domenica, marzo 20, 2022

NAZIONALISMO MUSICALE

 

LO SPETTACOLO BURATTINESCO DELL’ODIO POLITICAMENTE CORRETTO


Wagner e Verdi, nati nello setsso anno (1813)
tedeschissimo l'uno, l'altro italianissimo
l'uno e l'altro musicisti di valore universale.

Alcune comiche reazioni italiche alla tragica invasione russa dell’Ucraina (l’ultimatum notificato dal Sindaco di Milano Giuseppe Sala al direttore d’orchestra Valery Gergiev e, indirettamente, al soprano Anna Netrebko, le conferenze di Nori su Dostoevskij sospese dalla Magnifica Rettrice della Bicocca milanese Giovanna Iannantuoni, l’insaccamento della copia del David michelangiolesco di Piazza della Signoria a Firenze per ordine del valoroso Sindaco Nardella, l’esclusione – ma qui passiamo a un ambito più ampio, e dalla commedia precipitiamo alla farsa – l’esclusione dei gatti russi dalla competizioni internazionali…)  mi hanno fatto venire in mente un testo del grande direttore d’orchestra Vittorio Gui (1885 -1975), scritto nel 1919 e pubblicato, per la prima e – credo – unica volta, in Battute d’aspetto (Firenze 1944), un libro non facilmente accessibile. Credo, dunque, di far cosa gradita ripubblicandolo su questo mio blog, con qualche nota di commento.

Il titolo originale è “Nazionalismo musicale”, cui è aggiunto, tra parentesi, il sottotitolo “Storia vera”; una precisazione che oggi, dopo le innumerevoli “storie vere” televisive, il buon Maestro si sarebbe guardato bene dall’aggiungere.  

Alcune informazioni preliminari, utili alla comprensione. 

Monte Zebio
nel martoriato (I guerra mondiale) Altopiano dei Sette Comuni, a Nord di Asiago
.

I due versi del Trovatore (“Ai nostri monti”…) sono tratti dalla penultima scena dell’opera verdiana. La zingara Azucena e Manrico – il trovatore, il cantautore, che lei ha allevato come figlio – si trovano in un orrido carcere, prigionieri del Conte di Luna, rivale in amore di Manrico. Azucena, ossessionata dal ricordo di sua madre arsa sul rogo come strega proprio dal padre del Conte, e sicura d’esser destinata alla stessa fine, non riesce a prender sonno. Poi, cedendo alle suppliche del figlio, si assopisce e, tra il sonno e la veglia, rievoca la pace dei suoi monti, in un canto intriso di “italianissima nostalgia”…

Un po’ più complesso il discorso sullo “scandalo all’Augusteo”. Augusteo, o più propriamente Teatro Augusteo, era il grande teatro musicale, capace di ben 3500 posti, ricavato dalla radicale ristrutturazione dell’Anfiteatro Corea (costruito nel tardo Settecento sul Mausoleo di Augusto), inaugurato nel 1908, reso illustre da spettacoli e artisti di fama internazionale, e demolito nel 1937 nel quadro del programma di ripristino dei monumenti di Roma antica. Lo scandalo cui si allude (la rumorosa interruzione di un concerto di Toscanini) ebbe luogo nel gennaio del 1917. 

Uno scorcio della sala dell'Augusteo gremita di spettatori
(maggio 1923)

Al celebre Maestro era stato suggerito di non mettere in programma lavori di musicisti tedeschi per evitare prevedibili contestazioni: troppo fresco ancora, e doloroso, il ricordo delle vittime del bombardamento di Padova dell’11 novembre 1916. Toscanini – sul cui coraggioso patriottismo solo gli sciocchi potrebbero sollevare dubbi (v. Toscanini ardito) – convinto che l’arte (di valore universale) dovesse tenersi estranea ai conflitti bellici, aveva sdegnosamente declinato l’invito, mettendo in programma due brani del Crepuscolo degli Dèi di Wagner, forse il più platealmente tedesco dei musicisti tedeschi. Il “Mormorio della foresta” passò con qualche segno di protesta senza gravi conseguenze. Ma non appena risonarono gli inconfondibili rintocchi di timpani con cui inizia la “Marcia funebre di Sigfrido”, il silenzio della pausa che segue fu squarciato da un urlo. “Questa è per i morti di Padova!” gridò una voce dalla galleria. Bastò questo. L’irascibile Maestro gettò rabbiosamente la bacchetta e lasciò il podio. E “in un silenzio veramente tragico – ricorda Elsa Respighi che certamente era presente – la grande sala si vuotò in pochi minuti”.

Ma cediamo la parola al Maestro Gui.

 

NAZIONALISMO MUSICALE

(STORIA VERA)

Nell'inverno del 1917 comandavo in qualità di ufficiale del Genio un posto di ascolto nelle trincee di M. Zebio, e precisamente sulla quota 1591, dove la nostra linea si avvicinava estremamente a quella nemica, fino a una distanza minima di otto metri. Alt! un momento... perché non si creda che io narri questo a mio vanto, dirò subito che era un posto tranquillissimo: la vicinanza estrema, paradossale, forse casualmente stabilitasi dopo un’azione di ritirata di qualche mese innanzi, e mantenuta poi non si sa bene perché dagli stati maggiori delle due parti belligeranti, aveva portato a una specie di accordo tacito tra gli uomini di buon senso portati da un destino ironico e crudele a star a fronte a fronte masticando i loro lenti giorni nelle pozzanghere e nella neve di quel monte, il cui ricordo è ancor tragico nella memoria di chi lo conobbe allora. Neve, neve e neve; biancore sterminato, silenzi inverosimili, rotti da qualche raro ta-pum ozioso di vedetta austriaca zelante, a cui il bono taliano non si degnava di rispondere: cigolio di rami di abeti troppo carichi sotto il peso della neve: qualche filo azzurrognolo di fumo, qua e là, nella immensa ingannevole solitudine; una gran pace in mezzo alla grande guerra. Seduti accanto a un bel fuoco, gli occhi lagrimosi per il fumo importuno, un gruppo di ufficiali legge le notizie che i giornali portano di laggiù, dal mondo lasciato indietro, quello che pare proprio impossibile debba ritornare ad essere il nostro, come prima...


Soldati italiani in trincea

— Guarda, guarda! — si volge a me un collega che non ignora la mia vera persona nascosta sotto l'uniforme del tenente — a Roma è avvenuto uno scandalo all’Augusteo in un concerto diretto da Toscanini. Il pubblico si è opposto con urli e schiamazzi all'esecuzione della Marcia Funebre del Crepuscolo, e il concerto è stato interrotto mentre la folla chiedeva a gran voce e otteneva la Marcia Reale.

— Cretinerie! — interviene soldatescamente un altro. — È strano come il sentimento patriottico esploda in simili manifestazioni, che i giornali borghesi continuano a chiamar violente, sempre tra gente che non trova altro mezzo per difender la Patria, che quello di gridare dopo aver messo al sicuro la ghirba.

— Patriottismo da imboscati!

— Interessi loschi di fornitori militari!

— Ma no, forse c'è una parte di ragione...

— Ma che ragione!!!!

— La logica del sentimento...

— Una voce pare abbia gridato: «è la marcia funebre per le vittime di Padova! ».

— Ben detto.

— Battuta melodrammatica lanciata a freddo…

— Ma scusate amici, l’arte cosa c'entra? Credete proprio voi che quel Riccardo Wagner il quale scrisse nell’impeto dell’ispirazione quella meravigliosa pagina che è la Marcia funebre di Sigfrido sia esattamente lo stesso tedesco nazionalista, pangermanista che appare nelle sue chiacchiere letterarie? In ogni modo perché vorremo noi, proprio oggi che la violenza inevitabile ci ha gettati fuori da ogni gioia dello spirito, perché vorremmo sacrificare a questo doloroso destino finanche l’ultimo rifugio che è il godimento dell’Arte, in nome di una patria che può esigere da noi il sacrificio delle nostre vite, ma non già della nostra libertà spirituale?

— Giusto! vedi che in Germania si è capito così bene questo, che i teatri tedeschi, lungi dal gettare l'ostracismo contro le opere italiane, seguitano a dare Verdi e Puccini....

— Signor tenente — interrompe qualcuno — l'apparecchio segnala conversazioni...

È il mio caporale che, avvertito da un cenno del soldato che siede alla cuffia, viene a chiamarmi.

– Silenzio, vi prego, un momento.

— Cosa dicono? Come?.... è il Comando di battaglione... Ridono?...

— Fanno un tal chiasso!

— Sono gli ufficiali del Comando austriaco...

— Senta senta, signor tenente, fanno musica! una specie di fanfara.... non si afferra bene.... ma è certo musica...

— Dammi qua la cuffia.


Soldati austriaci in trincea sul Monte Zebio

Mi metto in ascolto. Dio del cielo! ma questa è proprio musica: è un grammofono certamente; riconosco il timbro nasale dello strumento. Le risate e il chiasso che arrivano insieme mi impediscono di afferrare subito il motivo. Ah, ecco... sì.... oh! bellissima! Ma questo è il Trovatore!

 Ai nostri monti ritorneremo

l'antica pace ritroveremo...

Ignoto collega ufficiale austriaco che eri nel gennaio del 1917 sul Monte Zebio, quota 1591, dall'altra parte, e così grande distanza ci separava malgrado gli otto metri di terra irta di fili di ferro che si stendeva tra noi, se il fato sotto la vile forma del così detto «piombo nemico» ha risparmiato la tua pelle come ha risparmiato la mia, dovunque tu oggi ti trovi, o nella pace della tua ricuperata famiglia, o nel turbine inquieto della tua vita d'affari, sosta un minuto e cerca di ricordare... e dimmi qual demone ironico ti suggerì l’idea di metter nel tuo rauco grammofono proprio in quell'ora quel disco di italianissima nostalgia, quasi a dare la risposta più chiara più definitiva e più libera alla spudoratezza di quegli inscenatori di dimostrazioni patriottiche, che nelle pieghe della bandiera del loro paese (e ve n'è in tutti i paesi del mondo) nascosero le loro mani adunche di rapinatori e le loro bocche avide di divoratori di cadaveri... e l’ingenuità delle folle si inchinava! Son passati anni, le piaghe si cicatrizzano, i ricordi impallidiscono. I nazionalisti dell'arte ci permettono ormai (bontà loro) di suonare tutte le marcie funebri che vogliamo, anche quella delle nostre illusioni. Sigfrido è morto, l’eroismo è scomparso dal mondo, e dorme il più alto sonno. I patriotti di allora, i più accaniti gridatori hanno perduto la voce, e contano in silenzio le monete nel sacco ricolmo. Gli altri... oh! gli altri.... molti di essi tacciono per sempre; i superstiti vanno a poco a poco dimenticando.... Solo di tanto in tanto li prende la strana malinconia di ricordare, ma ancora non trovano la «buona risata » di zaratustriana memoria, che tutto cancella, e di cui solo è degno lo spettacolo burattinesco di questa umana commedia.


Ecco, la storia si ripete. Sotto forme diverse, ma nella sostanza si ripete. Anche oggi non mancano gli “inscenatori di dimostrazioni patriottiche” (oggi si preferisce definirle ‘di solidarietà’!) che, nella bandiera di nobili ideali, nascondono ben altri interessi. E, ahimè!, anche oggi “l’ingenuità delle folle” continua ad inchinarsi e applaudire. Anzi, oggi più che mai, dato il gigantesco potere di manipolazione delle masse offerto dalla tecnologia moderna a chi ha capitali per disporne.

Rileggete quella battuta sulla funzione dell’arte – anzi, dell’Arte – come “rifugio” contro la violenza. Ma, più che questo, sembra a me particolarmente urgente soffermarsi sulla rivendicazione di un valore oggi così spesso svilito: la libertà spirituale. La patria (le Istituzioni, il Governo, il Presidente…) può imporci tutto, forse anche il sacrificio della vita, ma il sacrificio della libertà spirituale, quello non può imporcelo nessuno: la libertà spirituale è nostra, diritto inerente alla persona umana, e perciò inalienabile!

Ma rileggete (e meditate) soprattutto quella commossa apostrofe al collega ufficiale austriaco, al nemico di ieri, a un uomo che, pur nella dolorosa obbedienza al “fato” che lo volle contrapposto ad altri uomini, seppe andare oltre la situazione contingente e vedere nell’arte italiana un valore umano ed universale, base imprescindibile per un superamento degli odi che altri avevano suscitato e favorito.

Sono considerazioni, quelle di Gui, non di un imboscato, di un guerriero da salotto come quelli che affollano i talk-show televisivi e le redazioni di molti giornali; sono considerazioni di uno che – esattamente come il collega ‘nemico’ – masticava “i suoi lenti giorni nelle pozzanghere e nelle neve”, consapevole che da un momento all’altro, da un fronte o dall’altro, poteva arrivare l’ordine d’attacco e il compiersi del “ fato sotto la vile forma del così detto «piombo nemico»”.

E se qualcuno fosse talmente stolto (o furbo!) da scambiare l’atteggiamento suggerito dal Maestro Gui per cinica indifferenza per le sofferenze ineluttabilmente connesse a tutte le guerre, o addirittura per connivenza col ‘nemico’ di turno, non state a discutere: sarebbe inutile! Sotterratelo sotto «la “buona risata” di zaratustriana memoria, che tutto cancella, e di cui solo è degno lo spettacolo burattinesco di questa umana commedia».     

  

Il M. Vittorio Gui (1885 - 1975)



   

martedì, febbraio 08, 2022

Vincentio contro Gioseffo: Baruffe fiorentin-chiozzotte


Maria Maddalena (?) suona il liuto (attribuito al fiammingo Maestro delle mezze figure femminili, I metà XVI sec.)

Galleria Sabauda di Torino

La polemica tra Galilei e Zarlino sulla musica moderna.

Nell’articolo sulla condanna di Galileo (v. qui ) ho accennato a una certa spigolosità del carattere del personaggio, riconoscendo in essa un tratto familiare. Nell’evoluzione della sua personalità  e del suo non facile carattere ebbe  particolare importanza la figura paterna, con i suoi interessi, idiosincrasie culturali, atteggiamento mentale, temperamento. Un’occhiata sul contesto familiare offre, perciò, sicuri elementi di riferimento per chi voglia farsi un’idea più comprensiva della figura culturale ed umana del grande scienziato.

 

Ma il motivo che più m’invoglia ad approfondire il discorso è un altro. Lo studio della personalità di questo “nobile fiorentino”, come amava definirsi il padre dell’inventore del metodo scientifico, ci aiuta a comprendere un momento non meno cruciale per la storia della musica moderna. Tenterò di darne un’idea rievocando una celebre polemica che contrappose Galilei-padre al suo ‘antico’ maestro, Gioseffo Zarlino, più vecchio di lui di soli tre anni.

 

I protagonisti della baruffa

 

Non è il ritratto del nostro Vincentio

 (ignoro se ne esistano)

ma di un anonimo musico suo collega dipinto da B. Passerotti

A un lato del ring Vincenzo, o più esattamente Vincentio (pronuncia ‘Vincenzio’), Galilei, nato a Santa Maria a Monte (oggi in provincia di Pisa) verso il 1520. Formatosi a Venezia sotto la guida di Zarlino, trascorse buona parte della sua vita a Firenze, dove morì nel 1591. Fu studioso di materie umanistiche, accademico della Crusca e frequentatore autorevole della cosiddetta “Camerata fiorentina”, una sorta di salotto culturale interessato soprattutto a studi letterari e musicali, che faceva capo al conte Giovanni Bardi di Vernio. Valente suonatore di liuto (tale sarà anche il figlio), fu compositore e teorico, autore dell’importante trattato Della musica antica e della moderna (1581), dove, con esasperante minuzia e sfoggio, d’erudizione esamina la musica moderna alla luce di quella antica.


 Questo invece è Zarlino

 Ma in un ritratto postumo (datato 1599, nove anni dopo la morte!)

 All’altro lato Gioseffo Zarlino, nato nel 1517, frate francescano, coltissimo in matematica oltre che in musica e materie umanistiche. Buon compositore (soprattutto mottetti e madrigali), grande teorico, pose le basi teoriche della musica moderna. Si deve a lui l’abbandono definitivo dei modi medioevali (ridotti ai soli maggiore e minore) e la teorizzazione dell’accordo ‘perfetto’. Non so se Galileo ebbe modo di conoscerlo di persona, ma – detto tra me e voi – io giurerei che nella disputa avrebbe tifato più volentieri per lo Zarlino che per il proprio padre. A parte l’analogia della posizione storica rispettivamente nell’evoluzione della scienza e in quella della musica, è facile rilevare affinità sul piano attitudinale (sguardo rivolto verso il futuro piuttosto che verso il passato) e su quello teorico. Mi limito a un solo esempio. «Dalla prima origine del mondo [] tutte le cose create da Dio furno da lui col Numero ordinate: anzi esso Numero fu il principale essemplare nella mente di esso fattore». Così leggiamo nella Parte prima della sua opera fondamentale, le Istitutioni harmoniche, pubblicata – si badi bene – nel 1558, sei anni prima della nascita dello scienziato. E ora leggiamo nel Saggiatore (1623): Il gran libro dell’Universo «è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto». So bene che qui siamo ben oltre i riferimenti a Pitagora, Platone e altri filosofi ai quali, probabilmente, andava il pensiero di Padre Gioseffo; e  tuttavia trovo ugualmente sorprendente questa quasi coincidenza di affermazioni. Ma torniamo al ring.

La baruffa

Animatore della “Camerata dei Bardi”, nel cui ambito nasce il melodramma, Vincenzio Galilei avrebbe volentieri sottoscritto lo sdegnoso motto verdiano «Torniamo all’antico, e sarà un progresso!». A muovere il suo sdegno è la ripugnanza per una musica soverchiatrice del testo poetico; ed è il disgusto per alcuni tratti indiscutibilmente puerili (in particolare l’abuso di  quegli espedienti figurativi oggi noti col nome di madrigalismi) presenti in buona parte del genere più in voga nella musica colta dell’epoca, quel madrigale polifonico che pure ci ha lasciato autentici capolavori; caro, peraltro, allo stesso Vincenzio, tanto che ne compose ben due volumi! Partendo da queste premesse, nel Dialogo della musica antica e della moderna (1581) coinvolge in una severa, e a tratti astiosa, polemica tutta la musica del suo tempo, proponendo, come efficace rimedio, il ritorno alla musica antica.

Nel carattere indubbiamente monodico della musica greca, nel suo rispetto per la parola poetica, Galilei vedeva la ragione prima della sua efficacia etica, e della capacità di suscitare emozioni profonde, testimoniata da molti autori antichi. Sennonché, della musica antica, al di là delle trattazioni teoriche – spesso interessate più all’aspetto matematico e filosofico che a quello artistico del fatto sonoro – non esistevano che pochi frusti di difficile e controversa interpretazione. Oltretutto, i tre esempi tratti da manoscritti bizantini e pubblicati proprio da lui (su segnalazione di Girolamo Mei) sono testimonianze piuttosto tardive. Risalgono al II sec. d.C. (sono oggi concordemente attribuiti a Mesomede, liberto di Adriano), cioè a più di mezzo millennio dopo la fioritura della tragedia greca a cui i ‘cameratisti’ facevano riferimento, nel loro sforzo di ricostruire e ricreare la tragedia greca accompagnata dalla musica; sforzo vano sul piano della ricostruzione storica, ma… felix peccatum, perché da esso nacque il moderno melodramma! Galilei si perde, di conseguenza, in una palude di discussioni erudite di questo o quel passo di scrittore antico, e di disquisizioni acustico-matematiche volte a dimostrare che la pratica esecutiva cinquecentesca, sia strumentale che vocale, contrariamente a quanto sosteneva Zarlino, «non è semplicemente né la Diatona né la Syntona ma una terza cosa mista e composta di questa e di quella», secondo le varie specie di strumenti (p. 31). Sarei tentato di approfondire, ma il discorso si fa veramente molto complicato e difficile, inappropriato alla natura di questo blog. Pensate – tanto per accennare un solo esempio – che nel cosiddetto “Syntono” lo spazio sonoro compreso in un’ottava era diviso in ben quindici intervalli, con distinzione tra toni maggiori e minori e analoga distinzione per i semitoni.

 

Suddivisione dell’ottava secondo il Syntono di Tolomeo (Galilei, Dialogo, p. 3)

I numeri a margine indicano il rapporto rispetto alla nota di riferimento

Prendendo come rif. il La 440, avremmo:

semitono minore ascendente = 440x25:24=458

semitono maggiore ascendente=440x16:15=469

nel sistema temperato (semitono equalizzato = radice dodicesima di 2 = 1,06) =   440x1,06 =466

 

Insomma – i più esperti lo avranno capito – l’oggetto del contendere riguardava nientemeno che il problema dell’intonazione e dell’accordatura degli strumenti, un problema che trovò una soluzione soddisfacente, al prezzo di qualche forzatura delle leggi della fisica acustica – solo un secolo dopo, con il cosiddetto “temperamento” (divisione dell’ottava in 12 semitoni uguali, pari alla radice dodicesima dell’intervallo di ottava), teorizzato da A. Werckmeister nel 1691 e magnificamente illustrato da Johan Sebastian Bach nel Clavicembalo ben temperato

Padre Gioseffo, ripetutamente citato e corretto da “questo suo buon discepolo”, non gradì,  e si affrettò a rispondere con un opuscolo di confutazione: Supplimenti musicali. Ne nacque una polemica aspra, che non di rado ai modi del dibattito scientifico sostituisce l’insulto personale (vecchio vizio, a quanto pare non facile da dismettere!) e mette a nudo il temperamento litigioso e polemico del musico fiorentino.

«Il cantare et il sonare d’hoggi non è appatto alcuno il Diatonicon Syntono di Tolomeo», bensì il «Syntono semplice»! replica perentorio il “nobile fiorentino”. E: «La lingua materna mia fiorentina la traduce in bergamasco» urla. (Veramente il buon Gioseffo era nato a Chioggia nel 1517, e dal 1541 si era trasferito Venezia. E, se è vero che la sua scrittura non è certo un modello di lingua ‘fiorentina’ purissima, non è propriamente ‘bergamasca’, cioè – secondo i pregiudizi del tempo – rozza e incomprensibile, ma tant’è…). E non basta: «mostra che l’ortografia non fusse nata a suo tempo» (insomma, proprio un semianalfabeta questo suo maestro!). E, per concludere, l’antico “buon discepolo” si dichiara «prontissimo per giovarvi et insegnarvi [!] sempre». 

 Questo angioletto (partic. da Lochner, Rosenlaube) è anche lui suonatore di liuto,

tranquillo ‘collega’ dell’irascibile fiorentino

contento d’intrattenere con la sua arte la Vergine e il Bambino

Il fatto è che il dissenso, focalizzato sul problema dell’intonazione e accordatura degli strumenti, discusso con l’occhio (l’orecchio?) rivolto alla malcerta intonazione degli antichi tetracordi greci, era, in realtà, di natura più profonda. Più propriamente la discordia nasceva dall’opposto atteggiamento verso la musica moderna, come si è già visto di sopra, e com’era, del resto, enigmaticamente alluso già nel titolo del Dialogo galileiano (“della musica antica e della moderna”!).  «La musica d’hoggi è miracolosa, et quella degli antichi era infelicissima!» aveva affermato sicuro il vecchio maestro. «La musica d’hoggi è disprezzata da gli intelligenti et apprezzata dal vulgo!» gli urlava sul muso l’irascibile “buon discepolo”.

E dire che della musica antica – concretamente intesa come pratica musicale destinata all’ascolto – non ne sapevano granché né l’uno né l’altro!



Altro partic. dal Rosenlaube di Lochner (XVI sec.)

L’angioletto a sinistra suona un organo portativo:

fa tutto lui: con la destra sfiora la tastiera, con la sinistra aziona il mantice posto sul retro.