venerdì, agosto 04, 2017

Riffero, Le metamorfosi di Arlecchino

Recensione a

“Le metamorfosi di Arlecchino. Esempi attraverso le creazioni di alcuni musicisti italiani del primo Novecento”

in Busoni Arlecchino e il futurismo, Atti del Convegno, Empoli 13-14 marzo 2016, pp. 131-156 (v. Busoni Arlecchino e il futurismo).
arlecchino (nino franchina) in un ritratto di gino severini
Arlecchino (Nino Franchina) in un ritratto di G. Severini (dal volume degli Atti)

Maria Cristina Riffero fa un’interessante rassegna delle varie riproposte delle maschere della Commedia dell'Arte nel teatro musicale del primo Novecento (non senza qualche ripescaggio più antico: si risale addirittura allo spassoso Amfiparnaso di Orazio Vecchi, ‘vecchio’ di più di 400 anni!). Si va dalle Maschere di Illica-Mascagni alla Morte delle maschere e al Finto Arlecchino di Malipiero, passando per le goldoniane Donne curiose e Vedova scaltra di Wolf-Ferrari, Le Furie di Arlecchino del suo giovane allievo Adriano Lualdi, Arlecchino o delle finestre di Busoni, La donna serpente di Casella, per finire col balletto Deliciae populi che Aurelio Milloss trasse dalla Scarlattiana, sempre di Casella. E non manca, verso la fine del saggio, un recupero retrospettivo del Carillon magico di Pick-Mangiagalli e Pagliacci di Leoncavallo.
In particolare la Riffero studia ed enumera le metamorfosi via via subite da Arlecchino: dal “fenomeno a due musi” di Illica e Mascagni (la maschera dà nobiltà e coerenza a un volto variabile secondo le circostanze e le convenienze), al goldoniano campione della “poetica del sì” (a dire sempre di sì si dà gusto a tutti. / Sempre di sì finché vivrò), che nella versione musicale delle Donne curiose assume un ruolo di maggiore importanza, ben appropriato all’etica del personaggio; dal “servo a metamorfosi che sa quel che si fa” della Vedova scaltra (ancora di Wolf-Ferrari) all’“istrione poliedrico” – ma sempre “fedele a se stesso” – di Busoni. E ancora: dall’Arlecchino “vittima della fame” ma ricco di risorse e capace di trovare, in ogni circostanza, una qualche via di fuga (La morte delle maschere, di Malipiero) al “travestimento di un gentiluomo che vuole conquistare, e vi riesce, la sua dama” (Il finto Arlecchino, dello stesso), all’analogo ruolo nel balletto Convento veneziano di Casella. Quanto lontano, ormai, questo Arlecchino novecentesco, dal buffo personaggio dei Pagliacci di Leoncavallo (orgogliosi, lui e la sua Ghiotta Colombina, di un amore vissuto tra “gli effluvi del vin de la cucina”). Quanto diverso da quello di Mascagni, ossessionato dal cibo tanto da vivere in termini culinari anche il non stilnovistico amore per la sua nobile Colombina De Cucina, alla quale dichiara i propri ardori in termini consoni all’ambiente: “Io t’amo pollastrella grassa e snella! / Il colmo busto è tutto una cucina”, ecc. ecc.!

Arlecchino Nappa e Tartaglia

Arlecchino, Nappa e Tartaglia, di G. Severini
(per gentile concessione della Gestione del Castello di Montegufoni che ospita l'affresco)

E, giacché ci siamo, permettetemi di soffermarmi ancora qualche istante su quest’ultima composizione, Le Machere di Illica e Mascagni, opera che, pur con tutti i suoi innegabili difetti, a me sembra immeritatamente messa in disparte.
Come si sa, la presentazione dell’opera fu, dal punto di vista commerciale, preparata con ogni cura. Per dare maggior risalto all’atteso trionfo, la prima fu programmata in contemporanea in ben sette teatri: Roma, Milano, Torino, Venezia, Genova, Verona (17 gennaio 1901) e Napoli (19 gennaio). Ma l’esito fu deludente, con la sola eccezione del Costanzi di Roma, dove l’opera fu diretta dall’Autore.
Di questo parziale ma clamoroso insuccesso la Riffero dà una spiegazione diversa da quella proposta da Fontanelli (v. post del 31.7.17).
“Il pubblico dei teatri d’Italia va all’opera per ascoltare musica, non per ascoltare le parti recitate” scrive la studiosa torinese. “Uno spettacolo musicale, con parti recitate, per l’Italia d’inizio secolo, era difficile da proporre e com’era prevedibile Le Maschere non riesce ad avere successo”. Inoltre – aggiunge – in qualche caso lo scarso entusiasmo degli spettatori può spiegarsi col sospetto di poco gradite allusioni politiche.  Così quel pubblico che aveva universalmente apprezzato la scena tra Arlecchino e Colombina per la vivacità dei personaggi, aveva mostrato freddezza verso la scena tra Arlecchino e il Capitano. Ma – vorrei modestamente osservare – in quella scena l’allusione politica non è soltanto un sospetto: c’è, e anche pesante; anzi, più che un’allusione, è un evidente sberleffo alle idee socialisteggianti di fine Ottocento: “...no... questo non mi pare naturale,/ (dice Arlecchino) a men che non sia nata la Befana / sognata dalla nova razza umana, / chiamata, credo, Uguaglianza Sociale!”. E non è l'unico passo, anche se certo è quello più esplicito. Che poi si tratti di critica epidermica (parlare di satira politica sarebbe davvero improprio), questo è un altro discorso.
severini, scena per un balletto con musiche dalla Scarlattiana di Casella
G. Severini, Scena per un balletto con musiche dalla Scarlattiana di Casella (dal volume degli Atti)

In ogni caso, questo della Riffero è un saggio interessante e denso di notizie e osservazioni. E un plauso particolare le spetta anche per aver dato il giusto rilievo all’opera di Gino Severini in veste di scenografo e costumista, particolarmente attivo proprio nel campo delle maschere.






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