sabato, dicembre 25, 2021

Respighi Lauda per la natività del Signore

 

Giotto, Natività (part.)

Padova, Cappella degli Scrovegni, affrescata fra il 1303 e il 1305, 

dunque in epoca molto vicina al costituirsi del testo originario.


Nel 1975 la signora Elsa Respighi, prima allieva di composizione, poi sposa e collaboratrice del musicista, e infine – rimasta prematuramente vedova – devota custode e promotrice della musica del Maestro, rievocando la prima esecuzione della Lauda  a Palazzo Chigi Saracini a Siena (novembre 1930), scriveva: «È  in questa composizione un profondo senso religioso ed umano che rispecchia molto la personalità del Maestro». E proseguiva: «Il conte Chigi ne fu felice e la serata si chiuse in una serena letizia: una sosta, una di quelle benefiche, dolci soste, che ogni artista che abbia avuto la ventura di entrare nel Palazzo Chigi Saracini non può dimenticare».

Ecco: per augurarvi il Buon Natale io non posso purtroppo offrirvi una “dolce sosta” musicale nella splendida sala-concerti di Palazzo Chigi Saracini (io stesso ebbi la fortuna di entravi una sola volta, una trentina d’anni fa!); ma vorrei augurarvi che l’ascolto dell’opera che mi appresto a presentarvi sia per voi apportatrice di “serena letizia”, una “sosta” dalle preoccupazioni e ansie che turbano, per il secondo anno consecutivo, l’atmosfera, gioiosa per definizione, delle feste natalizie.

Quella che intendo presentarvi è dunque una “lauda” – per la precisione una “lauda drammatica” su testo attribuito a Jacopone da Todi (1236 -1306). In realtà, il testo musicato da Respighi è un estratto da un’opera più corposa (Ista laus pro Nativitate Domini), redatta in dialetto umbro duecentesco e tradizionalmente attribuita al poeta tudertino. Per la verità, almeno a parere di uno specialista della materia, V. De Bartholomaeis, la Laus tramandata sarebbe frutto della fusione di due precedenti Laude, cucite insieme da un Anonimo nella prima metà del XIV sec. Sarà certo così ma, a mio modesto avviso, nulla vieta di pensare che almeno uno dei due testi originari, quello che qui ci interessa, risalisse proprio a fra Jacopone.

La riduzione sembra sia stata eseguita da Respighi in persona tra il 1928 e il 1930. Personalmente trovo un po’ strano che non ci abbia messo per niente le mani il poeta e librettista Claudio Guastalla, che da anni lavorava col musicista in fraterna armonia. Ma – riconosco – ancor più strano sarebbe che Elsa, così leale e affettuosa nei confronti del librettista, non ne facesse parola. Come che sia, Respighi non si è limitato a ritagliare un novantina di versi (dei 364 dell’originale). Anche nella parte da lui prescelta si è preso la libertà di trasporre, aggiungere o togliere qua e là parole o frasi o interi gruppi di versi, e anche – sembrerebbe – di apportare qualche leggero ammodernamento linguistico, forse per facilitare l’interpretazione all’ascoltatore (a meno che il testo non fosse già così nell’edizione da lui seguita, e che io non ho avuto modo di consultare!). Si tratta, tuttavia, di ammodernamenti molto modesti (“il” invece di el, “in” invece di en, e simili), che non snaturano l’originale. Tranne in un punto su cui, chi vorrà, potrà leggere in appendice una mia nota di approfondimento.

L’organico prevede tre solisti: l’Angelo, un Pastore, Maria (rispettivamente soprano, tenore, mezzo-soprano); Coro di Angeli; Coro di pastori; e sei strumenti “pastorali” (due flauti, un oboe, un corno inglese, due fagotti) a cui si aggiungono un pianoforte a quattro mani e, verso la fine, anche un triangolo.

Di seguito darò una parafrasi riassuntiva, qua e là accompagnata da osservazioni saltuarie e non specialistiche, sulla musica. (Certo, proprio la musica è la parte essenziale, ma quella l’affido principalmente al vostro orecchio e al vostro buon gusto). In appendice trascriverò il testo completo. Per aiutarvi a seguirlo, segnerò qua e là, con qualche inevitabile approssimazione, il decorso orario dell’esecuzione. A proposito: cercando su Internet troverete diverse registrazioni della Lauda; in realtà tutte, o quasi, risalgono a un'unica esecuzione, quella diretta da Richard Hickox, con Janet Baker nella parte di Maria (parte che nella prima esecuzione fu di Elsa Respighi!). È quella che ho ascoltato io. La troverete all'inidizzo youtube.com/watch?v=1CH6CUFpJGo.

Ma entriamo subito in argomento.

Il testo respighiano si articola – per esprimerci in termini propri alla critica cinematografica - in due sequenze, entrambe notturne: aperta campagna, la prima; davanti alla stallecta della Natività, la seconda, molto più lunga.

I.     Aperta campagna, popolata di pastori che vegliano a custodia dei loro greggi [00.00 - 07:43] 

Ricordate “L’Adorazione dei Magi”, il secondo movimento del Trittico botticelliano del nostro Respighi? (Ve ne ho parlato qui). Ricordate? D’un tratto, dal fondo stagnante d’un accordo tenebroso si levava, consolatrice, una tenera melodia a tutti noi familiare: Tu scendi dalle stelle. E, secondo voi, poteva mancare, un simile richiamo, proprio qui, in un contesto ancor più appropriato? Non manca, infatti. Troppo forte, in ogni italiano (almeno in quelli che non hanno più vent’anni), l’associazione dell’idea del Natale con il celebre canto natalizio di sant’Alfonso. Anzi, qui il motivo lo troviamo proprio all’inizio, in apertura, affidato alla delicata voce dell’oboe. Oh, appena un accenno: cinque o sei note (tempo 9/8), e subito l’abile musicista se ne distacca. Echi, allusioni, vaghi ricordi di quel motivo sembrano affiorare in altri punti della Lauda, ma l’atmosfera si allontana prestissimo dal canto appena evocato. Si ha l’impressione di stare ascoltando qualcosa di esotico, o quanto meno daltri tempi… E, in certo senso, è così. A trasportarci in tempi ben lontani dagli anni ’30 del Novecento (e ancor più dallodierno bailamme) è il frequente ricorso, in luogo della tonalità moderna, ai modo gregoriani della Chiesa medioevale (“colpa”, forse, della signora Elsa, che da allieva si era trasformata in maestra, avviando il geniale marito allo studio del gregoriano!). Ma non temete: non mi addentrerò in questi argomenti. Lasciatevi, piuttosto trasportare in questo mondo lontano e, per certi versi incantato, evocato dalla musica respighiana; dall’incanto, appunto, generato da motivi che si ripetono indefinitamente appena appena variati, dalla frequenza di passi melismatici (cioè ricchi di vocalizzi) nel canto e corrispondenti fioriture di note accessorie negli strumenti, espansioni ed effusioni liriche, quasi a voler esprimere l’inesprimibile, la pienezza, l’incontenibilità del sentimento, della tenerezza, della gioia…  Incanto creato, anche, dalla meravigliosa tavolozza timbrica che l’Autore, maestro insuperabile di orchestrazione, sa ricavare pur da un organico tanto ristretto.

Ed ecco, dopo un breve preludio strumentale, ecco risuonare alta la voce soprana dell’Angelo, che si presenta e fa la sua “ambasciaria”. Pastori – dice – “io son l’Agnol de l’eternal magione [dell’eterno palazzo, dell’eterna dimora…, insomma: del Paradiso]. Ambasciaria ve fone [vi fo » faccio] / ed a voie [voi] vangelizzo gaudio fino [vi do la bella notizia di un “gaudio fino”], ch'è nato el Gesuino (quanta tenerezza e ingenua spontaneità popolare in quel diminutivo vezzeggiativo!), Figliuol de Dio, per voie salvar mandato.

L’annuncio continua, condiviso, ora, dall’intero coro angelico, fornendo ai pastori indicazioni essenziali a trovarlo e riconoscerlo. Lo troveranno in una misera stalla, umilmente adagiato in una mangiatoia, “in mezzo al buove e l'asenello”, fasciato d’un pancello [pannicello] di nessun pregio, ricoperto di fieno...

“Segnor” – esclama uno dei pastori (tenore) rivolgendosi non agli angeli (come stranamente riporta la didascalia in latino) bensì direttamente al Signore parlando a nome del gruppo (il coro gli fa da discreto sottofondo, cantando a bocca chiusa); e prosegue   esprimendo stupore e gratitudine che, sì co’ l'Agnol parla [“così come l’Agnol parla, stando alle parole dell’Angelo”] per noi sia disceso dal cielo, “in così vile stalla”; e pregandolo che li guidi ad essa così che possano vederlo rivestito di carne umana.

A questo punto un breve intermezzo simula l’intervallo di tempo necessario a giungervi, separando così la prima sequenza dalla seconda. (Notate, sul lentissimo fluire di note a bocca chiusa di tenori e bassi, il gioioso irrompere di gorgheggi – chiamiamoli così – intonati dall’oboe, subito ripresi dai fagotti e, via via, dal corno inglese e dai flauti, forse a esprimere la foga e l’ardore della corsa dei pastori alla ricerca del Bambino).

 

II.    Alla stalla. Angeli, pastori, Maria e – personaggi muti – il Bambino e Joseppe (Giuseppe) [07:44 - 25:00]

Ecco quilla stallecta! – esclamano i pastori appena giuntivi, dando inizio a uno splendido canto corale, sostenuto e intrecciato dagli strumenti, non senza qualche illusoria eco di… cornamusa. Dentro la misera satallecta scorgono il fantino giacente in condizioni di assoluta povertà. Eh, purtroppo – compiangono – la Vergin benedetta non ha  paceglie [pannolini] né fascia per fasciare… Oltretutto Joseppe – poverino – non la può aiutare: è talmente vecchio che addirittura è svenuto… E infine una considerazione piena di stupore e ammirazione:  A povertà s'avvezza non uno di noi, bensì quil ch'è Signor senza niun par trovato, quello ch’è un Signore senza pari! Spontanea riviene in primo piano la voce del pastore, a ripetere la sua stupita ammirazione: Segnor, tu sei disceso…  

La parola passa ora [10:09] a Maria che – introdotta e sostenuta dalla voce lamentosa del corno inglese – parla al suo nato, incurante dei nuovi arrivati. Riecheggiando le osservazioni dei pastori, le sue prime parole esprimono l’intimo rammarico di non poter offrire al suo bambino appena nato nemmeno quello che tutte le mamme, anche le più povere, non fanno mancare:  Da me se' nato sì poverello! E anche lei commisera Giuseppe, quel povero vechiarello, quello che pure – specifica parlando al Bambino – in quanto mio sposo è destinato ad essere il tuo bailo (cioè “balio”, maschile di “balia”, dunque cooperatore della madre nel crescere il bambino, “educatore” o qualcosa del genere); il vechiarello è talmente stanco che ha finito per addormentarsi (notate la delicatezza con cui corregge il grossolano “desvenuto per la gran vecchiezza” dei pastori!). Ma il rammarico non può non intrecciarsi con l’ineffabile gioia della maternità (e di quale maternità!): Figliuol, che gaudio perfecto ho sentito al tuo nascere! Povera sì, anzi in miseria, ma… “strengendomet'al pecto, non me curava de nulla povertate / tanta suavitade / tu sì me daie de quil gaudio eterno, / o figliuol tenerello.

Ma i pastori insistono sull’estrema povertà in cui è venuto al mondo quello che pure è  fonte d'aolimento (“fonte d’ogni alimento”), e Maria non può non rinnovare il suo rammarico: Figlio mio, io  t'ho partorito e en tanta povertà te veggio nato!

“Prendi i nostri mantelli!” esclamano i buoni pastori, desiderosi di offrire al contempo un riparo al Bambino e un conforto alla Madre. (Notare che nel testo originario – molto più ampio – essi, arrivando alla capanna, avevano appunto espresso il dispiacere di non aver avuto né tempo né pensiero di prendere qualcosa, qualche pannicello, almeno, da offrire a quella madre in miseria e al suo bambino!). E mentre la madre santa continua il suo lamento, sottolineando l’incommensurabile sproporzione tra  l’identità metafisica di quel suo nato (Tu se’ Edìo [Iddio] enfinito / che per la humana gente s’è encarnato [!]) e le condizioni in cui lo ha dato alla luce, i pastori, temendo di aver troppo osato, la implorano umilmente: Non spregiare, o madre santa, indumenti quali possono offrire dei poverelli che stanno notte e giorno nei boschi a custodia delle greggi! Rivesti di essi il tuo figliuolo, che non alìta el fien sua carne pura [così che il fieno  non alìta – cioè “non allìda”, non leda, non ferisca – sua carne pura].  Vòlete [ti voglio] fasciare con quisto mio pancello [pannicello], o figliuol poverello – conclude rassegnata la madre, ché, dopo tutto, è consapevole che questa è la volontà di Dio Padre: co’ l’ha promesso il pate [patre » padre] tuo biato.[14:04]

 

La Natività (San Miniato, PI, Santuario del Crocefisso)

Scusatemi se vi presento una foto sbilenca e di non eccelsa qualità. Ma trovo questa monocromia settecentesca particolarmente significativa per illustrare il nostro testo, non solo per la figura di Joseppe addormentato, ma soprattutto per la didascalia in latino, che ne dà l’inusuale titolo ( Inizio della crocefissione di Gesù) e la sua spiegazione: “infatti, per la sua tenerissima carne, quanti fili di paglia, altrettante crudelissime croci!”

 

Gli angeli sembrano impazienti d’intonare il loro inno di gloria. E lo intonano, infatti: Gloria in excelsis Deo! Ma gli angeli sono angeli del cielo. Gli uomini (e quanto incerta sia la lor gratitudine!) li conoscono molto meglio i pastori… che volano più terra terra.  Segnor,  intona il tenore e il coro lo segue   puoie ch'hai [poiché ti sei] degnato / di nascere sì poveramente, / da lume a tutta gente / che null'omo sia de tal dono engrato!  Segue un intermezzo strumentale che si chiude con un accenno di moto cullante. Ma per i pastori è giunto il momento del congedo e, prima di partire, esprimono, in forma indiretta – quanta discrezione! – un loro pio, umanissimo desiderio: Contenti n'andremo / s'un poco noie 'l podessemo [noi lo potessimo] toccare. E però te pregamo, / quanto noie siam pastor de poco affare. Notate l’umiltà di questi pastori: temono d’essere troppo umili per una tale richiesta; e alla preghiera aggiungono l’attestazione della consapevolezza della loro condizione sociale: te ne preghiamo, “per quanto noi non siamo che poveri pastori de poco affare, di scarsa importanza”. 

Ecco, a questa tanto umana richiesta, Maria finalmente mostra di accorgersi della loro presenza. E, ovviamente, esaudisce. Vògliove consolare risponde perché torniate lieti a vostra gregge: / quel ch'è fatto legge / acciò che 'l servo sia ricompensato

C’è, qui, qualche difficoltà d’interpretazione. Si ha l’impressione che, nel corso della tradizione manoscritta, un copista troppo stanco abbia saltato qualcosa. Ma non è difficile integrare  e interpretare. Si può, per esempio, spiegare così: “Venite pure a toccare il Bambino, quel ch’è fatto legge ecc. O, ancor più semplicemente, vedervi una presentazione: “Questo è quel ch’è fatto legge ecc. Cioè: colui che, con la sua venuta salvifica (ricordate: che per la humana gente s’è encarnato) si è fatto legge, si è costituito in nuova legge (avendo assunto su di sé i peccati degli uomini), affinché il servo sia ricompensato; ricompensato con la salvezza eterna, evidentemente, delle umiliazioni e sofferenze proprie della sua condizione sociale. (Ma la versione che vi suggerisco canta recomparato invece di ricompensato, e forse meglio: leggete, se interessati, la nota d’approfondimento).

Ma – come dicevo – il Coro è impaziente d’intonare il Gloria, e, prima ancora che Maria abbia finito, attacca l’inno al gran completo (angeli e pastori). Seguire le parole, nell’intrecciarsi delle varie voci della polifonia (in qualche momento si giunge a ben sette linee melodiche!) è pressoché impossibile. Nel testo riportato in appendice ho cercato di facilitare il compito, ma non mi faccio troppe illusioni. Meglio leggersi attentamente il testo prima, in modo da avere in mente, durante l’ascolto, situazioni, sentimenti ed emozioni espresse, e poi abbandonarsi alla gioia della complessa onda sonora. Ma qui consentitemi qualche annotazione in più sulla parte musicale. Qui, infatti, la festa, il tripudio sonoro (voci umane, strumenti, ritmo…) raggiunge il suo culmine.

 Laude, gloria ed onore a te! [18:56 - 25:00]

Il coro intona   “Laude, gloria ed onore a te”, tenendo quest’ultima sillaba, su un unico immutabile accordo,  per ben 15 quarti! Un tempo che parrebbe interminabile (e tutt’altro che festoso!), se non intervenisse, a imprimere al tutto un moto travolgente, la parte strumentale. Intanto già sul finire della prima parola (“Laude”) avvertiamo l’inaspettata entrata di un nuovo “personaggio”, il pianoforte, che si presenta senza alzare troppo la voce, ma con un ritmo, e una pienezza sonora (è suonato da due esecutori!) che non passa certo inosservato. Subito di seguito si fanno sentire flauto I  e fagotto II. Poi, in coincidenza con l’inizio del secondo “Gloria”, l’intensità dinamica s’innalza al forte, e, mentre anche le voci corali avviano un andamento più movimentato proseguendo l’inno di gloria, oboe, corno inglese e fagotto I si aggiungono all’esultanza generale. Qualche istante dopo scatta, improvviso e gioioso, il lunghissimo trillo all’unisono di  flauto I, fagotto II, pianoforte (I esecutore). Qualche istante, e l’intensità sale ancora (fortissimo!); entra in scena anche l’ottavino che, preso slancio da una “acciaccatura” – i musicisti la chiamano così – di tre noticine, si lancia in un suo acutissimo trillo, subito imitato dal flauto e, come in una gara, immediatamente ripreso dall’ottavino. Travolti dal loro entusiasmo, oboe, corno inglese, fagotto I, fagotto II : tutti si associano al gioioso tripudio dei primi. Poi gli  strumenti passano a festose note staccate e marcate, lasciando il trillo al solo corno inglese, cui però  ultimo arrivato si aggiunge il triangolo, quasi a non voler far mancare, accanto al suono robusto del primo, il modesto contributo della sua esigua ma luminosa voce argentina; anzi, ostinandosi a continuare il suo trillo anche quando tutti gli altri strumenti sono passati ad altro. A ricordare, nella chiassosa aria di festa, la solennità del momento natalizio, ci pensa, a tratti, il coro con note lunghe, spesso a bocca chiusa, assecondato dal pianoforte (II esecutore) e dalla voce bassa ed austera dei  fagotti. 

Poi il movimento degli strumenti – sempre in fortissimo – si fa ancora più vivace, travolgendo ancora una volta anche il coro, in un  festoso accavallarsi di voci strumentali e corali in una corsa che pare inarrestabile. Poi, però, com’è inevitabile, in corrispondenza delle parole “e in terra pace a chi ha il buon volere”, l’impeto decade, rallenta… Il coro passa a note molto lunghe, tenute a bocca chiusa, e via via anche gli strumenti rallentano e posano su note lunghissime, lasciando il compito di dar segno di vita, per qualche tempo, solo a fagotto e pianoforte, che anch’essi alla fine lasciano… Riprende il coro, riprendono gli strumenti con un andamento moderato, cullante, non senza qualche vago ricordo di Tu scendi. Ed ecco emergere, e volare alta, più alta, ancor più alta la voce soprana dell’angelo, ancora non sazio d’inni di lode a Dio: Gloria in excelsis Deo… E ancora risale, spingendosi ancora più in alto, puro giubilo senza parole, ché tale non è la semplice interiezione!

Tutti hanno espresso la loro esultanza. Maria, finora, ha taciuto. La sua non è esultanza, non è giubilo tripudiante. Non è, ora, la gioia della maternità espressa in precedenza.È un gaudio tutto interiore, indicibile, misto a profonda, sconfinata gratitudine. A tentare di esprimere un sentimento così intenso, misterioso, di là dal mondo sensibile, non resta che la flebile risorsa della cantilena gregoriana, tutta su un’unica nota (a parte la conclusione), quasi parlata, fiorita, con discrezione, dal melodiare prima dell’oboe, cui presto si accompagna il corno inglese; poi subentra il fagotto, seguito dal flauto… Ma, nel momento cruciale, tacciono tutti, coro e strumenti, per lasciare splendere sole, nel silenzio, le parole  sommamente poetiche Io sento un gaudio nuovo (notate, tra parentesi, la bravura dell’interprete, che conferisce a quelle spoglie parole, a quel tono di voce, quasi un senso di sgomento, per l’assoluta, misteriosa novità di quello stato d’animo!). E conclude: “e tutta renovata so en fervore”, solo sulla penultima sillaba permettendosi un modesta espansione lirica. E mentre l’Angelo, sulle parole Ched ecco è nato il Salvatore, riprende il suo indimenticabile motivo ascendente, seguito dall’Amen del Coro, oboe e poi corno inglese riprendono un loro motivo cullante, incantatorio… Lo riprende, da ultimo, il fagotto, ma premettendovi un attacco particolare. Direte che sono fissato, o che l’orecchio ormai mi inganna, ma – sarà forse anche per il ritmo cullante – ma io sento riecheggiare l’inizio del terzo verso di quel popolare canto natalizio più volte richiamato. Dite che è una fortuita coincidenza? Può darsi, ma è anche vero che è difficile che il richiamo sfuggisse all’orecchio di Respighi; e  ancor più difficile che sfuggisse alla signora Elsa, tanto più competente del marito in fatto di canti popolari, nonché prima ascoltatrice, e giudice severissima!, di ogni composizione del marito. Posso ovviamente sbagliarmi. Ma io credo che Respighi, invece, ce l’abbia proprio voluto il rapidissimo richiamo. Per racchiudere questa sua composizione raffinatissima (e destinata primariamente a un pubblico altrettanto raffinato), ma ispirata alla festa più cara – almeno un tempo – alla gente del nostro Paese, entro una cornice di semplicità popolare.      

 

Siena, Palazzo Chigi Saracini

Lo splendido salone destinato ai concerti


Appendice 1: ricompensato o recomparato?

Nel testo da me riportato, il v. 84 suona così: acciò che 'l servo sia ricompensato. L’ho trascritto così dall’edizione critica della studiosa tedesca Christine Haustein, che afferma di essersi basata sul manoscritto dell’Autore. Ma, se fate attenzione, nell’esecuzione da me suggerita sentirete cantare non ricompensata bensì recomparata. E in effetti, se si consulta la più recente edizione critica della Lauda da cui trae origine il testo respighiano, si legge proprio recomparata.

Ora, la cosa può apparire irrilevante sul piano musicale. Anzi, si potrebbe dire con ragione: così ha scritto Respighi e così va cantato! Ma, se consideriamo anche il testo poetico in quanto tale, non possiamo non notare che la parola scartata dal musicista (se davvero la variante si deve a lui) ha in realtà una ben diversa pregnanza poetica.

Proviamo a leggere e interpretare adottando la variante recomparata.

Otterremo: “Sì, vi permetterò di toccare colui che, con la sua venuta salvifica si è fatto legge, si è costituito in nuova legge (avendo assunto su di sé i peccati degli uomini), affinché il servo sia… non ricompensato, bensì recomparato. La nuova legge, da Cristo stabilita in virtù della sua passione redentrice, non si limita a dare una compensazione post mortem delle ingiustizie patite connesse con la condizione sociale, ma fa di più. Essa sancisce un riscatto, già in questa vita. Riscatto non solo dal peccato, ma anche dalla condizione servile a una superiore dignità, quella di figlio di Dio, comune a tutti i credenti. Un concetto – questo del Natale come riscatto del povero – sul quale l’autore dell’originale insiste molto (anticipando di mezzo millennio il Natale di Manzoni!), tanto da ammonire severamente lo sprezzante riccastro: “Or te confonda, avaro, / che non te sazie d’adunar moneta: / lo suo figliuol sì caro / Dio l’ha mandato a casa sì fornita [notare l’ironia: “casa sì fornita”: come lo è una squallida stalla, priva d’ogni cosa!]. E lo ammonisce, anche: “Corregge la tua vita”!

E, giacché ho citato Manzoni, ricordate l’umile preghiera dei pastori a Maria? Te ne preghiamo, “per quanto noi non siamo che poveri pastori de poco affare”, cioè “di scarsa importanza”. Non viene in mente anche a voi l’espressione “gente meccaniche e di piccol affare” con cui l’Anonimo manzoniano qualifica le persone del popolo come Renzo e Lucia? E in effetti non sono pochi i passi in cui questa Lauda drammatica tocca il motivo degli umili, che mezzo millennio dopo sarà fatto proprio dal Manzoni dagli Inni sacri ai Promessi sposi.

 

Appendice 2: Testo 

(per comodità del lettore, riporto - entro limiti ragionevoli - anche le ripetizioni; inoltre qua e là segno - per agevolare la comprensione -  qualche accento non presente nell'originale)

Preludio [00:00 – 00:40]

L'ANGELO 00:40

Pastor, voie che vegghiate

Sovra la greggia en quista regione,

I vostr'occhi levate,

Ch'io son l'Agnol de l'eternal magione.

Ambasciaria ve fone

Ed a voie vangelizzo gaudio fino,

Ch'è nato el Gesuino

Figliuol de Dio, per voie salvar mandato.

 

CORO (Angeli) [02:27]

E de ciò ve dò in segno

Che in vile stalla è nato il poverello,

E non se fa sdegno [e non disdegna

Giacere in mezzo al buove e l'asenello.

La mamma en vil pancello

L'ha rinchinato sovra el mangiatoio.

De fieno è 'l covertoio,

Ed è disceso così humiliato.

 

ANGELO  [04:00]  (intrecciato a Coro “E de ciò… è nato il poverello” (con seguito a bocca chiusa)

Pastor, voie che vegghiate

Sovra la greggia en quista regione,

I vostr'occhi levate,

Ch'io son l'Agnol de l'eternal magione.

 

UNUS PASTOR ad Angelos (?)

Signor, tu sei desceso  [05:53]

De cielo en terra sì co' l'Agnol parla,

E haine el cuore acceso

A ritrovarte in così vile stalla;

Lasciane ritrovalla

Che te vediam vestito en carne humana. 

 

PASTORES ante Praesepium

[07:44]   Ecco quilla stallecta:

Vedèmce lo fantino povero stare.

La Vergin benedecta

Non ha paceglie né fascia per fasciare;

Joseppe non la pò 'itare [aitare, aiutare]

Ch'è desvenuto per la gran vecchiezza.

A povertà s'avvezza

Quil ch'è Signor senza niun par trovato.

 

PASTORE  [09:16]

Signor, tu sei desceso

De cielo en terra sì co’ l'Agnol parla,

E haine el cuore acceso [e ci hai acceso il cuore di desiderio]

A ritrovarte in così vile stalla (161).

 

  MARIA [10:18]

O car dolce mio figlio,

Da me se' nato sì poverello!

Josepe el vechiarello

Quil ch'è tuo bailo, qui s'è adormentato.

Figliuol, gaudio perfecto,

Ched i sentie a la tua nativitade! [che io ho sentito (ched: d eufonica, come in ed)

Strengendomet'al pecto,

Non me curava de nulla povertate,

Tanta suavitade

Tu sì me daie de quil gaudio eterno,

O figliuol tenerello.

 

 CORO [11:58]

O fonte d'aolimento,

Co' tanta povertà te se' inchinato.

 

  MARIA [12:36]

Figliuol, t'ho partorito!

En tanta povertà te veggio nato!

 

 CORO [13:02]

Toglie nostre manteglie [continua intrecciandosi col canto di Maria]

E non te fare schifa, o madre santa,

Vestir di povereglie

Chè stanno en selva colla greggia tanta.

El  figliuol ammanta

Che non alìta el fien sua carna pura.

 

 MARIA [13:06]

Tu se' Edio enfinito,

Che per la umana gente s'è encarnato.

Non ho dua sie fasciato: [dove tu possa essere fasciato]

Vòlete fasciare con quisto mio pancello,

O figliuolo poverello,

Co’ l’ha promesso il pate tuo biato.

 

 CORO (Angeli) [14:04]

Gloria in excelsis Deo,

Gloria ed onore a te, 

Sire del cielo onnepotente.

 

 PASTORES [14:49]

Segnor, puoie ch'hai degnato

Di nascere sì poveramente,

Da lume a tutta gente

Che null'omo sia de tal dono engrato.

 PASTORES ad MARIAM [17:21]

Contenti n'andremo

S'un poco noie 'l podessemo toccare;

E però te pregamo

Quanto noie siam pastor de poco affare.

 Contenti n'andremo 

S'un poco noie 'l podessemo toccare.

 

MARIA ad Pastores [18:13]

 Vògliove consolare

Perché torniate lieti a vostra gregge

Quel ch'è fatto legge

Acciò che 'l servo sia ricompensato!

 

CORO (Tutti)  [18:57]

 Laude,

gloria e onore a te!

Gloria a te, o Sire del ciel.

Gloria ed onore a te, o Sire del ciel.

Gloria, laude, onore a te, o Sire del cielo.

Gloria ed onore a te, o Sire del cielo onnipotente.

Gloria in excelsis Deo

E in terra pace a chi ha el buon volere,

E in terra pace a chi ha el buon volere.

Al mondo tanto reo

Tu se' donato non per tuo dovere,

Ma sol per tuo piacere.

Noi te laudiam, Signore,

Glorificando la tua maestade.

 

ANGELO (col coro)

Gloria in excelsis Deo. Ah!

 

 MARIA [23:04]

Tenuta so a Dio patre

Rendere onore e gloria in sempiterno

Pensando ch'io son matre

Del suo figliuolo, el quale è Dio eterno.

E tanto è 'l gaudio superno

Baciando ed abbracciando sì car figlio

Bello sovra ogni giglio,

Che a me el cuore è si destemperato.

Io sento un gaudio nuovo (da qui il Coro comincia Amen, intrecciandosi col canto di Maria)

E tutta renovata io so en fervore.

 

ANGELO 

Or ecco ched è nato el Salvatore!

 

CORO

Amen. Amen. Amen…

 

Elsa e Ottorino Respighi

Nella loro già fu splendida villa “I Pini” a Montemario – Roma.

Doveroso omaggio all’Autore e alla sua degna consorte