mercoledì, agosto 30, 2017

Weindel: Pfitzner versus Busoni (libertà della musica o pericolo futurista?)


Recensione a

Martina Weindel, “La ‘Freiheit der Musik’ (la libertà della musica) di Busoni versus ‘Futuristengefahr’ (il pericolo dei futuristi) di Pfitzner”.

in Busoni Arlecchino e il futurismo, Atti del Convegno, Empoli 13-14 marzo 2016, pp. 157-172 (v. Busoni Arlecchino e il f.).

Hans Pfitzner

Hans Pfitzner

(dal sito ub.uni-frankfurt.de)



Alla seconda parte del titolo del Convegno (… “e il futurismo”) dedica la propria ricerca la studiosa tedesca Martina Weindel.

La traduzione del Manifesto marinettiano e la prima esposizione di futuristi a Berlino (1912) determinarono, in Germania, una polarizzazione tra conservatori e innovatori. Tutti coloro che i conservatori avvertivano come un pericolo per l’arte tràdita venivano promiscuamente accusati di ‘futurismo’. La vittima più illustre di questa semplificazione è forse Ferruccio Busoni. “Lasciai Berlino diffamato come futurista e mi ritrovo giudicato come non abbastanza progressista” scrive al figlio Raffaello (1921). L’infamante accusa gli era stata mossa in un risentito pamphlet di Hans Pfitzner (Futuristengefahr. Bei Gelegenheit von Busonis Aesthetik, 1917) in reazione alla seconda versione (1916) del suo Entwurf einer neuen Aesthetik der Tonkunst (“Abbozzo di una nuova estetica dell’arte dei suoni”).

L’autrice chiarisce che il pericolo paventato da Pfitzner si fonda su un grossolano equivoco. 

busoni ritratto da boccioni

Busoni ritratto da Boccioni (partic.)

(il musicista empolese stimava Boccioni
ma non condivideva l’estremismo chiassoso del futurismo)
Probabilmente fuorviato dal carattere asistematico dell'Abbozzo busoniano, e da frasi che a una lettura superficiale possono richiamare le sparate futuriste contro la tradizione, il musicista tedesco legge l'intervento busoniano, e la sua esortazione a svincolarsi da regole precostituite, come un rifiuto della forma e un invito a far tabula rasa della grande tradizione musicale europea e tedesca in particolare. Ma, in verità,  Busoni non rifiuta il concetto di forma strutturale. È invece convinto che – per usare le sue parole – “ogni motivo contenga, come un seme, un germoglio”, che “in ogni motivo giace già determinata la sua forma matura; ciascuna si deve sviluppare a modo suo, ma ciascuna segue la legge dell’armonia eterna”. Una concezione, questa, che alla studiosa tedesca richiama il concetto goethiano della "Metamorphose der Pflanzen (la metamorfosi delle piante)"; e che al filosofo potrebbe forse ricordare la teoria aristotelica dell'atto che non fa che attualizzare ciò che è già in potenza, e al lettore italiano la tesi desanctisiana della situazione che determina la forma poetica...

Eppure non mancano, fra i duellanti, importanti punti di contatto (natura astratta della musica, singolarità della sua posizione rispetto alle altre arti, carattere assoluto e incomparabilità della singola opera d’arte…). Ma le differenze sono tante e inconciliabili. A partire da quella fondamentale: mentre per Busoni le conquiste della musica precedente non sono che “l’inizio di un percorso che deve ancora raggiungere il suo culmine”, per Pfitzner l’evoluzione musicale ha già raggiunto un “periodo di massima fioritura”, quello dell’epoca beethoveniana. Di quella vetta, che a lui appare minacciata dalla successiva ‘decadenza’, Pfitzner si fa scudiero e paladino, accanendosi “contro i componenti puramente tecnici e stilistici della ‘nuova musica’ proclamata da Busoni”. 
Pfitzner nel suo studio

Pfitzner nel suo studio

(sullo sfondo il ritratto di Schopenhauer,

filosofo molto presente nella musica tedesca del secondo ’800)

Saggio, questo della Weindel, molto interessante, che fa chiarezza su una polemica che inasprì gli animi dei protagonisti ben al di là di quanto le innegabili divergenze fra i due avrebbero comportato se il dibattito si fosse svolto in un clima più sereno.

A conclusione (e tra parentesi) vorrei modestamente segnalare all'autrice una probabile svista, o refuso, nella frase “la sua affermazione che la forza creativa in una persona sia resa più riconoscibile quanto meno sia resa indipendente da cose tramandate” (p. 161), dove probabilmente sarà da leggere “quanto più sia resa indipendente...”.

martedì, agosto 29, 2017

Cermelli: Busoni e la "nuova commedia dell'arte"





Recensione a


Giovanna Cermelli, “Romanticismo, tardo-romanticismo e maschere italiane” 

in Busoni Arlecchino e il futurismo, Atti del Convegno, Empoli 13-14 marzo 2016, pp. 103-112 (v. Busoni Arlecchino e il f.).


Giovanna Cermelli rintraccia le intricate radici della busoniana Nuova commedia dell’arte (titolo apposto dall’autore all’Arlecchino e alla Turandot) nella cultura romantica tedesca.

turandot

Partic. della copertina del disco Urania historical records
 (dal sito allmusic.com)

La Turandot busoniana – pur nella sostanziale aderenza al testo di Gozzi – presuppone (per antitesi!) l’esaltazione degli aspetti tragici operata nella rielaborazione di Schiller. Ne dà un indizio evidente, per quanto paradossale, Busoni stesso, affermando di essersi ispirato al testo gozziano e non alla rielaborazione di Schiller. Il fatto è che con quella dichiarazione, apparentemente superflua, il compositore intendeva sottolineare la sua intenzione di preservare il carattere giocoso della fiaba, ignorando le connotazioni tragiche sviluppate dal poeta tedesco. Perché, per altri aspetti, il Truffaldino busoniano “è molto più simile alla figura schilleriana che non a quella di Gozzi”. Frutto di “una contaminazione moderna del buffo settecentesco con il demoniaco scurrile del Romanticismo”, esso “diventa, con tutte le sue grottesche contorsioni ereditate dai matti unilaterali del Romanticismo, il precursore e il compagno di strada dei personaggi scurrili ammiccanti e tanto più spaventosi quanto più ridicoli del cinema espressionista coevo a Busoni”.


Pantalone

Pantalone (da Wikipedia), 
“incarnazione del buonsenso filisteo”
Pantalone, per parte sua, da veneziano doc fatto ministro e segretario di Altoum senza nulla perdere del suo carattere di buon rappresentante del filisteismo, ha qui il compito di evidenziare, per contrasto, “la crudeltà inverosimile  di un Oriente in cui a comandare è una donna, e una donna troppo moderna”, mediante i ripetuti riferimenti alla “pacifica vita veneziana dominata dal buonsenso e dalla bonomia”.

Anche di Arlecchino gli antecedenti sono da ricercare nella cultura romantica tedesca. I Balli di Sfessania di Callot giungono a Busoni filtrati dal Romanticismo tedesco, da Friedrich Schlegel alle commedie giovanili di Tieck., a Clemens Brentano, allo Hoffmann del ‘capriccio’ Prinzessin Brambilla, di cui la Cermelli segnala i numerosi riscontri con la creazione busoniana.

Del resto, la “novità essenziale” dell’Arlecchino busoniano ci riporta ancora una volta  nell’ambito della cultura germanica. L’inafferrabile personaggio, più che come “imperatore del regno della fantasia”, nel lavoro del musicista empolese ci si presenta come “paladino di una nuova morale , che è poi la morale del Don Giovanni mozartiano filtrata attraverso la lettura di Nietzsche (o piuttosto la nuova morale di cui è parola in Nietzsche filtrata attraverso la reinterpretazione della figura di Don Giovanni)”.

marionette e burattini a teatro

Un particolare dell’esposizione temporanea Marionette e burattini 
al Teatro delle Orsoline (Cividale del Friuli)

Busoni ricorda che l’idea dell’Arlecchino 
gli fu suggerita da uno spettacolo del Teatro di marionette di Podrecca


Alla base della “nuova Commedia dell’arte” busoniana – conclude la studiosa – sta la “reinvenzione […] delle figure di Truffaldino da una parte e di Arlecchino dall’altra”, entrambi segnati dal passaggio per la Germania romantica. Un’indagine in questa direzione permetterà “di stabilire fra Turandot e Arlecchino una connessione interna più stretta di quanto non appaia a prima vista.” 

giovedì, agosto 10, 2017

Tammaro, Busoni e Sibelius





Recensione a



Ferruccio Tammaro, “Busoni e Sibelius: un’amicizia complementare”

in Busoni Arlecchino e il futurismo, Atti del Convegno, Empoli 13-14 marzo 2016, pp. 207-218 (v. Busoni Arlecchino e il f.).

È un ben strano rapporto d’amicizia quello tra Busoni e Jean Sibelius rivelatoci da questo intervento di Ferruccio Tammaro.
Si conobbero nel 1888 a Helsinki, dove il ventiduenne empolese aveva ottenuto una cattedra di pianoforte. Sibelius (un anno in più di Busoni) è ancora studente. Tra i due si instaura subito un rapporto di amicizia, cordiale ma asimmetrica: paternalistica e protettiva da parte del più giovane, deferente e piuttosto impacciata da parte del più anziano. Nonostante qualche bonaria riserva, Busoni lo stimava molto, gli voleva bene e, forte della stima che si era guadagnato negli ambienti più vivaci della cultura musicale europea, cercò sempre di aiutarlo a farsi strada. 

Jean Sibelius

Sibelius nel 1913 (da Wikipedia)
Si stenta a credere che un uomo con tale mutria
potesse sentirsi a disagio e in soggezione davanti a un benevolo Busoni:
che ci fosse in lui una punta di non disinteressata ipocrisia?

Eppure, sul piano della teoria e pratica musicale non pare ci fosse molto in comune. Sibelius ricercava una sua strada nel campo della musica strumentale, ma – diciamo così – in maniera tranquilla, ben lontana dall’irrequieto sperimentalismo busoniano. E il bello è che, con tutta la sua deferenza, verso il musicista empolese il finnico nutriva sì sentimenti di sincera gratitudine e sconfinata ammirazione per il grande pianista, ma aveva forti dubbi sulle sue qualità di direttore d’orchestra, e – mi si passi il termine – scarsa sympàtheia per le sue composizioni. “Non è un direttore d’orchestra” diceva a Lienau. E al suo diario confidava di trovare “povera e brutta” la musica della Fantasia contrappuntistica, chiedendosi perché mai “questo grande pianista” si ostinasse a voler comporre. Cose che se le avesse sapute il povero Busoni...

Sibelius giovane

Sibelius verso la fine degli anni ’80 (dal sito themonthly.com)
Più credibile, quell’atteggiamento,
in questo giovanotto poco più che ventenne.

Il fatto è che la loro amicizia era complementare, “una ‘conciliazione di opposti’, una fusione di ‘affinità divergenti’”, spiega Tammaro. Busoni “trovava nella genuinità di Sibelius quello che a lui mancava e che alla fin fine non gli dispiaceva del tutto, cioè quella spontaneità inventiva e melodica che in lui continuava a essere subordinata ai suoi interessi contrappuntistici e alla sua raffinata e scaltrita ricerca intellettuale”. Per Sibelius “Busoni rappresentò quello che egli non era e che sentiva di dover essere: l’artista pienamente al passo con i tempi, ben inserito nella musica europea. Ma soprattutto, come già detto, il grande concertista”.  

Sibelius al pianoforte

Ma Sibelius è anche questo bonario signore
che davanti al pianoforte
posa seduto in elegante poltroncina, anziché sullo scomodo sgabello

 Busoni finì con l’accorgersi dell’asimmetria, e con l’accettarla, sia pure con una punta di comprensibile amarezza. “Lui è così complicato e così difficile da decifrare, e il nostro legame resta unilaterale” – si sfoga nel 1921 con l’amico comune Adolf Paul. E notate con quanta precisione coglie l’atteggiamento di Sibelius verso di lui: “Malgrado il nostro affetto reciproco, lui non mi sembra mai completamente a suo agio con me e nello stesso tempo manifesta una sorta di ossequiosità infantile e sgradevole che mi imbarazza”. E conclude: “Malgrado tutto ciò, l’amo molto”.
Dov’è finito, vien fatto di chiedersi, l’Arlecchino cinico e apocalittico dell’Arlecchineide? Siano rese grazie postume, al grande empolese, anche per questa sua disinteressata generosità!   

Busoni al pianoforte

Busoni pianista acclamato e… triste:
le acclamazioni le avrebbe preferite rivolte
al compositore rivoluzionario

mercoledì, agosto 09, 2017

Vincenzi, Faust e Arlecchino



Recensione a

Marco Vincenzi, Faust e Arlecchino ovvero Liszt e Busoni: intersezioni nella vita, nel repertorio e nelle composizioni per pianoforte

in Busoni Arlecchino e il futurismo, Atti del Convegno, Empoli 13-14 marzo 2016, pp. 197-205 (v. Busoni Arlecchino e il f.).

Marco Vincenzi, musicista e direttore del Centro Studi Busoni, prende spunto dall’accostamento di Franz Liszt a Ferruccio Busoni proposto da Roger Scruton (su cui v. mio post del 2 febbraio scorso). Accostamento occasionale, suggerito dalla constatazione che tanto nell’incipit della Faust-Symphonie di Liszt quanto in quello dell’Arlecchino busoniano troviamo l’esposizione di tutti e dodici i suoni della scala senza ripetizioni; una procedura che oggi immancabilmente suggerisce un’anticipazione del procedimento dodecafonico. Il Maestro Vincenzi accoglie l’accostamento di Scruton come un invito a esplorare in maniera sistematica – nei limiti di un breve intervento – i rapporti tra i due grandi musicisti. 

Liszt e Busoni in due immagini affiancate
Liszt e Busoni in due espressive immagini affiancate

Il quadro che ne risulta fa apparire tutt’altro che casuale la coincidenza richiamata dal filosofo inglese. Naturalmente non si tratta di rapporti personali: nella vita Busoni incontrò Liszt una sola volta, all’età di undici anni, portatovi dal padre ossessionato dall’idea di far conoscere il suo enfant prodige. Incontro prontamente rimosso dal giovanissimo musicista. Il quale, da adulto, preferirà sostituirlo con un incontro… prenatale: racconterà che la madre, Anna Weiss, pianista di una certa notorietà, almeno in un’occasione si era esibita nella casa romana di Liszt, col futuro compositore ancora in grembo. Ben altrimenti importante, la presenza del musicista ungherese, nella vita artistica di Busoni, sia nell’attività concertistica che in quella più propriamente creativa. Presenza documentata da Vincenzi minuziosamente, con scrupolo filologico. Senza entrare in dettagli tecnici, mi limiterò qui a riportare qualche osservazione.


 
busoni con la madre anna weiss

Busoni con la madre, la pianista Anna Busoni Weiss
(dal sito museoschmidl.it)

Nella visione busoniana della storia – scrive Vincenzi – “Liszt portava a compimento un periodo, aprendone allo stesso tempo un altro: recuperando la polifonia bachiana, la fondeva con le conquiste formali di Beethoven e con le scoperte timbriche di Chopin. Così facendo, Liszt preparava la strada allo stesso Busoni, che – ritornando a Bach e “trasfigurandolo” – chiudeva il cerchio”. Non fa meraviglia, quindi, che negli scritti del nostro musicista risulti attestata così spesso l’ammirazione – e riconoscenza – per il poliedrico, brillante musicista ottocentesco.  “Le opere di Liszt divennero la mia guida e mi dischiusero una conoscenza intimissima della sua scrittura” leggiamo tra le citazioni riportate nell’articolo; “sul suo specialissimo ‘periodare’ basai la mia ‘tecnica’: gratitudine e ammirazione mi resero allora Liszt maestro e amico”. E ancora:  “Liszt sta a fondamento di tutti gli edifici musicali moderni e, in quanto fondamento, è sepolto sotto terra e rimane invisibile”. Più sinteticamente: “In fin dei conti proveniamo tutti da lui”, come si legge nella lapidaria citazione posta a emblematica conclusione dell’articolo.

martedì, agosto 08, 2017

Salvadori, Prosecuzione e fine dell’Arlecchineide

Recensione a

 Silvano Salvadori, “Prosecuzione e fine dell’Arlecchineide: si riapra il sipario!”


in Busoni Arlecchino e il futurismo, Atti del Convegno, Empoli 13-14 marzo 2016, pp. 61-74 (v. Busoni Arlecchino e il f.).


Fatto un cenno al ruolo attivo da lui svolto – nella veste di Preside del Liceo scientifico “Il Pontormo” di Empoli – nel promuovere la magistrale traduzione della Zefferi (vedi) e la messa in scena del testo busoniano da parte degli studenti del Liceo, diretti dal prof. Lopez, Salvadori presenta brevemente caratteri e intenti dell’opera stessa. Osserva la quasi coincidenza di due dei personaggi principali (Arlecchino e Don Chisciotte) “nel ruolo di visionari che con sarcasmo smascherano i mali del mondo” e, sulle tracce di annotazioni diaristiche di Gottfried Galston, rivela la natura rigorosamente autobiografica della seconda scena.
Ricerca, poi, le “intenzioni morali dell’autore” passando in rassegna le singole scene. 

un quadro inquietante di raffaello busoni

Un quadro inquietante
di Raffaello Busoni, figlio del compositore
(dal volume degli Atti)

Nella prima troviamo Arlecchino in carcere, intento a ristabilire a modo suo la giustizia, architettando un inganno che darà libertà a lui ingiustamente condannato, mentre farà assegnare pene appropriate ai tre criminali che nella ‘prigione’ godono di trattamenti e privilegi che le persone oneste appena possono sognare. La seconda, “una scena tratteggiata da vero toscano incisivo, comico e tragico nelle fitte battute dei protagonisti”, è un impietoso ritratto della famiglia in cui il musicista vide la luce, con la rappresentazione di una madre affettuosa e remissiva e un padre che scambia il proprio egoismo per generosità verso la moglie e il figlio ‘prodigio’, non senza un sentimento di “pietà e comprensione anche per queste debolezze umane a cui persino un genio deve sottostare e rispondere per un dovere filiale”. Nella terza Arlecchino infrange allegramente la legge nel nobile intento di “devolvere le ricchezze, estorte con l’inganno all’avaro, al poeta povero”. Ma la parte dell’intervento più corposa – e, a mio avviso, più interessante – è dedicata alla lunga, densissima quarta scena. Lo studioso ne trascrive ampi stralci e affronta l’arduo compito di chiarirne, sezione per sezione, i complessi significati simbolici e di sciogliere il groviglio di riferimenti al clima politico e al dibattito culturale dell’epoca. Il lettore interessato a questo dissacrante volumetto busoniano troverà nella trattazione di Salvadori un guida esperta per aggirarsi senza smarrirsi in questa fittissima e intricata foresta di simboli. “Il linguaggio – osserva Salvadori – è degno di un manifesto futurista, durissimo nella denuncia di un’ingannevole modernità, ma rivolto non solo al passatismo, come denunciavano le avanguardie, ma anche contro il presente. Una condanna così lungimirante che oggi non ha perso alcuno smalto”.
Al suo contributo analitico Salvadori fa seguire una bella allocuzione lirica “Alla tomba di Busoni”, che si conclude con l’associazione di sé e di noi tutti alla busoniana deprecazione di tutte le guerre.

 tomba di ferruccio busoni
  
Tomba di Ferruccio Busoni
nel Cimitero di Friedenau a Berlinoe

(dal volume degli Atti)

  







lunedì, agosto 07, 2017

Traduzione italiana dell’Arlecchineide di Busoni




Recensione a



  
Monica Zefferi, “La prima traduzione italiana della seconda parte dell’Arlecchineïde di Ferruccio Busoni. Un libretto (quasi) sconosciuto”.

in Busoni Arlecchino e il futurismo, Atti del Convegno, Empoli 13-14 marzo 2016, pp. 75-92 (v. Busoni Arlecchino e il futurismo).



Il “libretto (quasi) sconosciuto” è un testo teatrale in tedesco, da Busoni pensato come continuazione di Arlecchino ovvero Le finestre, e lasciato, se non frammentario, certamente non rifinito, in una serie di fogli e foglietti manoscritti, incerto anche nel titolo, oscillante tra Arlecchino II, Harlekineide, Arlecchineïde. Nell’articolo qui recensito Monica Zefferi ce ne presenta la propria traduzione.

pagina del manoscritto dell'Arlecchineide di Busoni

Una pagina del manoscritto
(dall’edizione KWB della Traduzione)








Mette subito le mani avanti, la traduttrice, negando al suo lavoro ogni pretesa critico-filologica. Le ragioni di tanta prudenza (o modestia?) probabilmente vanno rintracciate nelle condizioni dell’autografo busoniano, affidato a fogli di fortuna e ricco di cancellature, modifiche, ripensamenti, e persino errori… In mancanza di un’edizione critica sicura, la traduzione è stata condotta su una trascrizione di mano di un amico di Busoni (Bruno Goetz), una trascrizione che… va oltre la “messa a pulito”. Fatte queste premesse, l’autrice inquadra brevemente il testo nella poetica del musicista empolese, scorgendo in questo esperimento un’anticipazione del brechtiano “teatro epico”. “I quadri autonomi delle quattro scene […] fanno appello alla ragione e non alla capacità empatica dello spettatore, in aperta polemica antinaturalistica, e invitando il pubblico a riflettere sull’argomento della rappresentazione”.


Interessante l’ipotesi avanzata dalla Zefferi per spiegare la mancata pubblicazione del testo da parte dell’autore. “Sarà stata probabilmente la critica sferzante e feroce a persone e fatti a lui contemporanei, non ultimo un quadro preciso e impietoso della sua famiglia d’origine, a indurlo, alla fine, a rinunciare alla pubblicazione, che poteva risultare imbarazzante”.

 
Arlecchino triste, particolare di affresco di G. Severini

Un Arlecchino… non proprio allegro e scanzonato

G. Severini, Particolare della Sala delle maschere
(per gentile concessione delle Gestione del Castello di Montegufoni, che ospita l’affresco)


Congettura suggestiva e probabilmente azzeccata. Ad essa, per parte mia, vorrei modestamente affiancarne un’altra, non alternativa bensì concomitante e additiva. Personalmente credo che la visione fosca del mondo e della storia, così crudamente espressa nell’Arlecchineide, sia largamente influenzata dalle circostanze storiche e personali del 1918, l’annus horribilis busoniano (su cui v. Rodoni), quello in cui la crisi esistenziale dell’uomo e del cittadino raggiunse il suo culmine. Ridimensionatesi, con la fine del conflitto e il ritorno nella patria d’elezione, le ragioni del profondo malessere, Busoni probabilmente ritenne che l’opera – o meglio le sezioni di essa finora elaborate – risentissero troppo immediatamente della situazione storica e biografica che ne avevano condizionato la travagliata gestazione. E, d’altra parte, preso com’era dall’urgenza di altri lavori (in particolare quel Doktor Faust, “opera capitale e di Stato”, alla quale attribuiva tanta importanza) probabilmente non trovò il tempo e l’entusiasmo necessari a un lavoro di rifinitura che le conferisse quel distacco, quella purezza di contenuto e quella forma che, al contrario di quanto pensavano alcuni suoi critici, Busoni riteneva consustanziali all’opera d’arte.




Copertina dell’edizione KWB della Traduzione



Un sezione non trascurabile dell’articolo è dedicata alla giustificazione dei criteri che hanno presieduto alla traduzione.
Nonostante le perplessità spesso sollevate sulla traducibilità dei testi poetici – soprattutto in rima – la Zefferi non ha ritenuto di sottrarsi alla responsabilità della traduzione di un testo poetico, senza rinunciare alla rima nei punti in cui l’originale la contiene. “La nostra scelta – spiega la traduttrice – corrisponde alla convinzione di una migliore aderenza allo spirito dell’autore, anche nel senso di una sua maggiore forza di penetrazione divulgativa e didattica. Ci siamo concentrati, inoltre, sul ritmo e sulla musicalità delle parole, senza mai stravolgere il significato del testo”. Lavoro molto impegnativo – aggiungiamo noi – condotto con la serietà attestata, tra l’altro, da qualche spunto di analisi formale presente in questo suo intervento, sufficiente a lasciare intravedere, alla base della traduzione, un attento studio delle caratteristiche formali del testo busoniano, considerate non in se stesse ma sempre in relazione alla loro funzione espressiva.
Pienamente condivisibile, infine, l’auspicio che qualche valente studioso metta mano all’edizione critica.







domenica, agosto 06, 2017

Rodoni, Implicazioni biografiche nell'elaborazione di Arlecchino di Busoni





Recensione a


Laureto Rodoni, “Implicazioni biografiche nell’elaborazione letteraria e musicale di Arlecchino”

in Busoni Arlecchino e il futurismo, Atti del Convegno, Empoli 13-14 marzo 2016, pp. 173-190 (v. Busoni Arlecchino e il futurismo). 



Chi vuole farsi un’idea precisa delle circostanze biografiche che stanno dietro il pessimismo beffardo dell’Arlecchino e, più ancora, dietro quello apocalittico dell’Arlecchineide, non ha che da leggere il saggio denso e ben documentato di Laureto Rodoni, titolare di un sito online interessantissimo per tutti gli argomenti del Convegno (e molto altro).


Busoni esule in Svizzera
ritratto da Boccioni circa due mesi prima di morire
(da rositour.it)

Sulla base dell’epistolario del compositore empolese, e con frequenti rinvii al proprio saggio Die gerade Linie ist unterbrochen. L’esilio di Busoni a Zurigo: 1915-1920, lo studioso svizzero ricostruisce le circostanze materiali e morali nelle quali maturarono i due testi dedicati al variopinto, proteiforme personaggio della commedia dell’arte. La sua ricostruzione – in particolare in relazione all’annus horribilis 1918 – proietta una luce cruda sulla genesi del nichilismo storico della quarta scena dell’Arlecchineide (prosecuzione e fine), non senza qualche sinistro riflesso anche sul precedente Arlecchino
 “Non avremmo avuto modo di sapere tutto ciò l’uno dell’altro, se la guerra non avesse scompaginato la vita di ognuno di noi” scrive amaramente Busoni al banchiere Albert Biolley, suo benefattore e ‘segretario’ a tempo perso, (che – more mercatorum – si era avventurato a dargli qualche suggerimento di natura economica, dall’artista giudicato gravemente lesivo della propria dignità). Certo è così (i momenti di crisi rivelano l’uomo). Personalmente, però, preferisco credere che il momento di grave prostrazione avesse un po’ preso la mano all’artista non meno che all’uomo. Leggiamo, dunque, gli sfoghi busoniani – ampiamente documentati nel saggio di Rodoni – in chiave positiva, come testimonianza di un uomo che, pur ferito, contro tutto e tutti si ostina a tenere lo sguardo pervicacemente dritto a un ideale di perfezione artistica assoluta, una sorta di prefigurazione, nel mondo reale, dell’ardore creativo e dell’eccezionale tensione innovatrice di Adrian Leverkühn. In fondo, da quella temperie nasce e si sviluppa anche l’incompiuto Doktor Faust, che, nelle intenzioni dell’autore, doveva risultare “opera capitale e di Stato”, realizzazione suprema del suo mondo spirituale quale si era venuto costituendo in una vita di studi e sperimentazione artistica.