista del semplice fruitore (del fruitore, beninteso, non del consumatore, ché non è musica da consumo, questa!). Mi limito a dare testimonianza (quasi a modo di appunti, senza preoccupazione di organicità e completezza) di reazioni ed emozioni suscitate dall’opera d’arte in questione in un fruitore
– se non m’illudo – non sprovveduto.

Ascoltiamola, dunque, assieme. Potete farlo sintonizzandovi sul canale youtube del M. Rizzetti (www.youtube.com/watch?v=umnQtdFncm4) – al quale torno a esprimere la mia gratitudine – che mette in rete la versione trasmessa dalla Rai (terzo programma) domenica 19 gennaio 1958. Avverto che, rispetto al testo da me analizzato e riassunto, la versione Rai risulta scorciata, secondo quanto segnalerò all’occasione.   


Atto I, scenario 1 [00:00 – 13:30]

Il breve preludio orchestrale, che albeggia fosco e chiuso, si snoda lento. A onde successive tenta di salire, spinto dall’urgere del dramma incombente, per ricadere e riprendersi; flauto ed archi si intrecciano fino sfociare nel predominio indiscusso dei violini e aprirsi, poi, nella limpida voce dell’oboe, ripresa da quella più vellutata del flauto: breve, bellissimo motivo che guida alla voce possente e trepidante di Cirillo (basso), che apre il dramma. Poi l’orchestra segue e commenta i pensieri inespressi del patriarca, improvvisamente rotti da un drammatico cambio di tono che guida all’inquieta domanda “Costei chi è?” del vescovo, allarmato dall’apparire di Eudocia (mezzosoprano). Il dialogo, o meglio il monologo del patriarca, dominato dall’ira per l’ostilità del Prefetto,  si avvia in modo tempestoso, punteggiato dalla percussione dei timpani.

E notate come l’atmosfera cambi, poco dopo, quando Cirillo guida la donna al parapetto e le indica una “nitida casa di stile attico” (“Vedi laggiù quel picciol bosco e quella / casa che neve sembra / pel suo candor…”). Quella nitida casetta “di stile attico” (cioè semplice e puro), immersa in “quel picciol bosco”, candida come la neve, è lo specchio dell’anima di chi l’abita, di Hypatia. Tale la sente, nel suo intimo, Cirillo; tale la sente, almeno, il musicista, che immerge la prima parte del colloquio in un’atmosfera di tenerezza che addolcisce persino la voce del burbero patriarca. Fino a quando non viene improvvisamente inasprita dall’allusione al nefasto ruolo che la studiosa eserciterebbe sull’animo di Oreste. Qui i suoni dell’orchestra s’ingorgano in un groviglio dissonante (come avverrà abbastanza spesso, nel corso dell’opera, a sottolineare i momenti più drammatici, di più aspro conflitto tra i personaggi, o anche soltanto nel segreto dell’anima di uno solo di essi, come a volte è il caso di Eudocia o di Oreste). Il discorso si fa sempre più teso e drammatico, con frequente ricorso alla sottolineatura delle percussioni. Il massimo della concitazione si ha quando Cirillo accenna all’ipotesi che Ipazia rifiuti di collaborare. Un’idea che egli non può sopportare. Frastuono di timpani, rafforzato da ottoni e dall’intera orchestra, accompagna e commenta l’evocazione dell’ira del popolo cristiano, assimilata alla tempesta del deserto.

E si noti come, poco dopo (“Sì, tosto! M’odi ben!”), la sottolineatura dei timpani e il clangore degli ottoni, con predominio dei tromboni, siano impiegati a enfatizzare l’autorità e il carattere irremovibile di Cirillo. Tanto che ben naturale appare lo spavento della povera Izèbel (soprano): “Oh, quello sguardo… come mi atterrisce…


Atto I, scenario 2 (e Inno alla bellezza) [13:30 – 34:25]

Il predominio dei legni, ritmato dagli archi, commenta l’apertura della scena sul giardino dell’abitazione della protagonista, quasi a sottolinearne il carattere idillico. Ad esso sembrano adeguarsi anche gli archi. Solo per  un attimo. Presto il canto dei violini muta in un grido disperato – presago della tragedia imminente su quella “nitida” casetta – che guida alle tristi considerazioni di Ercoliano e Teone (bassi) sulla tragica situazione di Roma.
Ma abbandoniamo anche noi questi “miseri tempi” per passare all’introduzione della protagonista, che col suo solo apparire tronca, appunto, quelle tristi considerazioni.

La figura d’Hypatia (soprano) è, al suo entrare in scena [15:57]), strettamente congiunta all’idea dei fiori. Le sue prime parole – dopo il saluto – riguardano i fiori, ed è questo il motivo poetico dominante. E l’orchestra si adegua con interventi evocativi più che onomatopeici. Già quando la protagonista invita i fanciulli a raccogliere altri fiori, sentiamo un gorgheggio primaverile del flauto, doppiato dai violini. La battuta di Ercoliano (Vedo che ami sempre i fiori) dà a Hypatia l’occasione a una prima appassionata effusione lirica nell’accostare i fiori ai fanciulli (e riudiamo il festoso gorgheggio primaverile), gli uni e gli altri visti come espressione della “infinita gioia / con cui ’l Supremo dio / ha infuso la sua vita nel creato”, e il  canto raggiunge la massima tensione proprio in corrispondenza delle parole “gioia” e “Supremo”).

Mai non ti sazia l’adorar quel marmo?” chiede Oreste (tenore), dando così occasione a quella prima, lunga espansione lirica della protagonista che mi è parso opportuno denominare “Inno alla bellezza” [18:16 – 22:22]  (Puoi seguirne il testo qui).

L’incomprensione dell’unica persona che quella donna straordinaria potrebbe forse riamare suscita, nella sua anima ipersensibile, un moto di delusione e di tristezza. Ed è la voce triste del corno inglese che suggerisce l’inespressa amarezza della protagonista, portandola al sospiro “Oh! Se tu almeno intender mi potessi!”, seguendolo e rinforzandolo. E quando Oreste, proprio incapace di comprendere, si mostra sbalordito dalla parola “delirio”, con quanta crescente passione la povera eroina cerca disperatamente di farsi capire (“da l’estasi ineffabile / che la Bellezza / accende in chi ne ha l’anima compresa”), salendo di tono  per culminare sulla parola “compresa”, con l’accento tonico esaltato dall’intervento deciso del timpano.
La discrezione con cui Caetani ricorre all’onomatopea risulta evidente soprattutto in questo pezzo che gliene porgerebbe ghiotte occasioni: la cadenza / lenta del mar… / il fremer misterioso de le foglie… / il gemito del vento, / e il canto degli uccelli… Il fremito delle foglie e il gemito del vento sono discretamente evocati dal tremolo degli archi. Il “canto degli uccelli” sembra salutato e imitato dai giochi del flauto. Questi ultimi, però, più che funzione descrittiva onomatopeica, sembrano averne una evocativa: evocano l’imminente, miracolosa apparizione di Pan, raffigurato, nella mitologia, errabondo per i campi, intento a suonare quel suo strumento formato da canne di differente lunghezza che da lui prende il nome di “flauto di Pan”.

Pan incoronato (affresco nella Reggia di Caserta)
Pan ‘l’eterno’ col suo ‘flauto’.
Qui, per la verità, in un atteggiamento più consono alla maliziosa grazia settecentesca che al mito classico

Il canto riprende teso e fremente, sostenuto dal fremere, dal ribollire dell'orchestra – quasi
una rappresentazione fonica di quello sterminato fiorire e rifiorire della materia inerte investita dal soffio onnipossente del Creatore, di quell’innumerevole palpitare delle creature in riconoscenza “al Re dell’Universo” – che si prolunga ben oltre il cadere della voce.

(Incontriamo qui un primo taglio di 28 versi, per passare all’annuncio dell’arrivo di Izèbel; poi, dopo ancora una lacuna di 11 versi, l’ancella fa la sua  ambasciata: la mia signora / veder ti deve, e senza indugio).

Molto espressiva la reazione d’Izèbel al nome di Oreste, e la rivelazione dell’identità della sua padrona (in cui il Prefetto sospetta un’assassina): sorpresa, sgomento, tenerezza e amarezza e supplica (Oh, signor, non bestemmiar!”), esitazione… e poi la terribile rivelazione
(“Ella è tua madre!”). E qui la reazione di Oreste è sottolineata, prima che dalle parole, dal nodo di laceranti dissonanze. Poi, nella pausa dell’attesa, è l’orchestra a suggerire il viluppo di contrastanti sentimenti di ansia e di tenerezza (sembra persino di udire un ritmo cullante) che confligge nell’animo del Prefetto.
E, per finire, voci e orchestra collaborano alla volgarità del coro di insulti reciproci tra elleni e galilei. (Particolarmente spassoso il dileggio dei galilei verso gli dei pagani: Veh! Non turbate il sonno / con tanto chiasso / ai vostri numi…. Viene in mente un passo dell’oratorio Elias di Mendelssohn: Elia sfida i seguaci di Baal a invocare il loro dio, il quale, essendo di pietra, ovviamente non risponde. “Chiamatelo più forte, chiamatelo più forte!” – insiste beffardo. “Forse sta dormendo!”). 

E non possiamo non notare, all’uscita di Hypatia richiamata dal baccano, l’enfasi sarcastica posta da Oreste su Cirillo “buon pastore”.


Atto II, scenario 1 [34:26 – 51:18]
 

L’atto si apre con un breve, lento preludio orchestrale dove più è notevole l’influsso wagneriano. Evidente, del resto – specialmente nel trattamento orchestrale – anche nel seguito della scena, soprattutto nell’attesa angosciosa della donna e poi nel drammatico colloquio con Pietro (baritono). Probabilmente non è un caso che al critico del Berliner Tageblatt proprio la prima parte del secondo atto apparisse quella “più felicemente ispirata”.
La drammaticità del colloquio tra Pietro ed Eudocia è potentemente ritmata (già dalla risposta alla domanda di quest’ultima: “Che vuoi?”)  da un imponente unisono dell’orchestra ad ogni scambio di battuta, punteggiato da triplice percussione del timpano alla controrisposta della donna, particolarmente impressionante nella coincidenza con il risoluto “Mai!” del baritono, seguito da un fosco, minaccioso frammento melodico dei violoncelli che guida alla ripresa della voce: “Lei spenta”… E poi, di fronte al disperato ottimismo di Eudocia, quell’incredulo “Sarà”, senza orchestra, quasi parlato…

Segue il penoso colloquio tra madre e figlio. Nelle implorazioni a Oreste, Eudocia sconfina in esagerazioni di tenerezza (p. es., Sol queste lacrime son de la madre tua…”).  Ma è profondamente sincera nella disperazione: in quelle battute che cominciano in recitativo secco (dopo una pausa di silenzio, in cui evidentemente la madre pondera amaramente le sue amare parole): Va’, Oreste! Va’ per la tua via”. E poi, in note lente, tenute, sottolineate dall’orchestra, l’augurio disperato: Che Dio abbia pietà di te! (con quella nota dilatata su “pietà”, per cui “di te” pare venire dopo un singhiozzo; con quella sillaba finale (“te”) intonata su due note discendenti (che i cantanti di un tempo avrebbero sottolineato con alti singhiozzi…).  E poi, in modo analogo, dopo l’ennesima supplica, il recitativo Va’, non ti conosco più”, seguito dal pianto disperato: Egli è perduto”.
Rimasta sola la donna, è la secca percussione, prima ancora che la rabbiosa invocazione della vendetta divina, a esprimere l’irrevocabilità della dolorosa decisione di collaborare alla rovina del figlio. Cui fa seguito la drammatica concitazione del brevissimo colloquio con Izèbel restìa a dare il segnale all’inizio della strage. E nel grido finale della sventurata (Oh Dio! Ve’ come termina / Eudocia la sua vita santa!), indubbiamente sincero, è la tragedia del fanatismo religioso candidamente spinto fino all’assassinio dell’“infedele”.



Atto II, scenario 2 [51:19 – 1:05]

Troviamo qui, accanto a tagli minori, le sforbiciate più estese. E anch’io, vista la lunghezza eccessiva ormai assunta da questo mio “Invito”, mi limiterò a qualche osservazione episodica.


Dopo il festoso annuncio dell’arrivo di Hypatia (orchestra e coro), e l’inarticolato, suggestivo coro dei bassi, si saltano una quindicina di versi per approdare all’oasi lirica Spirto sublime; e poi, dopo un breve intervento del coro, all’amara rievocazione di Un tempo qui fulgea. Notate, dopoa noi lo vieta”, il rude intervento dell’orchestra a esprimere quello che la didascalia indica come “movimento ne la folla”, a indicare la rabbia e lo sdegno della massa dei fedeli al ricordo dell’iniquo divieto imperiale di accostarsi alle rovine del già grandioso, veneratissimo tempio. (Una sorta di “musica gestuale”, che un’analisi più minuziosa potrebbe indicare anche in altri punti). Bello, in particolare, il lento fluire della seconda parte (Ma se l’ardir mi sprona) in cui la protagonista annuncia il motivo di quella pericolosa convocazione notturna. Bellissima la limpida, incantevole apertura su “voglio” (è perché voglio), cui segue quel suggestivo dilatarsi solenne e uniforme di canto e accompagnamento orchestrale a commento delle parole “con l’iniziarvi al sacro e arcano senso / del flusso della vita e della morte”, sottolineando e facendo sensibilmente avvertire, anche in vista del rito che s’inizia, il lento impercettibile fluire dei secoli e dei millenni, attraverso il perenne rinascere della vita dalla morte. E poi il doloroso intreccio di dissonanze che anticipa e accompagna il verso “per l’aspra guerra che ci fan, spietati!”.

 
Dopo il breve colloquio tra i due protagonisti, tra l’idillico (Hypatia) e il drammatico (Oreste), la voce dell’araldo sacro (basso) impone (con impressionante solennità!) il silenzio funzionale al rito religioso. Ancora un taglio di una sessantina di versi (col sacrificio, oltre che delle allucinazioni di Oreste perseguitato dall'immagine della madre, di tutta la scena del ritrovarsi delle anime e del loro apprestarsi al nuovo ciclo vitale) e si giunge a una nuova, tesissima espansione lirica della protagonista: Amor che accese / in pria la dolce luce (luce salutata da scintillanti squilli delle trombe con sordina): invocazione fremente e accorata all’Amore divino perché le anime avviate a nuova prova terrena voglia poi riaccogliere nel “celeste grembo”.
Ma le Parche hanno appena il tempo d’impartire l’ordine alle anime, che il rito viene sconvolto dal reiterato grido di Izèbel “Hypatia, sàlvati!”.
Ferma si leva la voce d’Hypatia (ancora lei: credo che per l’interprete questa seconda parte dell’atto debba rappresentare un tour-de-force non indifferente!) a dar coraggio alla folla (“Non disperate”) con la promessa che, a prezzo della sua vita, essi saranno tutti salvi, “pria che sorga il sole”. Un sole che col suo sorgere annunzierà trionfalmente (notare, oltre al levarsi della melodia, il trionfale intervento degli ottoni) il sacrificio dell’eroina e la salvezza “di quanti han fede in lei”.
Ma è solo un attimo. Dopo un breve, doloroso interludio orchestrale, l’atto si chiude  col pianto desolato del coro femminile che annuncia la catastrofe di una civiltà più che millenaria: L’Ellade muore.



Atto III [1:05 – 1:37]

Anche l’atto III mostra le ferite di forbici inesorabili: quella più ampia (una sessantina di versi) viene dopo il fallace entusiasmo di Hypatia (“Oresete ha vinto!”), cui si fa seguire direttamente quello, ben diversamente fondato, di Pietro: “Dispersi gli Unni, la città è nostra!”).

Salvo pochi passi, prevalgono i toni drammatici, cui viene data un’enfasi forse un po’ eccessiva, soprattutto nella parte orchestrale. Ma nell’insieme tiene, e bene. Notevole il contrasto drammatico tra Oreste e Cirillo. Un po’ fiacca, sul piano musicale, l’espressione di dolore sdegno ed amarezza da parte di Oreste (“Latravano per fame queste jene / nel buio de la notte, / e ti cercavano con le loro zanne… / e ti hanno lacerata!).  Più efficace la parte del patriarca, sinceramente sbigottito e affranto da eventi tragicamente sfuggitigli di mano (“Ohimè! C’han fatto!... / Oh forsennati!). La sua protesta d’innocenza (La morte di costei, non l’ho voluta”), esteriormente rivolta a Oreste, appare più come un tentativo di pacificare la sua coscienza con un tardivo ravvedimento. E la sua offerta di pace sembra più che mai sincera. E dopo il comprensibile, sdegnoso rifiuto di Oreste, quel rimettersi a Dio (“Iddio giudicherà!”) viene pronunciato col tono sincero di chi si rimette a Dio con speranza ma tutt’altro che sicuro del suo imperscrutabile giudizio. Perplessità che rispecchia quella più esplicita della folla parzialmente rinsavita: “Signor, perdona a questi / ch’è morto [cioè a Pietro], e a noi, / se abbiam peccato verso  / di te”.


Una menzione a parte merita il breve coro dei vincitori, immediatamente precedente. A tratti si ha l’impressione di trovarsi nel cuore di San Pietro in Vaticano, in prossimità del baldacchino del Bernini, e di risalire con lo sguardo – seguendo le solenni volute del canto – su per i colossali piloni e assistere allo spalancarsi grandioso della cupola michelangiolesca…

Il canto estremo di Hypatia è introdotto dal pianto del violino. Poi, dopo un primo smarrimento (“È giunta già la notte”) la vista delle stelle, già compagne di tante notti di contemplazione e studio (non dimentichiamo che l’attività speculativa di Hypatia era rivolta, accanto alla matematica, proprio all’astronomia), la richiama ancora alla vita terrena. La sua voce si leva (sola, senza accompagnamento strumentale) a quelle amiche d’un tempo (“No… vedo ancor… lì su…). L’orchestra subentra qualche attimo dopo, sostenendola discretamente con un sottofondo zampillante, evocatore, al mio orecchio, dell’innumerevole brillìo del firmamento. Quel pulsare che subito dopo diventerà concitato, drammatizzandosi, a evocare il pullulare degli incendi; per cessare, poi, lasciando l’eroina di nuovo sola, a constatare, desolatamente, “Mi han tutti abbandonata”.  

No, forse non tutti. Quell’immagine del Cristo, là, sulla facciata della chiesa, quegli occhi spalancati, stanno fissando proprio lei (il sostegno orchestrale si fa quanto mai discreto, pur con qualche sommesso bagliore della tromba con sordina: allusione al prolungarsi degli incendi?); piangono… Perché?  È per pietà di lei che piange, Lui, quel Cristo in nome del quale l’hanno uccisa? “È  forse per pietà… di me… che piangi…?”, con le sillabe “che piangi” intonate su note discendenti, secondo l'insegnamento dei madrigalisti.

L’ultimo coro (Oh, Signor, che cos’è l’uom) – quello di cui sul piano poetico avrei fatto volentieri a meno – sul piano musicale è invece molto suggestivo, con quei rintocchi funebri che lo annunciano, con quel ritmo lento e solenne (“i suoi giorni son come l’ombra / che passa…”), con quelle voci che si dissolvono, come l’ombra che passa, negli accordi bassi, profondi, dell’orchestra. La quale improvvisamente abbandona questi ultimi per il luminoso accordo conclusivo, come se Caetani avesse voluto far intravvedere – dal sacrificio d’Ipazia – il sorgere di un’alba nuova

Buon ascolto!

 
Cristo Pantocrator nell'abside del duomo di Monreale
Il maestoso Cristo Pantocrator (= onnipotente)
del duomo di Monreale
(mosaico di stile bizantino)


venerdì, gennaio 17, 2020

L’Hypatia di Caetani: la prima weimariana e il giudizio dei contemporanei.


foto di roffredo caetani
“Una figura alta, snella, elegante”
Così apparve al critico della Vossische Zeitung
l’autore di Hypatia la sera della prima
(foti ripresa da R.C. Un musicista aristocratico)
Hypatia ebbe il battesimo di pubblico una domenica di Pentecoste, a Weimar (Nationaltheater), il 23 maggio 1926  (v. biografia Caetaniriassunto e analisi del libretto). E fu, se non un trionfo, certo un sicuro successo. Il pubblico, composto non solo di appassionati weimariani ma anche di molti stranieri, specialmente musicisti e scrittori di cose musicali, applaudì vivacemente.
Così attesta, tra gli altri, Max Marschalk, critico della Vossische Zeitung. Il quale riferisce, anche, che molti si domandavano “come mai un musicista del suo rango dovesse incanutire prima che il gran mondo venisse a sapere qualcosa di lui e della sua produzione” (Caetani aveva allora 54 anni).
Successo riconosciutogli, una volta tanto, anche dai critici, sia pure con qualche… critica (è il loro mestiere!).

Marschalk riconosce, nella partitura del musicista italiano, una filiazione dal Parsifal  di Wagner (ascendenza scontata, per chi sa quanta ammirazione Caetani nutrisse per il Maestro  di Lipsia), e dalla Salome e dall’Elektra di Richard Strauss. Ma – avverte – non si tratta di imitazione servile. Gli spunti tratti dai due tedeschi sono “incorporati in un linguaggio musicale la cui fisionomia complessiva è innegabilmente proprietà di Caetani”. Una musica, la sua, caratterizzata da “una grande purezza di sentimenti e di sensibilità”. Una musica “pura e casta”, viva, che fluisce senza mai ristagnare. Col pregio aggiuntivo di tenersi volutamente lontana da ogni “puccinismo”. L’ascoltatore lo segue con attenzione perennemente desta. “E l'intenditore, in aggiunta, può compiacersi di un lavoro attento, condotto a regola d’arte, e di una strumentazione che nel caratterizzare non trapassa mai i confini della bellezza”. E mano “particolarmente felice” gli riconosce nel trattamento del coro.

Inizio della recensione della Vossische Zeitung


Un linguaggio musicale che si può ben definire caetaniano, dunque. Questo però – avverte il critico – non vuol dire che si possa parlare di originalità assoluta, di qualcosa di inedito (del resto, aveva già segnalato le ascendenze tedesche). Ma, d’altra parte – aggiunge – sarebbe errore volere accordare la propria approvazione soltanto alla novità assoluta, all’inedito. “I musicisti in grado di compiere una sintesi, di combinare in modo originale ciò che abbiamo ereditato con l’apporto personale, e che si dimostrino capaci di produrre qualcosa di valido, sono per noi più benvenuti di sperimentatori selvaggi, dotati di insufficiente capacità,  che vogliono ad ogni costo fare tutto in modo diverso”. E molto saggiamente conclude: “Soltanto il diverso, soltanto il nuovo che è necessario, e non solamente voluto, può farci progredire”.
Naturalmente non manca di muovere qualche censura (se no, che critico sarebbe?). Una – veniale – riguarda il libretto. La figura della protagonista è vista da un “moderno esteta”; Hypatia è meno “luce di sapienza” che “stella di bellezza”; più “la signora amante delle belle lettere, forse anche un po’ salottiera, del nostro tempo, che la donna erudita ed eloquente del 415 d.C.”. Tuttavia anche lui deve riconoscere che essa “suscita interesse e simpatia ogni volta che appare”.
Più grave un’altra accusa, riferita – mi sembra – sia al libretto che alla musica. Marschalk registra, accanto a “scene grandiose che rivelano il musicista abile e serio”, scene da “opera seria ormai superata”. E come esempio cita quella ambientata tra le rovine del tempio di Serapide, “in parte pantomima, in parte danza classica, in parte fantasia corale”, “difficile da sopportare nella sua lunghezza”. Addirittura! Proprio quella scena da sacra rappresentazione pagana che a me, almeno come spunto poetico, sembra altamente suggestiva, sempre a condizione che a interpreti all’altezza si aggiungano uno scenografo e un coreografo di valore, rispettosi della volontà dell’autore, e dello spirito della composizione. Il critico della Vossische Zeitung suggerisce tagli, preconizzando, in tal caso, che “Hypatia potrebbe significare non solo un incremento, ma anche un arricchimento della letteratura operistica”. (Suggerimento forse accolto dal musicista: nell’edizione 1938 del libretto, in nota alla descrizione della scena si legge questa avvertenza “Coreografia fedele al testo di Platone ma da semplificarsi, volendo, ne la esecuzione in teatro”. E nella versione trasmessa alla radio nel 1958 la scena risulta falcidiata!).

In buona sostanza concordante la valutazione critica del Berliner Tageblatt, firmata da Leopold Schmidt.
Ceatani è un musicista di razza – dice. Lavora con serietà e competenza e, per affermarsi, non ha bisogno di gettare sul piatto della bilancia il suo patrimonio e le sue relazioni. La sua musica, viva nell’espressione, “aderisce alla situazione e all’atmosfera spirituale”.  È, forse, “un po’ monocolore, ma ricca ed efficace nell’orchestrazione maneggiata magistralmente”, con soluzioni armoniche non di rado originali. “Si intuisce che Caetani conosce i suoi contemporanei e ha imparato da loro, ma sa come evitare i richiami diretti e le imitazioni esteriori”, osserva. E anche lui sottolinea insieme la modernità della sua musica e la lontananza da ogni eccesso modernistico, il suo rifiuto di “sacrificare la sua sana sensualità a speculazioni infruttuose”.

Inizio della recensione del Berliner Tageblatt


Difetti? Certo, anche Leopold Schmidt ne trova. E li sottolinea. Per esempio: eccessiva lunghezza, difetti della struttura scenica, resi evidenti dalla difficoltà di capirne le intenzioni poetiche, “il fluire lento e troppo spesso stagnante dell'ultimo atto”… Ma soprattutto gli manca – a giudizio del critico – “l’elemento supremo capace di assicurare il successo del drammaturgo: il carattere personale dell’espressione melodica. Questa musica rimane costantemente nobile e raffinata nei suoi mezzi, evita qualsiasi luogo comune e qualsiasi effetto scontato, ma non dice molto sui personaggi del pezzo né sui sentimenti del suo creatore”. Insomma, un’accusa di distacco se non di freddezza. Accusa – a mio modo di vedere – piuttosto grave, specialmente nel caso di un’opera lirica, anche quando l’autore preferisce chiamarla “azione lirica”. Ma è davvero così? E che significa, allora, l’affermazione che la musica di Caetani “aderisce alla situazione e all’atmosfera spirituale” (schmiegt sich im allgemeinem der jeweiligen Situation und Stimmung an)?

Mi sono dilungato, forse un po’ troppo, su questi due critici tedeschi. Mi sarà dunque perdonato se trascuro critici italiani sicuramente più accessibili. Faccio un’eccezione per un trafiletto del Popolo d’Italia, per il punto di vista squisitamente politico. (Attenzione: siamo ancora all’epoca della cosiddetta Repubblica di Weimar!). L’anonimo estensore parla di “successo entusiastico” e di un banchetto offerto in onore dell’autore. A tale banchetto parteciparono, tra gli altri, il Ministro dell’Istruzione pubblica dello Stato di Turingia e l’Ambasciatore d’Italia, conte Aldrovandi. Quest’ultimo, nel discorso ufficiale, “ha sottolineato i legami artistici che uniscono l’Italia alla Germania e che più che altrove si rendono palesi a Weimar”, e “ha brindato augurando all’intensificazione dei rapporti amichevoli e culturali fra i due paesi e rendendo onore al Principe Caetani, che col fare rappresentare in Germania il frutto del suo lavoro di molti anni ha fatto opera di buon italiano”. Risposta altrettanto cordiale da parte del Ministro di Turingia, e affermazione di disponibilità “a coltivare e intensificare i rapporti di coltura con la grande Patria latina”.

Mi fermo qui. Tra qualche giorno pubblicherò il mio Invito all’ascolto, al quale auguro buon accoglienza. Sono sicuro che vi convincerete anche voi che l’accusa più grave di Schmidt è infondata!