martedì, giugno 01, 2021

L'Inno degli Italiani

l'altare della patria

L’Altare della Patria


Premessa

Lo abbiamo sentito centinaia di volte. Non solo in ricorrenze civili e militari, ma anche in occasione di vittorie nostrane in competizioni sportive internazionali: il momento solenne della premiazione è immancabilmente segnato da quel breve motivo iniziale subito ripreso da un coro più o meno intonato (o stonato!): Fratelli d’Italia...

Ma quanti conoscono davvero questo inno? Quanti ne conoscono il testo intero, l’autore, le circostanze della composizione, la storia?… Quanti, anche a limitarsi alle sole due strofe usualmente cantate, ne comprendono il significato? Non moltissimi, temo. Anche perché molto raramente questa poesia viene studiata a scuola. E poi, gli Italiani – si sa – a parte l’occasione dei mondiali di calcio, non pare brillino particolarmente per patriottismo.

Considerazioni di questo genere, sommate al fatto che i miei studenti, pur appartenendo a famiglie italiane o miste, vivevano in un contesto internazionale, lontani dal territorio dello Stato, mi suggerirono l’idea – quando insegnavo alla Scuola europea “Bruxelles 1” – di illustrare il genere letterario “inno” proprio assumendo come base il nostro inno nazionale.

Ora vorrei partecipare alla celebrazione della festa della nostra Repubblica riproponendo a un pubblico più vasto quelle mie conversazioni dirette agli studenti.

Naturalmente, questo mio post tradisce subito a prima vista il suo… peccato d’origine, l’impostazione didattica. Di questo vi prego di scusarmi, in considerazione – appunto – della sua destinazione originaria.  

 

Il genere letterario

La parola greca hymnos designa una forma poetica, almeno in origine destinata al canto, che ha come argomento l’invocazione e le lodi di una divinità, spesso seguite da una preghiera. La forma fu adottata anche dal cristianesimo, sia greco che latino, con modi e toni simili a quelli propri della poesia pagana. Ovviamente l’inno cristiano non è più rivolto a divinità o eroi pagani bensì a Dio, a Gesù, ai santi. In epoca moderna è stato ripreso sia nella lirica religiosa (cfr. gli Inni sacri del Manzoni) sia nella poesia che possiamo definire, in senso molto ampio, civile, nel senso che si ispira ad alti ideali di carattere morale, civile o patriottico. Possiamo citare l’Inno alla gioia di Schiller, intonato da Beethoven nel IV tempo della sua Sinfonia n. 9, e i vari inni nazionali, a cominciare dal nostro, il notissimo Fratelli d’Italia.

 

L’autore

Lo scrisse quello che oggi si direbbe “un ragazzo”, un giovane di appena vent’anni, Goffredo Mameli, nato a Genova nel 1827. Avvicinatosi alle idee mazziniane, il giovane Mameli fu tra i più ardenti sostenitori delle richieste di riforme, appoggiando l’azione dei suoi compagni di lotta con composizioni poetiche di ritmi scorrevoli e popolareggianti. Nella tarda estate del 1847 fu tra i promotori delle manifestazioni svoltesi a Genova per spingere il re Carlo Alberto alla concessione dello Statuto e della Guardia Civica, ed appunto in quella occasione scrisse l’inno di cui ci stiamo occupando.  In seguito combattè nella I Guerra d’indipendenza (1848) ed fu tra gli animatori della Repubblica Romana (I metà del 1849). Morì nel luglio di quell’anno in seguito a una ferita riportata combattendo, appunto a difesa di quella Repubblica, contro i Francesi, sostenitori del Papa. Torneremo sulla figura di questo giovane poeta, ma prima delineiamo il contesto storico in cui l’inno fu composto.

 

Le circostanze della composizione

Il testo fu composto verso la fine dell’estate del 1847, in occasione delle dimostrazioni di Genova tese a ottenere l’istituzione della ‘guardia civica’ e l’avvio di qualche riforma democratica.

Per comprendere, bisogna ricordare, almeno per sommi capi, la situazione storica dell’epoca. L’Italia era allora divisa in vari Stati, ciascuno con un proprio sovrano dotato di potere assoluto. I più estesi erano:

  1.   il Regno delle Due Sicilie (in pratica tutta l’Italia meridionale e la Sicilia), sotto i Borboni; 
  2. lo Stato Pontificio (Lazio, Umbria, Marche, Romagna e parte dell’Emilia), governato dal Papa; 
  3. il Regno di Sardegna (Piemonte, Liguria, Sardegna, Savoia), sotto Carlo Alberto;
  4. il Granducato di Toscana, governato dal Granduca Leopoldo.

Tutta l’Italia nord-orientale, dal Ticino alla Venezia Giulia (Lombardo-Veneto) era sotto il diretto dominio austriaco. L’impero asburgico, del resto, controllava, per interposta persona, anche Lucca e i ducati di Modena e di Parma, ed esercitava una pesante influenza su tutto il resto della Penisola.

Da molto tempo, però, agivano sul territorio italiano varie organizzazioni che, in buona sostanza, perseguivano tre obiettivi: l’indipendenza dall’Austria, l’unità (intesa in varie forme), regimi in qualche misura democratici. L’elezione al trono pontificio di Pio IX e i suoi primi atti di governo (1846) avevano suscitato entusiasmo nella maggior parte delle organizzazioni e degli uomini che si battevano per quegli obiettivi, e avevano incoraggiato, anche chi non condivideva quegli entusiasmi, a chiedere apertamente ai sovrani la realizzazione almeno parziale di essi. Fu appunto in questo clima che nacquero, più o meno spontanee, quelle dimostrazioni di piazza che dettero occasione alla composizione di questo inno, destinato a divenire ben presto «l’inno d’Italia, l’inno dell’unione e dell’indipendenza, che risonò per tutte le terre e su tutti i campi di battaglia della penisola nel 1848 e 49» (Carducci). Le parole del grande maremmano non devono trarre in inganno: fu “l’inno d’Italia” per il popolo, non per le istituzioni, che per un intero secolo lo ignorarono. È  solo a partire dal 1946, infatti, che  è considerato di fatto, e per forza d’inerzia, l’inno nazionale italiano.

Ma leggiamo il testo, accompagnato da indispensabili note esplicative

Fratelli d'Italia,
l'Italia s'è desta[1]
dell'elmo di Scipio[2]
s'è cinta la testa. 
Dov'è la Vittoria? 
Le porga la chioma, 
che schiava di Roma 
Iddio la creò. 

Stringiamoci a coorte[3]
siam pronti alla morte. 
Siam pronti alla morte, 
l'Italia chiamò. 
 
Noi fummo da secoli 
calpesti[4], derisi, 
perché non siam popoli, 
perché siam divisi. 
Raccòlgaci un'unica
bandiera, una speme: 
di fonderci insieme 
già l'ora suonò.

Stringiamoci a coorte, etc.
 
Uniamoci, uniamoci, 
l'unione e l'amore 
rivelano ai popoli 
le vie del Signore. 
Giuriamo far libero 
il suolo natio: 
uniti, per Dio, 
chi vincer ci può?

Stringiamoci a coorte, etc.
 
Dall'Alpe a Sicilia, 
Dovunque è Legnano[5]
Ogn'uom di Ferruccio 
Ha il core e la mano[6]
I bimbi d'Italia
Si chiaman Balilla[7]
Il suon d'ogni squilla 
I Vespri suonò[8].

Stringiamoci a coorte, etc.
 
Son giunchi che piegano 
Le spade vendute[9];
Già l'Aquila d'Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d'Italia
E il sangue Polacco
Bevé col Cosacco,
Ma il cor le bruciò[10].


Stringiamoci a coorte, etc.

Forma e contenuto

Soffermiamoci, ora, sulla forma e sul contenuto del testo.

Come avrete notato, il nostro inno è scandito in cinque strofe di otto versi, ciascuna seguita da un invariato ritornello di quattro. I versi – sia delle strofe che del ritornello – sono tutti senari.   

Noteremo come il ritmo e la disposizione delle rime conferiscano all’inno un andamento scorrevole, cantabile. E osserveremo, anche, come il ritornello intensifichi e quasi militarizzi quell’invito all’unione (stringiamoci a coorte, appunto in schiera compatta) e come la ripetizione del secondo verso, con quell’insistere sulla prontezza ad affrontare la morte in nome dell’ideale, concorra con la rima tronca dell’ultimo verso a suggerire l’idea di una decisione irrevocabile, risoluta a travolgere ogni ostacolo.

Sul piano del contenuto troviamo che si tratta di un inno sui generis: non c’è, propriamente, un’invocazione all’Italia; e le lodi dell’Italia sono sostituite da allusioni al suo passato glorioso, funzionali all’intento dell’autore. In realtà, dal punto di vista formale, più che di inno si tratta di una parènesi, come direbbero gli specialisti; cioè di un’esortazione lirica, di un ardente invito, rivolto agli Italiani (tutti fratelli perché tutti figli della stessa patria) a unirsi per cacciar via dalla propria terra gli stranieri invasori, e riscattare, così, secoli di umiliazioni dovute esclusivamente alla loro disunione. Ora – dice il poeta – è giunto il momento di unirsi, e la vittoria è certa come provano i momenti gloriosi del nostro passato.

 

Retorica?

Se ora ritorniamo, per un momento, a dare un’occhiata complessiva alla forma, probabilmente resteremo stupiti di come un contenuto così semplice risulti così poco immediatamente afferrabile. Il fatto è che il lessico è intessuto di espressioni antiquate, di ascendenza classica, ed il testo è intarsiato di continui riferimenti a persone e fatti di un passato più o meno remoto. Ma tale era la formazione che quel ragazzo aveva ricevuto sui banchi di scuola, e non possiamo fargliene una colpa.

Questo linguaggio, e l’entusiastica fiducia nel valore degli Italiani e nella imminente riscossa, sono probabilmente all’origine dell’accusa di  retorica. I versi del poeta sono sembrati intessuti di parole vuote o, quanto meno, gonfiate; in definitiva, insincere. L’accusa ha fatto capolino già nel corso dell’Ottocento. E si può star sicuri che in un’epoca come la nostra, in cui agli occhi dei più l’ideale supremo s’arresta al successo e al denaro, si troveranno molti pronti a sottoscriverla, e magari a rincarare la dose. E certo, in bocca a tali persone, questi versi non possono non suonare vuoti e stonati. Ma non era così per il poeta che ne fu autore. Basta, a confermarlo, la sua breve esistenza, che lo vide attivo, a rischio della vita, dovunque si lottasse per l’affermazione di quegli ideali. E lo dimostra la conclusione eroica di quella breve esistenza. Lasciamo la parola a chi lo conobbe di persona e lo vide morire, Giuseppe Mazzini.

La mestizia che si diffonde in me mentr'io scrivo non è se non desiderio: desiderio del sorriso ch’ei versava dagli occhi su noi, sereno e quieto come la fiducia: dell'affetto ch’ei dava tanto più profondo quanto meno lo rivelava a parole; del profumo di poesia che ondeggiava intorno alla sua persona; dei canti che erravano ad ora ad ora sulle sue labbra, facili, ispirati, spontanei come il canto dell’allodola in sul mattino, che il popolo racco­glieva e ch’egli dimenticava. Per me, per noi profughi da ven­t’anni e invecchiati nelle delusioni, egli era come una melodia della giovinezza, come un presentimento di tempi che noi non vedremo, nei quali l’istinto del bene e del sacrificio vivranno inconscii nell'anima umana e non saranno come la nostra virtù frutto di lunghe battaglie durate. La sua avea tutta quanta l’inge­nua bellezza dell’innocenza. Lieto quasi sempre e temperatamente gioviale come per tranquilla e secura coscienza, e nondimeno velati sovente gli occhi d’una lieve mestizia, come se l’ombra dell’avvenire e della morte precoce si protendesse, ignota a lui stesso, sull’anima sua tendente per natura di poeta a non so quale languore e delicatezza femminile di riposo, ma contrastato in quella tendenza da una irrequietezza fisica assai frequente, figlia di mobilità estrema di sensazioni e dell’eccitamento nervoso ch’ebbe gran parte nella sua morte: d’indole amorosamente arrendevole e beata di potere abbandonarsi a fiducia, pari a quella del fanciullo nella carezza materna, in qualcuno ch’egli amasse, pur fermissima in tutto ciò che toccasse la fede abbrac­ciata: tenero di [più o meno: “sensibile, incline a”, “amante di”]  fiori e profumi come una donna: bello e non curante della persona: tale io lo conobbi, dopo ch’ei si era da oltre un anno affratellato meco [associandosi alla Giovine Italia] per lettere ed unità di lavoro, la prima volta nel 1848 in Milano.

 […]

Colà [a Roma] lo rividi, raggiante di novello entusiasmo, nelle file condotte da Garibaldi, assorto negli studi e nelle cure della milizia, pieno, come tutti noi, di speranza, che, ordinato il giovine esercito re­pubblicano, avremmo gittato una seconda volta, con più sicuri auspicii, il guanto di sfida all’austriaco.... Né parlerò io dello zelo instancabile da lui giovinetto spiegato negli uffici del suo grado; né del valore ch’ei mostrò combattendo nella giornata del 30 aprile, in cui ei fu ferito: basti ch’ei meritò lode e affetto da Garibaldi. Né ammirerò come còlto nella gamba da una palla di moschetto il 3 giugno, giornata che ci rapì Masina, Daverio ed altre vite preziose, e portato allo spedale dei Pellegrini, ci sostenesse, scherzando e lieto di patir per la patria dolori e timori pur troppo avverati dall’avvenire: il coraggio era natura in Goffredo. Noterò solamente, esempio raro nella milizia, ch’egli aveva ricusato sul rompersi della guerra e insieme a un amicis­simo suo, Nino Bixio, ufficiale d’alte speranze, il grado offertogli di capitano, allegando che v’erano altri più atti di lui per espe­rienza a coprire quel grado; e non l'accettò se non giacente nel letto, dove gli fu dato il brevetto coll’aggiunta di addetto allo stato maggiore. La ferita, che sembrava a prima vista leggera, s’andò aggravando, e la cancrena invadente rese, il 19, indispen­sabile l’amputazione. Fu fatta maestrevolmente; e allora spe­rammo di averlo salvo. Egli andava chiedendo se una gamba di meno gli conterebbe di guerreggiare a cavallo. Gli pareva di non dover morire che sulla terra lombarda, in faccia all’austriaco. Era deciso altrimenti. L’economia del fisico era in lui alterata nell’insieme; e, dopo un’illusione di meglio, s’andò poco a poco riaggravando. Mentre il cannone francese s’avvicinava lentamente alle mura, ei s’accostava ai momenti supremi. Avresti detto ch’ei dovesse morire con Roma. E morì il 6 luglio, tre giorni dopo l’occupazione, quando pe’ suoi più cari era cominciato o s’ap­prestava l'esiglio. Come il fiore della flomide, egli sbocciò nella notte; fiorì, pallido, quasi a indizio di corta vita, su l’alba: il sole del meriggio d’Italia, non lo vedrà.

E non fu retorica per molti suoi coetanei. Ascoltiamo la loro reazione nel ricordo di Michele Novaro, il musicista genovese a cui si deve la melodia che ancor oggi accompagna l’inno, nella testimonianza dello scrittore Carlo Barrili, da cui lo trascriviamo.

Siamo a Torino, di sera, in mezzo a un gruppo di amici intenti a cantare inni patriottici. A un tratto “entra nel salotto un nuovo ospite, Ulisse Borzino, l’egregio pittore che tutti i miei genovesi rammentano. Giungeva egli appunto da Genova; e voltosi al Novaro, con un foglietto che aveva cavato di tasca in quel punto: - To’ -  gli disse; te lo manda Goffredo. - Il Novaro apre il foglietto, legge, si commuove. Gli chiedono tutti cos’è; gli fan ressa d’attorno. - Una cosa stupenda! - esclama il maestro; e legge ad alta voce, e solleva ad entusiasmo tutto il suo uditorio. - Io sentii - mi diceva il Maestro nell'aprile del ’75, avendogli io chiesto notizie dell'Inno, per una commemorazione che dovevo tenere del Mameli - io sentii dentro di me qualche cosa di straordinario, che non saprei definire adesso, con tutti i ventisette anni trascorsi. So che piansi, che ero agitato, e non potevo star fermo. Mi posi al cembalo, coi versi di Goffredo sul leggio, e strimpellavo, assassinavo colle dita convulse quel povero strumento, sempre cogli occhi all’inno, mettendo giù frasi melodiche, l’un sull’altra, ma lungi le mille miglia dall’idea che potessero adattarsi a quelle parole. Mi alzai scontento di me; mi trattenni ancora un po’ in casa Valerio, ma sempre con quei versi davanti agli occhi della mente. Vidi che non c’era rimedio, presi congedo e corsi a casa. Là, senza neppure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte. Mi tornò alla memoria il motivo strimpellato in casa Valerio: lo scrissi su d’un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani: nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo e, per conseguenza anche sul povero foglio; fu questo l’originale dell’inno Fratelli d’Italia.

 

(A conclusione, permettetemi di ricordare che il musicista Ruggero Leoncavallo, quando volle dare il proprio contributo allimpegno dellItalia nella I Guerra mondiale, non seppe trovar nulla di più appropriato che la figura e la storia di questo giovanissimo patriota, facendone il soggetto di un’opera lirica a lui intitolata. A tale opera, e allo strano caso del non meno giovanissimo Montale – che ne scrisse la recensione senz’aver mai sentito una nota di quell’opera, guadagnandosi pure l’elogio e la gratitudine del musicista – è dedicato il post con cui ho dato inizio a questo blog).      

  

Appendice

 

“All’incirca son cent’anni

che scendevano su Genova

l’armi in spalla gli Alamanni.

Quei che contano gli eserciti

disser – L’Austria è troppo forte,

e le aprirono le porte.

Questa vil genìa non sa

Che se il popolo si desta,

Dio si mette alla sua testa,

il suo fulmine gli dà.

Ma Balilla gittò un ciottolo;

parve un ciottolo incantato:

ché le case vomitarono

sassi e fiamme da ogni lato.

Perché quando sorge il popolo

sovra i ceppi e i re distrutti,

come il vento sopra i flutti,

camminare Iddio lo fa”.



[1] Destata (si tratta di un participio che i grammatici chiamano ‘forte’).

[2] Scipione: allude al grande condottiero romano che nel 202 a.C. sconfisse Annibale a Zama (in Africa), ponendo fine alla II Guerra Punica che aveva messo in pericolo l’esistenza stessa di Roma.

[3] la coorte era, nell’esercito romano, l’unità tattica fondamentale (la legione ne contava dieci), costituita da circa 600 uomini che andavano all’attacco in schiera compatta (perciò il poeta dice stringiamoci a coorte).

[4] calpestati (altro participio ‘forte’).

[5] Legnano, cittadina della Lombardia, qui è ricordata con allusione alla sconfitta che nel 1176 i Comuni lombardi, riuniti nella Lega lombarda, inflissero all’imperatore Federico I Barbarossa, tedesco (e tedeschi erano considerati gli Austriaci, i ‘nemici’ del nostro Risorgimento). Dunque: dalle Alpi alla Sicilia non c’è posto per dominatori stranieri, ogni città d’Italia è destinata a diventare luogo di sconfitta per gli incauti invasori.  

[6] attenzione: “di Ferruccio” determina “il core e la mano”, non “ogn’uom”! Si tratta di una figura retorica chiamata ‘anastrofe’. Mameli vuole dire che ogni Italiano ha il coraggio e il valore di Ferruccio, cioè di Francesco Ferrucci, che nel 1530 cadde combattendo eroicamente per la difesa di Firenze contro l’imperatore Carlo V.

[7] come il ragazzino che nel 1746 col lancio d’un sasso dette inizio alla rivolta dei Genovesi contro gli Austriaci. Mameli aveva già celebrato entusiasticamente l’evento in una poesia ispirata al motto mazziniano ‘Dio e popolo’, forse composta in occasione della ricorrenza del I centenario della rivolta ricordata (10 dicembre 1846). Se vuoi, puoi leggerne i versi centrali nell’Appendice.

[8] allusione ai Vespri siciliani, cioè alla rivolta dei Siciliani contro i Francesi, iniziata una sera (l’ora in cui i monaci cantano i Vespri) del 1282.

[9] le spade (le armi) dei mercenari (e dei traditori!) sono pieghevoli come giunchi, inoffensive.

[10] l’aquila austriaca, simbolo dell’impero asburgico, ha perso le penne; e il sangue di Italiani e Polacchi che ha bevuto insieme con i Cosacchi (Russi) si è trasformato in veleno che le brucia le viscere.