giovedì, marzo 28, 2024

Perosi, Passione di Cristo - Invito all'ascolto

 



Quentin Massys, Crocifissione (ritaglio)

PEROSI, La Passione di Cristo secondo San Marco

Invito all’ascolto

Nell’imminenza della Pasqua, vorrei invitarvi all’ascolto della Passione di Cristo, composta da Lorenzo Perosi nel 1897. Quelli di voi che mi seguono da più tempo ricorderanno che mi sono già occupato di questo autore quando vi ho suggerito l’ascolto dell’oratorio Il Natale del Redentore (v. Natale).

Anche La Passione è, tecnicamente, un oratorio. Anzi, è il primo composto dal musicista tortonese. E anche qui, come nel post appena ricordato, per i “meno esperti” (che sono, poi, il mio uditorio privilegiato) ne ripeto la definizione, partendo da quella, essenziale quanto precisa, fornita dal dizionario Garzanti: “forma musicale drammatica di argomento religioso, eseguita da solisti, coro e orchestra, ma senza messinscena teatrale”. Rispetto all’opera lirica – la “forma musicale drammatica” per eccellenza – l’oratorio si caratterizza per il soggetto, istituzionalmente religioso, per la mancanza di ambientazione scenica, e per il fatto che i personaggi non agiscono (non sono attori), ma si limitano a cantare.

Anche in questo caso il testo è in latino. È tratto dal Vangelo secondo Marco, con inclusione di inni liturgici (Lauda, Sion…).

Il canto è affidato a un baritono (nella parte del Protagonista) e a un coro, mentre nella parte del narratore – lo Storico – si alternano coro e solista.

L’oratorio reca, come sottotitolo, la dicitura Trilogia sacra, perché costituito appunto da tre parti. 

Parte prima: La Cena del Signore ( XIV 17-26)


Leonardo da Vinci, Ultima Cena (ritaglio)


Ambientata nel Cenacolo, cioè nella Sala dove Gesù si era riunito con gli Apostoli per la rituale, solenne cena pasquale (della Pasqua ebraica, ovviamente). La scena evidentemente non c’è, ma possiamo bene immaginarcela. Se preferite, con l’aiuto di Leonardo.

L’oratorio si apre con un preludio strumentale (“quartetto d’archi” lo definisce l’autore) in mi minore, teso a creare l’atmosfera del dramma. Parte con un sospiro doloroso, ribadito da un rintocco ritmico sulla dominante (cellula ritmica che riudremo più volte, in varie tonalità) per poi snodarsi dolorosamente e concludersi, provvisoriamente, su un motivo flessuoso, facilmente orecchiabile. Li riudremo tra poco, rintocco ritmico e motivo flessuoso, trasportati alla tonalità dominante (si minore). Ed ecco, dopo un ossessivo ripresentarsi, a varie tonalità, della cellula ritmica, ecco il motivo flessuoso risonare, cavernoso e sempre più doloroso, al basso profondo nella tonalità d’impianto (mi minore). La musica sembra poi addolcirsi in un gioco di proposta e risposta tra violoncelli e violini, ma d’improvviso il volume aumenta, la tonalità entra in una tormentosa instabilità, gli accordi si fanno sforzati e dissonanti, per poi via via ammorbidirsi e, adeguatamente cadenzati, andare ad approdare su un malinconico fa diesis minore. E qui si inserisce, avanzando prepotentemente in primo piano, un timbro estraneo al “quartetto d’archi” preannunciato in partitura. È la sonorità vigorosa e cupa del corno. Un timbro destinato a diventarci familiare: lo sentiremo spesso, precedere, accompagnare o commentare la voce di Cristo. Probabilmente è impiegato dal musicista per evocare il giungere dell’ora delle tenebre e, nello stesso tempo, l’eroico atteggiamento del Protagonista. Qui prende spunto dall’accordo su cui è approdato il pezzo precedente per intonare, solitario e solenne, un motivo nuovo: è una melodia gregoriana, alzata di un tono per adeguarla alla tonalità di fa diesis minore, e resa vasta e solenne dal dilatarsi dei tempi. Si tratta delle prime otto note dell’inno Lauda, Sion, Salvatorem, su testo poetico composto (verosimilmente dal filosofo San Tomaso d’Aquino) a commemorazione e lode dell’istituzione dell’Eucarestia, e che udremo tra poco intonato dal Coro.

I violini, imitati più stancamente dai violoncelli, tentano ripetutamente uno slancio verso l’alto. Ma il tentativo non riesce. Gli archi sembrano smarrirsi; i corni riprendono, quasi a suggerire una via di consolazione, il motivo del Lauda Sion, e l’intera orchestra ripiega su un non lieto ma rassegnato accordo di la maggiore. Solo un momento. Dopo una breve pausa l’orchestra riparte passando all’omonimo modo minore, e riprendendo, in pianissimo, il doloroso motivo iniziale. La cellula ritmica (il rintocco) si fa particolarmente insistente e dolorosa – un’implorazione sempre più accorata e desolata – calando via via di tono. Gli archi riprendono senza eccessiva fiducia il tentativo ascendente, che si ripete sempre più fiacco e sfiduciato, strascicato (“morendo” prescrive Perosi in partitura) fino a dissolversi, via una ripetuta oscillazione di accordi, in un provvisorio si maggiore. Che presto deve cedere a un mesto sol minore per poi riapprodare a un tristissimo la minore. Precario approdo; ché l’accordo sembra sospeso nel vuoto. E su questo vuoto di nuovo si leva, solitaria, la voce del corno, che intona una sua struggente melodia, di una semplicità disarmante: è brevissima, fatta di solo quattro note contigue (fa-mi-re-mi), ma i tempi dilatati, e la solitudine su cui si innalza – punteggiata da un funereo “pizzicato”– la fanno apparire amplissima. Dopo alcuni accordi di passaggio, lugubre il violoncello riprende il rintocco ritmico, che si conclude con un crollo di tre toni; lo ripete un tono più basso (do) per poi cadere alla quinta, all’ottava, alla tredicesima e, con un ulteriore salto di nona, andare costituire la base dell’accordo finale di mi minore con cui – com’era iniziato – si conclude il preludio.

Comincia la narrazione. Affidata, per ora, non a un solista (come avverrà nel Natale, composto quattro anni dopo) bensì al coro. Inizia con un recitativo (con qualche increspatura ritmico-melodica in zona cadenza): Vespere autem facto, venit cum duodecim. Et discumbentibus eis, et manducantibus, ait Jesus (“Venuta la sera, andò con i dodici” nel cenacolo. “E mentre erano a tavola e mangiavano, disse Gesù:”). Ed ecco, affidate alla voce calda del baritono, snodarsi lente e tristi, in re minore, le prime parole del Protagonista: Amen dico vobis, quia unus ex vobis tradet me (“In verità vi dico che uno di voi mi tradirà”). Un attimo di sgomento su un accordo di la minore. Poi, innalzando il tono della voce, precisa: Qui manducat mecum (“Quello che mangia con me”). Pausa nel canto, mentre i violini sembrano evocare gesti di orrore e incredulità. Sostenuto dall’orchestra, riprende la parola Cristo, innalzando il tono quasi ai limiti del registro baritonale, per ribadire con forza, con un grido, l’incredibile rivelazione: Qui manducat mecum: Quello che mangia con me!

Il coro riprende la narrazione: At illi coeperunt contristari, et dicere ei singulatim (“Ma quelli cominciarono a rattristarsi e a domandare, uno per uno”). Lo fa con un vivace intreccio e sovrapporsi di voci che certo allude al confuso sovrapporsi dell’angosciosa domanda: Numquid ego?  Numquid ego? (“Per caso, io?”). Singulatim, “uno per uno, uno dopo l’altro”, ribadisce il coro. Per poi rifluire nel tranquillo recitativo con le solite increspature: Qui ait illis (“E Gesù disse loro”): Unus ex duodecim; qui intingit mecum in catino (“Uno dei dodici; quello che inzuppa nella scodella insieme con me”.

– Ma come? – vi chiederete. Non aveva già detto “quello che mangia con me”? E ora lo ripete… E Giuda continua tranquillo a inzuppare? E gli altri non gli dicono nulla? Non lo aggrediscono?

A questo punto consentitemi una breve digressione filologica, che spero contribuisca a chiarire la situazione (e a meglio illuminare l’atteggiamento e la profonda amarezza che la musica di Perosi esprime con tanta musicale evidenza). Marco – che, peraltro, parla per sentito dire – nel tentativo di scorciare il più possibile, finisce per risultare poco chiaro. Più particolareggiato Luca, anche lui non presente all’evento, interessante per un particolare che chiarisce meglio i sentimenti di Gesù. Nel suo racconto, l’istituzione dell’Eucarestia precede la rivelazione del tradimento. Dice Gesù: “Questo calice è il nuovo testamento nel (= siglato col) mio sangue, versato per voi. E tuttavia (notate questo passaggio!) e tuttavia la mano di chi mi tradisce è qui sulla tavola, con me”. Parlano in nome proprio, invece, Matteo e Giovanni, entrambi presenti alla scena. Matteo scrive: “Uno di voi mi tradirà”. Al comprensibile sconcerto e sovrapporsi delle domande Gesù risponde: “Quello che ha messo (notare il passato!) la mano nella ciotola insieme con me”. Risposta evidentemente data in privato a qualcuno degli interroganti. Tant’è vero che poco dopo anche il diretto interessato, con una faccia da… Giuda, forse scosso dalle terribili parole riguardo il destino del traditore (le sentiremo tra breve), domanda: “Sono forse io, rabbì?” (Notate la precisione verbale di Matteo – o del suo eventuale traduttore – che nel testo greco lascia nell’originale aramaico quella parola-chiave sui rapporti dei due ‘antagonisti’: “rabbì”, “maestro”!). Ma è Giovanni che, a mio vedere, meglio chiarisce la situazione. Scrive che dopo la lavanda dei piedi e la spiegazione del valore morale del suo gesto, Gesù dice: “Siete felici se fate queste cose”. E subito aggiunge: “Non lo dico riguardo tutti voi […] Quello che mangia il pane con me ha alzato il proprio calcagno su di me”. “Quello che mangia il pane con me”, cioè che condivide la mia mensa…  Quanta amarezza in queste parole! E poco dopo, turbatosi nello spirito (!), fa questa solenne dichiarazione (emartýrēsen dice il testo greco): “In verità vi dico che uno di voi mi tradirà”. I discepoli si guardano l’un l’altro, domandandosi a chi si riferisca. Uno dei discepoli, il prediletto da Gesù (Giovanni, l’Autore del testo!) occupava, a tavola, il posto accanto al Maestro. Simon Pietro gli fa un cenno e gli dice: “Chiedigli chi è quello di cui parla”. Giovanni, accostatosi al petto di Gesù (evidentemente per non farsi sentire dagli altri), gli chiese: “Signore, chi è?” Risposta (evidentemente sussurrata all’orecchio): “È quello a cui inzuppo un pezzetto di pane e glielo porgo”. E, “inzuppatolo, lo dà a Giuda di Simone Iscariota”…

Ma torniamo all’interpretazione perosiana.

Prima di intonare la risposta (Unus ex duodecim…) Perosi introduce qualche momento di sospensione, assegnandolo all’orchestra. Gli accordi dei violini, sopra un desolato ribattere dei violoncelli, fanno pensare a dei sospiri. Lo stanco motivo passa ai corni. Solo un attimo, perché, d’improvviso, i corni avanzano decisamente in primo piano innestandovi una loro breve melodia in do minore (come tutto il pezzo), che riudremo, intera o per frammenti, più volte.  È un motivo straziante, una sorta di grido soffocato: una protesta vana? un’implorazione inascoltata? In esso è tutta la tristezza, l’amarezza di chi si sente tradito da uno che era stato scelto, tra la mutevole massa dei seguaci, a far parte della ristrettissima cerchia degli intimi: “uno dei dodici”! Dopo una lunga sosta sul sol la melodia tenta d’innalzarsi passando a si bemolle, per ridiscendere stancamente, nota dopo nota, sino al fa (un tono sotto il punto di partenza); di qui ritenta il balzo, ma subito ricade sul mi bemolle (un altro tono più in basso). E dopo una sosta di due quarti, nuovo tentativo di rialzarsi di un tono, e nuova ricaduta sul mi bemolle, dove sosta più a lungo (tre quarti), per poi cadere su re (ancora tre quarti) e finalmente sulla tonica (do), dove svanisce.

Riprende la parola Cristo ripetendo la terribile rivelazione: Unus ex duodecim, qui intingit mecum in catino. Parte da una tranquilla intonazione della tonica, come chi si appresta a confermare il già detto. Ma giunto a “duodecim” (il traditore non è un fariseo, uno di quelli spesso criticati da Gesù; no, è uno dei dodici, uno dei prescelti, uno degli intimi!) la melodia balza dal fa al mi bemolle superiore. Il corno riecheggia la conclusione della frase, e il canto riprende con la malinconica considerazione che così era scritto e così le cose stanno procedendo: Et Filius quidem hominis vadit, sicut scriptum est de eo (“E il figlio dell’uomo se ne va, come di lui era stato scritto”. I violini rispondono con una sommessa implorazione. Ma inesorabile si leva la voce di Cristo, forte e toccando più volte le note più acute del registro: Vae autem homini illi… (“Ma guai a quell’uomo…”). Al grido di minaccia di Cristo risponde il grido d’implorazione dei corni, che sembra svanire nel nulla. E tuttavia la ripetizione della minaccia ha un tono diverso, più remissivo, quasi con una punta di pietà se non di pena. I corni ripetono la loro implorazione. Cristo riprende, ma lo scatto d’ira è ora limitato alle ultime due note, quelle che intonano illi. E prosegue: per quem Filius hominis tradetur (“per il cui tramite il Figlio dell’uomo sarà tradito” o, meglio, “consegnato” ai suoi nemici), ripetendo lo scatto d’ira sulle ultime due sillabe della parola-chiave: tradetur. Ma già nella ripetizione di questa frase la voce si ammorbidisce. Segue poi la tremenda conclusione (Melius illi erat si natus non fuisset homo ille: “Meglio per lui sarebbe stato se non fosse mai nato, quell’uomo”), non più minaccia, ma penosa constatazione della spaventosa quanto inesorabile punizione divina; e i corni, infatti, si limitano a riecheggiare quella penosa conclusione. Che sullo sdegno e la minaccia qui prevalga una profonda pietà sembra confermato dalla ripetizione (si natus non fuisset homo ille), con quel “homo ille” detto – a me sembra – come da uno che si rassegna – con infinita pena – ad ammettere ciò che vorrebbe rifiutare, ma che sa inesorabilmente certo. Sì, proprio lui, uno dei dodici, uno dei prescelti, degli intimi… non un nemico. Sembra quasi che Cristo – o, per essere più esatti, Perosi – consideri Giuda più come uno sciagurato strumento del demonio che come un criminale. Riprende il doloroso motivo iniziale, tristemente ripetuto dai corni, e il brano si conclude con lo straziante motivo del corno.

 

Eucarestia

Il coro riprende la narrazione: Et manducantibus illis, accepit Jesus panem; et benedicens fregit et dedit eis, et ait (“E mentre mangiavano, Gesù prese il pane; e benedicendo lo spezzò e lo diede loro. E disse”): Sumite: hoc est corpus meum (“Prendete: questo è il mio corpo”). Di nuovo il Coro: Et accepto calice, gratias agens dedit eis: et biberunt ex illo omnes. Et ait illis (“E, preso il calice, rendendo grazie lo diede loro; e tutti bevvero da esso. E disse loro”): Hic est sanguis meus novi testamenti: (“Questo è il mio sangue del nuovo testamento”); e qui il corno ci ripropone il motivo del Lauda Sion, il canto di lode e gratitudine per l’istituzione dell’Eucarestia) qui pro multis effundetur. Amen dico vobis, quia jam non bibam de hoc genimine vitis usque in diem illum, cum illud bibam novum in regno Dei (“che sarà sparso a beneficio di molti. In verità vi dico che ormai non berrò di questo prodotto della vite fino a quel giorno quando lo berrò nuovo nel regno di Dio”). Notevole: da pro multis a in regno Dei, il baritono canta di nuovo al vertice del registro (e anche i violini, che accompagnano il canto con un trepidante tremolo, toccano note particolarmente acute). Credo che questi particolari esprimano – consapevole o no che ne fosse l’Autore – la trepidazione con cui ogni mattina don Lorenzo pronunciava quelle parole che – ne era certissimo – stavano per trasformare il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Cristo.

Il coro intona il Lauda Sion, preannunciato dal corno. E Cristo ripete, con poche varianti, Sumite: hoc est corpus meum.

Et hymno dicto, exierunt in montem Olivarum: “E, recitato l’inno, uscirono diretti al monte degli Olivi”), canta il coro. Ma sul piano musicale avviene qualcosa di inatteso: cambia la tonalità e, soprattutto cambiano ritmo (2/4) e tempo (da “lento” a “vivo”), e le parole citate, logica conclusione dell’episodio, rompono bruscamente la cupa atmosfera che lo aveva ininterrottamente connotato, per trasportarci in un ambito di vivacità che rasenta una frivolezza settecentesca (qualcuno crede di aver individuato in Mozart la fonte nascosta!). E la perplessità non viene certo dissolta dal fatto che a queste parole intrecci l’inizio del Lauda Sion, che poi prosegue isolato. Insomma si ha l’impressione che il giovane compositore avvertisse lui stesso il peso di quella cappa angosciosa che tanto a lungo aveva pesato su di lui prima che sui futuri ascoltatori. Forse per questo, e anche in previsione della straziante sezione che sta per seguire, ha voluto concludere “in gloria” questa prima parte. Insomma una sorta di “terza piccarda”, quanto all'effetto,  estesa ad un intero brano[1]. Diciamo che – prescindendo da una certa incoerenza “tonale”, d’atmosfera, con la parte precedente, dobbiamo riconoscere che il passaggio è fatto con grande abilità (l’inno, del resto, è una sorta di anticipazione delle Resurrezione) e la musica è veramente bella, sicché non è difficile perdonare all’Autore questa… digressione.

 

Parte seconda. L’orazione al Monte

Giotto, Il bacio di Giuda (ritaglio)


L’Adagio introduttivo si caratterizza per una sorta di instabilità tonale (dovuta alle frequenti modulazioni) e accordi che lasciano l’ascoltatore perennemente sospeso. Anche qui una parte importante è affidata al corno e alla sua triste melodia, in dialogo con gli archi, non senza uno scambio di malinconiche battute con le viole e col fagotto. Infine viene in primo piano il violoncello che intona la sua dolente melodia in re minore, concludendo con una sospensione in la maggiore (dominante, appunto, della tonalità di re minore).

Coro: Et assumit Petrum, et Jacobum, et Johannem secum: et coepit pavere, et taedere. («E prende con sé Pietro e Giacomo e Giovanni; e fu preso da angoscia e trepidazione” – greco: ecthambeisthai cai adēmonein –). Et ait illis (“E disse loro”): Tristis est anima mea usque ad mortem: sustinete hic, et vigilate (“L’anima mia è triste fino alla morte. Restate qui, e state svegli”.

A questo punto, in funzione di narratore interviene il basso, che canta in fa maggiore:

Et cum processisset paululum, procidit super terram; et orabat, ut si fieri posset, transiret ab eo hora (“E, andato avanti ancora un poco, si prosternò a terra; e pregava che, se possibile, si allontanasse da lui quel momento”). Dopo procidit – notate che il verbo etimologicamente andrebbe tradotto “cadde in avanti, cadde bocconi” – l’orchestra si interrompe, lasciando al baritono il compito di concludere la frase in completa solitudine: immagine icastica della desolazione (e solitudine anche fisica) del personaggio.

Straziante l’inizio della preghiera di Cristo, soprattutto nell’invocazione iniziale, che l’Evangelista dà in originale aramaico (Abba), subito tradotta (Pater, greco e latino). Cristo si sente schiacciato dalla prospettiva dell’atroce morte di croce; umanamente vorrebbe che gli fosse risparmiata da Colui che è padre, e padre onnipotente! (omnia tibi possibilia sunt: transfer calicem hunc a me: “a te tutto è possibile: risparmiami questo calice”), ma, con sublime sottomissione al proprio dovere d’amore, aggiunge rassegnato: sed non quod ego volo, sed quod tu (“ma non quello che voglio io, ma quello che vuoi tu”). Il testo è, nella sua estrema semplicità, impareggiabile, e la musica di Perosi sa farne sentire la sublime tragedia anche alle anime più grossolane. E quanta umanità in quel bisogno di conforto! A chi chiederlo se non ai tre che aveva prescelto come compagni e testimoni di quella tragica notte?  Et venit (“E venne”) – canta il coro –  et invenit eos dormientes (“e li trovò addormentati”). Il commento al breve tragitto (in fa minore) è affidato al fagotto, punteggiato dai singhiozzi delle viole.  Et ait Petro, E disse a Pietro”: Simon, dormis? (Dorme anche lui, il povero Simone – che il Maestro aveva soprannominato Pietro – lui di solito così generoso, spontaneo, nel mostrare a Gesù la sua fede e il suo affetto; tanto che qualche ora prima, nel cenacolo, si era dichiarato pronto a difenderlo fino alla morte!). Dapprima un leggero rimprovero: Non potuisti una hora vigilare? (“Non hai potuto star sveglio neanche un’ora?”). Poi un monito; un’ammonizione dettata dalla comprensione per la debolezza umana (in do minore): Vigilate et orate, ut non intretis in temptationem: Spiritus quidem promptus est, caro vero infirma (“Vigilate e pregate per non entrare in tentazione: lo spirito invero è pronto, ma la carne è debole”. Già, l’umana debolezza… Non la stava sperimentando Lui stesso, in quella terribile notte, nella propria spoglia umanità? E infatti la melodia conclusiva, affidata prima ai violini poi ai corni, sembra ammorbidire l’atmosfera, tanto che il pezzo, prevalentemente in do minore, si conclude con un consolante do maggiore. L’atmosfera mutata sembra coinvolgere anche il narratore (basso) che canta in fa maggiore: Et iterum abiens oravit, eundem sermonem dicens (“E nuovamente allontanatosi, pregò, ripetendo le medesime parole”). E nella stessa tonalità la narrazione viene continuata dal coro: Et reversus denuo invenit eos dormientes (“E ritornato li ritrovò addormentati”). Ma interviene l’orchestra che, nel ridare la parola al basso, dal fa maggiore passa ad accordi ben più cupi. Erant enim oculi eorum gravati, et ignorabant quid reponderent ei. (“Ché i loro occhi erano appesantiti, e non sapevano che cosa rispondergli”. Et venit tertio et ait illis (“E venne per la terza volta, e disse loro”). Prima di ridare la parola al Redentore, i violoncelli, anche attraverso l’artificio della discesa per semitoni contigui, ne anticipano il carattere doloroso. Ritorna il desolato ribattere degli archi già sentito nel preludio; poi: Dormite jam, et requiescite (“Dormite ormai, e riposate”). Le viole riecheggiano e commentano, sempre accompagnate dalle note ribattute. Sufficit – aggiunge Gesù – venit hora (“Basta: l’ora è giunta”). A questo annuncio, gli archi paiono risvegliarsi dal loro monotono ribattere con un improvviso balzo verso l’alto. Ecce – dice Cristo – Filius hominis tradetur in manus peccatorum (“Ecco, il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani dei peccatori”). Ritorna la parola-chiave tradetur (tradere significa sia “tradire” che “consegnare”) e Perosi la fa ripetere per richiamare l’attenzione degli ascoltatori. Il momento è drammatico: è l’inizio dell’atto conclusivo, della catastrofe. Ma Perosi, di quel momento sente, più che altro, la solennità; il risoluto andare di Cristo incontro alla morte atroce a compimento del supremo atto d’amore verso l’umanità. E infatti l’ultima sillaba delle parole di Cristo è sommersa dall’improvviso irrompere di trombe e tromboni, in fortissimo, che anticipa la risolutezza del Redentore. Surgite (“Alzatevi!”), surgite – ripete col massimo dell’energia – et eamus (“e andiamo”). Ma l’entusiasmo dell’orchestra subito si spegne… Torna ancora una volta, dolorosamente, il motivo del tradimento: Ecce qui me tradet prope est (“Ecco: chi mi tradirà è vicino”). Subentra il Coro: Et, adhuc eo loquente, venit Judas Iscariotes, unus de duodecim (“E, mentre ancora parlava, arrivò Giuda Iscariote, uno dei dodici”: notate quante volte viene ribadita l’appartenenza del traditore al ristretto numero dei prescelti!) et cum eo turba multa cum gladiis et lignis, a summis sacerdotibus et scribis et senioribus (“E con lui un’accozzaglia di persone armate di spade e bastoni, mandata dai sommi sacerdoti e dagli scribi e dagli anziani”). E qui musicalmente avviene un fatto strano. Notate: secondo la narrazione evangelica, opportunamente tralasciata dal compositore per esigenze di concentrazione, quello sfoggio di forza paramilitare si rivelerà del tutto inutile; sarà Gesù stesso, ricevuto il bacio del tradimento, a consegnarsi spontaneamente. Anzi, richiamerà prontamente all’ordine Pietro che, impulsivo com’era, aveva sguainato la spada e s’era messo a dare fendenti a caso (evidentemente, allarmato dall’annuncio del tradimento, per non saper leggere e scrivere – come si diceva una volta – se l’era portata al fianco). E invece il musicista che cosa fa? L’accenno a una “turba” armata (notate: turba – greco: ochlos – insomma, un’accozzaglia, non una schiera ordinata) risveglia in lui immagini di uno scontro, sia pur breve, e scatena l’orchestra, con tanto di squilli di tromba; l’orchestra investe il coro e gli comunica la sua energia… Ne vien fuori un godibilissimo splendido pezzo polifonico con accompagnamento orchestrale, ma… un po’ fuori tema. Vero è che al termine rimedia affidando al corno un breve, doloroso “canto fermo” dai tempi molto dilatati, con sommesso accompagnamento degli archi.

A questo punto dovrei (e vorrei) accompagnarvi nell’ascolto della III parte (“La morte del Redentore”). Ma, dando un’occhiata alla mole di quanto ho scritto, ho l’impressione di aver forse abusato della vostra pazienza. Nonostante l’impegno ad “essere breve”, l’argomento e la musica di Perosi mi hanno preso la mano, e quello che voleva essere un “invito” a godere la sua musica si è trasformato in un malloppo che rischia di ottenere l’effetto contrario. Meglio dunque, almeno per ora, dare un taglio. Passate dunque direttamente all’ascolto. (Troverete on-line più d'una registrazione, purtroppo non tutte all'altezza dell'originale).   

 

don Lorenzo Perosi (a sinistra) col suo coetaneo e conterraneo don Orione, oggi venerato come santo

APPENDICE

 

TESTO

Parte prima: La Cena del Signore

Coro: Vespere autem facto, venit cum duodecim. Et discumbentibus eis, et manducantibus, ait Jesus:

Cristo : Amen dico vobis, quia unus ex vobis tradet me, qui manducat mecum.

Coro : At illi coeperunt contristari, et dicere ei singulatim: Numquid ego? Qui ait

illis:

Cristo : Unus ex duodecim, qui intingit mecum manum in catino. Et Filius quidem hominis vadit, sicut scriptum est de eo. Vae autem homini illi, per quem Filius hominis tradetur! Bonum erat ei, si natus non fuisset, homo ille.

Coro: Et manducantibus illis, accepit Jesus panem; et benedicens fregit et dedit eis, et ait:

Cristo: Sumite: hoc est corpus meum.

Coro: Et accepto calice, gratias agens dedit eis: et biberunt ex illo omnes. Et ait illis:

Cristo : Hic est sanguis meus novi testamenti: qui pro multis effundetur: Amen dico vobis, quia jam non bibam de hoc genimine vitis usque in diem illum, cum illud bibam novum in regno Dei.

Coro:  Lauda Sion Salvatorem!

Cristo: Sumite: hoc est corpus meum.

Coro: Et hymno dicto, exierunt in montem Olivarum.

Coro: Lauda Sion Salvatorem, laud ducem et pastorem, in hymnis et canticis!

Parte seconda : L’orazione al Monte

Coro: Et assumit Petrum, et Jacobum, et Johannem secum: et coepit pavere, et taedere. Et ait illis:

Cristo : Tristis est anima mea usque ad mortem: sustinete hic, et vigilate.

Storico (basso) : Et cum processisset paululum, procidit super terram; et orabat, ut si fieri posset, transiret ab eo hora. Et dixit:

Cristo:  Abba, Pater, omnia tibi possibilia sunt: transfer calicem hunc a me; sed non quod ego volo, sed quod tu.

Coro : Et venit, et invenit eos dormientes. Et ait Petro:

Cristo : Simon, dormis? Non potuisti una hora vigilare? Vigilate et orate, ut non intretis in tentationem. Spiritus quidem promptus est, caro vero infirma.

Storico: Et iterum abiens oravit, eundem sermonem dicens.

Coro : Et reversus denuo invenit eos dormientes.

Storico : Erant enim oculi eorum gravati et ignorabant, quid reponderent ei. Et venit tertio et ait illis:

Cristo : Dormite jam, et requiescite. Sufficit: venit hora: Ecce Filius hominis tradetur in manus peccatorum. Surgite, eamus. Ecce qui me tradet prope est.

Coro : Et, adhuc eo loquente, venit Judas Iscariotes, unus de duodecim, et cum eo turba multa cum gladiis et lignis, a summis sacerdotibus et scribis et senioribus.

 

Parte III: La morte del Redentore

Storico I (baritono): Erat autem hora tertia et crucifixerunt eum. Et erat titulus causae eius inscriptus: Rex Judaeorum. Et cu meo crucifigunt duos latrones, unum a dextris et unum a sinistris eius. Et impletra est Scriptura, quae dicit : et cum iniquis reputatus est. Et praetereuntes blasfemabant eum, moventes capita sua et dicentes :

Coro : Vah, qui destruis templum Dei, vah et in tribus diebus reaedificas ; salvum fac temetipsum descendens de cruce

Storico I : Similiter et summi sacerdotes illudentes ad alterutrum cum scribis dicebant: Alios salvos fecit ipsum non potest salvum facere, Christus rex Israel; descendat nunc ut videamus et credamus

Storico I: Et qui cum eo crucifixi erant conviciabantur ei.  

Sorico II (basso prof.): Et facta hora sexta, tenebrae factae sunt per totam terram, usque in horam nonam. Et hora nona exclamavit Iesus voce magna, dicens:

Cristo: Eloi, Eloi, lamma sabacthani?

Storico I : Quod est interpretatum: Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me?

Storico I :  Et quidam de circumstantibus audientes dicebant:

Coro: Ecce Eliam vocat.

Storico I: Currens autem unus, et implens spongiam aceto, circumponensque calamo, potum dabat ei dicens:

Un tenore: Sinite, videamus si veniat Elias ad deponendum eum.

Storico II: Jesus autem, emissa voce magna, expiravit.

Coro finale: Plange quasi virgo, plebs mea: ululate pastores in cinere et cilicio. Quia venit dies Domini, magna et amara valde.

 



[1] Si chiamava cosí la terza nota dell’accordo di tonica aumentata di mezzo tono, al termine di un brano in tonalità minore, cosí da risollevare l’animo dell’ascoltatore, rattristato dal carattere ombroso, lunare - tipico della tonalità minore - con l’inatteso irrompere, proprio alla fine, del solare accordo maggiore.

domenica, marzo 20, 2022

NAZIONALISMO MUSICALE

 

LO SPETTACOLO BURATTINESCO DELL’ODIO POLITICAMENTE CORRETTO


Wagner e Verdi, nati nello setsso anno (1813)
tedeschissimo l'uno, l'altro italianissimo
l'uno e l'altro musicisti di valore universale.

Alcune comiche reazioni italiche alla tragica invasione russa dell’Ucraina (l’ultimatum notificato dal Sindaco di Milano Giuseppe Sala al direttore d’orchestra Valery Gergiev e, indirettamente, al soprano Anna Netrebko, le conferenze di Nori su Dostoevskij sospese dalla Magnifica Rettrice della Bicocca milanese Giovanna Iannantuoni, l’insaccamento della copia del David michelangiolesco di Piazza della Signoria a Firenze per ordine del valoroso Sindaco Nardella, l’esclusione – ma qui passiamo a un ambito più ampio, e dalla commedia precipitiamo alla farsa – l’esclusione dei gatti russi dalla competizioni internazionali…)  mi hanno fatto venire in mente un testo del grande direttore d’orchestra Vittorio Gui (1885 -1975), scritto nel 1919 e pubblicato, per la prima e – credo – unica volta, in Battute d’aspetto (Firenze 1944), un libro non facilmente accessibile. Credo, dunque, di far cosa gradita ripubblicandolo su questo mio blog, con qualche nota di commento.

Il titolo originale è “Nazionalismo musicale”, cui è aggiunto, tra parentesi, il sottotitolo “Storia vera”; una precisazione che oggi, dopo le innumerevoli “storie vere” televisive, il buon Maestro si sarebbe guardato bene dall’aggiungere.  

Alcune informazioni preliminari, utili alla comprensione. 

Monte Zebio
nel martoriato (I guerra mondiale) Altopiano dei Sette Comuni, a Nord di Asiago
.

I due versi del Trovatore (“Ai nostri monti”…) sono tratti dalla penultima scena dell’opera verdiana. La zingara Azucena e Manrico – il trovatore, il cantautore, che lei ha allevato come figlio – si trovano in un orrido carcere, prigionieri del Conte di Luna, rivale in amore di Manrico. Azucena, ossessionata dal ricordo di sua madre arsa sul rogo come strega proprio dal padre del Conte, e sicura d’esser destinata alla stessa fine, non riesce a prender sonno. Poi, cedendo alle suppliche del figlio, si assopisce e, tra il sonno e la veglia, rievoca la pace dei suoi monti, in un canto intriso di “italianissima nostalgia”…

Un po’ più complesso il discorso sullo “scandalo all’Augusteo”. Augusteo, o più propriamente Teatro Augusteo, era il grande teatro musicale, capace di ben 3500 posti, ricavato dalla radicale ristrutturazione dell’Anfiteatro Corea (costruito nel tardo Settecento sul Mausoleo di Augusto), inaugurato nel 1908, reso illustre da spettacoli e artisti di fama internazionale, e demolito nel 1937 nel quadro del programma di ripristino dei monumenti di Roma antica. Lo scandalo cui si allude (la rumorosa interruzione di un concerto di Toscanini) ebbe luogo nel gennaio del 1917. 

Uno scorcio della sala dell'Augusteo gremita di spettatori
(maggio 1923)

Al celebre Maestro era stato suggerito di non mettere in programma lavori di musicisti tedeschi per evitare prevedibili contestazioni: troppo fresco ancora, e doloroso, il ricordo delle vittime del bombardamento di Padova dell’11 novembre 1916. Toscanini – sul cui coraggioso patriottismo solo gli sciocchi potrebbero sollevare dubbi (v. Toscanini ardito) – convinto che l’arte (di valore universale) dovesse tenersi estranea ai conflitti bellici, aveva sdegnosamente declinato l’invito, mettendo in programma due brani del Crepuscolo degli Dèi di Wagner, forse il più platealmente tedesco dei musicisti tedeschi. Il “Mormorio della foresta” passò con qualche segno di protesta senza gravi conseguenze. Ma non appena risonarono gli inconfondibili rintocchi di timpani con cui inizia la “Marcia funebre di Sigfrido”, il silenzio della pausa che segue fu squarciato da un urlo. “Questa è per i morti di Padova!” gridò una voce dalla galleria. Bastò questo. L’irascibile Maestro gettò rabbiosamente la bacchetta e lasciò il podio. E “in un silenzio veramente tragico – ricorda Elsa Respighi che certamente era presente – la grande sala si vuotò in pochi minuti”.

Ma cediamo la parola al Maestro Gui.

 

NAZIONALISMO MUSICALE

(STORIA VERA)

Nell'inverno del 1917 comandavo in qualità di ufficiale del Genio un posto di ascolto nelle trincee di M. Zebio, e precisamente sulla quota 1591, dove la nostra linea si avvicinava estremamente a quella nemica, fino a una distanza minima di otto metri. Alt! un momento... perché non si creda che io narri questo a mio vanto, dirò subito che era un posto tranquillissimo: la vicinanza estrema, paradossale, forse casualmente stabilitasi dopo un’azione di ritirata di qualche mese innanzi, e mantenuta poi non si sa bene perché dagli stati maggiori delle due parti belligeranti, aveva portato a una specie di accordo tacito tra gli uomini di buon senso portati da un destino ironico e crudele a star a fronte a fronte masticando i loro lenti giorni nelle pozzanghere e nella neve di quel monte, il cui ricordo è ancor tragico nella memoria di chi lo conobbe allora. Neve, neve e neve; biancore sterminato, silenzi inverosimili, rotti da qualche raro ta-pum ozioso di vedetta austriaca zelante, a cui il bono taliano non si degnava di rispondere: cigolio di rami di abeti troppo carichi sotto il peso della neve: qualche filo azzurrognolo di fumo, qua e là, nella immensa ingannevole solitudine; una gran pace in mezzo alla grande guerra. Seduti accanto a un bel fuoco, gli occhi lagrimosi per il fumo importuno, un gruppo di ufficiali legge le notizie che i giornali portano di laggiù, dal mondo lasciato indietro, quello che pare proprio impossibile debba ritornare ad essere il nostro, come prima...


Soldati italiani in trincea

— Guarda, guarda! — si volge a me un collega che non ignora la mia vera persona nascosta sotto l'uniforme del tenente — a Roma è avvenuto uno scandalo all’Augusteo in un concerto diretto da Toscanini. Il pubblico si è opposto con urli e schiamazzi all'esecuzione della Marcia Funebre del Crepuscolo, e il concerto è stato interrotto mentre la folla chiedeva a gran voce e otteneva la Marcia Reale.

— Cretinerie! — interviene soldatescamente un altro. — È strano come il sentimento patriottico esploda in simili manifestazioni, che i giornali borghesi continuano a chiamar violente, sempre tra gente che non trova altro mezzo per difender la Patria, che quello di gridare dopo aver messo al sicuro la ghirba.

— Patriottismo da imboscati!

— Interessi loschi di fornitori militari!

— Ma no, forse c'è una parte di ragione...

— Ma che ragione!!!!

— La logica del sentimento...

— Una voce pare abbia gridato: «è la marcia funebre per le vittime di Padova! ».

— Ben detto.

— Battuta melodrammatica lanciata a freddo…

— Ma scusate amici, l’arte cosa c'entra? Credete proprio voi che quel Riccardo Wagner il quale scrisse nell’impeto dell’ispirazione quella meravigliosa pagina che è la Marcia funebre di Sigfrido sia esattamente lo stesso tedesco nazionalista, pangermanista che appare nelle sue chiacchiere letterarie? In ogni modo perché vorremo noi, proprio oggi che la violenza inevitabile ci ha gettati fuori da ogni gioia dello spirito, perché vorremmo sacrificare a questo doloroso destino finanche l’ultimo rifugio che è il godimento dell’Arte, in nome di una patria che può esigere da noi il sacrificio delle nostre vite, ma non già della nostra libertà spirituale?

— Giusto! vedi che in Germania si è capito così bene questo, che i teatri tedeschi, lungi dal gettare l'ostracismo contro le opere italiane, seguitano a dare Verdi e Puccini....

— Signor tenente — interrompe qualcuno — l'apparecchio segnala conversazioni...

È il mio caporale che, avvertito da un cenno del soldato che siede alla cuffia, viene a chiamarmi.

– Silenzio, vi prego, un momento.

— Cosa dicono? Come?.... è il Comando di battaglione... Ridono?...

— Fanno un tal chiasso!

— Sono gli ufficiali del Comando austriaco...

— Senta senta, signor tenente, fanno musica! una specie di fanfara.... non si afferra bene.... ma è certo musica...

— Dammi qua la cuffia.


Soldati austriaci in trincea sul Monte Zebio

Mi metto in ascolto. Dio del cielo! ma questa è proprio musica: è un grammofono certamente; riconosco il timbro nasale dello strumento. Le risate e il chiasso che arrivano insieme mi impediscono di afferrare subito il motivo. Ah, ecco... sì.... oh! bellissima! Ma questo è il Trovatore!

 Ai nostri monti ritorneremo

l'antica pace ritroveremo...

Ignoto collega ufficiale austriaco che eri nel gennaio del 1917 sul Monte Zebio, quota 1591, dall'altra parte, e così grande distanza ci separava malgrado gli otto metri di terra irta di fili di ferro che si stendeva tra noi, se il fato sotto la vile forma del così detto «piombo nemico» ha risparmiato la tua pelle come ha risparmiato la mia, dovunque tu oggi ti trovi, o nella pace della tua ricuperata famiglia, o nel turbine inquieto della tua vita d'affari, sosta un minuto e cerca di ricordare... e dimmi qual demone ironico ti suggerì l’idea di metter nel tuo rauco grammofono proprio in quell'ora quel disco di italianissima nostalgia, quasi a dare la risposta più chiara più definitiva e più libera alla spudoratezza di quegli inscenatori di dimostrazioni patriottiche, che nelle pieghe della bandiera del loro paese (e ve n'è in tutti i paesi del mondo) nascosero le loro mani adunche di rapinatori e le loro bocche avide di divoratori di cadaveri... e l’ingenuità delle folle si inchinava! Son passati anni, le piaghe si cicatrizzano, i ricordi impallidiscono. I nazionalisti dell'arte ci permettono ormai (bontà loro) di suonare tutte le marcie funebri che vogliamo, anche quella delle nostre illusioni. Sigfrido è morto, l’eroismo è scomparso dal mondo, e dorme il più alto sonno. I patriotti di allora, i più accaniti gridatori hanno perduto la voce, e contano in silenzio le monete nel sacco ricolmo. Gli altri... oh! gli altri.... molti di essi tacciono per sempre; i superstiti vanno a poco a poco dimenticando.... Solo di tanto in tanto li prende la strana malinconia di ricordare, ma ancora non trovano la «buona risata » di zaratustriana memoria, che tutto cancella, e di cui solo è degno lo spettacolo burattinesco di questa umana commedia.


Ecco, la storia si ripete. Sotto forme diverse, ma nella sostanza si ripete. Anche oggi non mancano gli “inscenatori di dimostrazioni patriottiche” (oggi si preferisce definirle ‘di solidarietà’!) che, nella bandiera di nobili ideali, nascondono ben altri interessi. E, ahimè!, anche oggi “l’ingenuità delle folle” continua ad inchinarsi e applaudire. Anzi, oggi più che mai, dato il gigantesco potere di manipolazione delle masse offerto dalla tecnologia moderna a chi ha capitali per disporne.

Rileggete quella battuta sulla funzione dell’arte – anzi, dell’Arte – come “rifugio” contro la violenza. Ma, più che questo, sembra a me particolarmente urgente soffermarsi sulla rivendicazione di un valore oggi così spesso svilito: la libertà spirituale. La patria (le Istituzioni, il Governo, il Presidente…) può imporci tutto, forse anche il sacrificio della vita, ma il sacrificio della libertà spirituale, quello non può imporcelo nessuno: la libertà spirituale è nostra, diritto inerente alla persona umana, e perciò inalienabile!

Ma rileggete (e meditate) soprattutto quella commossa apostrofe al collega ufficiale austriaco, al nemico di ieri, a un uomo che, pur nella dolorosa obbedienza al “fato” che lo volle contrapposto ad altri uomini, seppe andare oltre la situazione contingente e vedere nell’arte italiana un valore umano ed universale, base imprescindibile per un superamento degli odi che altri avevano suscitato e favorito.

Sono considerazioni, quelle di Gui, non di un imboscato, di un guerriero da salotto come quelli che affollano i talk-show televisivi e le redazioni di molti giornali; sono considerazioni di uno che – esattamente come il collega ‘nemico’ – masticava “i suoi lenti giorni nelle pozzanghere e nelle neve”, consapevole che da un momento all’altro, da un fronte o dall’altro, poteva arrivare l’ordine d’attacco e il compiersi del “ fato sotto la vile forma del così detto «piombo nemico»”.

E se qualcuno fosse talmente stolto (o furbo!) da scambiare l’atteggiamento suggerito dal Maestro Gui per cinica indifferenza per le sofferenze ineluttabilmente connesse a tutte le guerre, o addirittura per connivenza col ‘nemico’ di turno, non state a discutere: sarebbe inutile! Sotterratelo sotto «la “buona risata” di zaratustriana memoria, che tutto cancella, e di cui solo è degno lo spettacolo burattinesco di questa umana commedia».     

  

Il M. Vittorio Gui (1885 - 1975)