sabato, dicembre 15, 2018

La Medusa di Bruno Barilli: invito all’ascolto






nave a vela inquadrata tra due edifici
“Quieto luminoso mattino”
canta Veniero
(scena dall'edizione napoletana del 1940)



Presentazione

In questo articolo, dopo una breve premessa su  ascendenze e novità della musica barilliana, vorrei condividere qualche non arbitraria impressione d’ascolto, e qualche spunto interpretativo, libero ognuno di accoglierli e svilupparli in proprio, o di rifiutarli sostituendovene altri.
Varrà questo a invogliarvi a farne esperienza personale? Lo spero. Perché ne vale la pena. Barilli non ha certo la statura musicale di un Verdi, o di un Wagner, ma Medusa è un’opera nuova e, diversamente da tanti celebrati esperimenti avanguardistici, completamente godibile anche da non musicisti come noi. Solo vorrei avvertirvi di non fermarvi alle impressioni del primo ascolto. Non è opera di fascino immediato. Non troviamo qui né i pezzi chiusi cui ci aveva abituati il melodramma tradizionale, né le espansioni liriche delle romanze “veriste”. Gli spunti melodici non mancano certo, ma in generale si esauriscono in poche battute. E anche l’impiego dell’orchestra, benché l’autore si avventuri nella selva degli accordi con qualche timidezza, risulta nuovo, specialmente nella ricerca timbrica. Ma basta ascoltarla un paio di volte e ci si appassiona.

Dove ascoltarla?
Ricordate quella riedizione Rai che il povero Barilli non arrivò ad ascoltare? Fu registrata il 26 luglio 1952 negli studi della Rai di Milano, diretta da Alfredo Simonetto. La trovate su Youtube. La qualità tecnica non è elevata; e c’è anche una ripetizione: a 45:27 la registrazione torna indietro, riprendendo da 43:07 (chi ha operato la giunzione è stato tratto in inganno dall’esclamazione “O follia di tutti i sensi” – 45:27 – confusa con “O follia dei miei sensi” – 43:07 –).  Ciò nulla toglie al merito del baritono Allan Rizzetti che l’ha messa in rete, al quale va il mio cordiale ringraziamento.

Ascendenze e novità della musica barilliana

Barilli, in un ritratto di M. Campigli
Bruno Barilli

(Massimo Campigli, 1928)
“Quando il maestro è Mottl e l’allievo è uno come me, è chiaro che ne verrà fuori qualcosa come Medusa”, riconosce Barilli. Ed è riconoscimento non da poco per uno che, pur non potendo disconoscere la grandezza e l’importanza di Wagner, non aveva nascosto la propria antipatia per la sua ingombrante presenza nella musica italiana, prima direttamente, poi via Strauss, piombatoci addosso “come un post scriptum di Wagner”, quando Puccini e Mascagni ce ne avevano a malapena liberati.
Felix Mottl, l’amato maestro degli anni monacensi (v. Barilli musicista), era infatti uno dei più ardenti wagneriani. Al punto da cadere “fulminato ai piedi dell’altare” del Tristano, come annota Barilli (e non è un modo di dire: Mottl morì in seguito a un attacco di cuore sopravvenuto proprio mentre dirigeva la sua centesima esecuzione del Tristano!). Nessuna meraviglia, dunque, se nella Medusa barilliana qualche traccia del disamato Wagner ce la troviamo.

“Il plastico tema sbalzato sulle prime nude battute di Medusa, alcuni andamenti e positure degli archi scoperti, il ricorso dei motivi e quell’intervallare spazioso e profondo del declamato risentono le influenze inevitabili dell’atmosfera nordica”, scriveva Abbiati all’indomani della prima bergamasca. Ma non è solo questo.
A Wagner, direttamente o indirettamente, va ricondotta anzitutto l’adozione della tecnica della “melodia infinita”, con l’esclusione non solo dei numeri chiusi cari al melodramma ottocentesco (tanto più significativa in un fervente ammiratore di Verdi qual era il nostro), ma anche delle espansioni liriche presenti in Puccini e negli altri esponenti della “giovane scuola”. Come lo è il ricorrere – identici o variati – di alcuni temi, sia pure senza la specifica funzione wagneriana; e non solo “l’intervallare spazioso e profondo del declamato” (così diverso da quello corrente all’epoca, che si muoveva prevalentemente dal registro centrale a quello acuto), ma anche quella che chiamerei dilatazione enfatica, cioè una durata particolarmente protratta della nota che intona sillabe di parole molto importanti; diversa, dunque, dalle note a corona (dilatazioni retoriche, le chiamerei) messe lì a servizio del virtuosismo e vanità dei cantanti, per strappare l’applauso irrefrenabile di platea e loggione all’unisono.

E allora – direte – come si concilia tutto questo, non tanto con la dichiarata antipatia per l’esorbitante presenza di Wagner nella musica italiana, ma soprattutto con la insistita pretesa di una Medusa fattasi “da per sé”. “Io assistevo e registravo, come un cronista musicale, dall’orecchio attento e chiarissimo, – scrivevo sotto dettatura, e alle volte la suonavo d’emblée. Sarà stato senz’altro così. Solo che il ‘dettatore’ altri non era che l’io profondo del Barilli, quale si era venuto configurando anche attraverso l’assimilazione degli esempi e insegnamenti del wagneriano Felix Mottl.

La Medusa alla prova dell’ascolto:
 a) un’impressione di incongruenza

Al primo ascolto si rimane perplessi, per non dire confusi. Si ha la strana impressione  che in alcuni punti l’orchestra contraddica il personaggio.
Prendiamo, per esempio, il racconto ‘autobiografico’ di Medusa. È forse l’unica occasione offerta dal testo poetico alla ‘romanza’, e immagino cosa ne sarebbe uscito dalle mani di un Mascagni, per non dire di Puccini! Invece Barilli ne dà una versione piuttosto monotona nella prima parte, lo interrompe violentemente con l’accenno al simùm, cui segue lo splendido intervento del coro evocatore della vastità del foscoliano “regno ampio dei venti”, per poi riprenderlo con enfasi accentuata. Ma c’è qualcosa che non torna.
Quando Medusa giunge alla fine della prima parte (“dove ampio in fra i palmizii trascorre il pio Giordan”) il flauto sottoscrive con un paio di svolazzi che hanno l’aria di uno sberleffo d’incredulità, rafforzata dalle note profonde dei contrabbassi. E quando si giunge al provvidenziale vascello, l’orchestra gonfia il racconto di enfasi caricaturale.  Analoga impressione in non pochi altri casi. All’inizio del secondo atto, poi, sono gli stessi lamenti delle due spose dimenticate ad essere intonati in maniera… poco convincente. Che succede dunque? Il musicista irride i suoi stessi personaggi che vivono (o dovrebbero) una storia tragica? Sembra proprio di sì... Andiamo alla conclusione del secondo atto.

Siamo all’apice del dramma. Il duetto d’amore sta per concludersi. È il momento del commiato, e Medusa reclama ancora un bacio. Un bacio lungo, abilmente sostenuto e commentato dall’orchestra. Dopo le note sospese a mezz’aria (che avevano accompagnato anche il bacio precedente), da una volata ascendente del clarinetto fiorisce una breve melodia affidata principalmente all’oboe: una melodia dal timbro natalizio (almeno per me), ma triste, come un Natale misero, senza festa e senza luci. Che significa, qui? Che Stefan, nell’ebbrezza della passione si sente tornato all’innocenza infantile? O non piuttosto la sensazione opposta, la consapevolezza, nell’adulto, dell'impossibilità di un ritorno all’innocenza delle gioie infantili? (Ad ogni modo è un motivo che riudremo tra poco, in un contesto ben diverso). Ma improvvisamente l’orchestra “cambia metro”: Medusa si è frettolosamente svincolata dall’abbraccio ed è fuggita, lasciando l’amante “come s’ei fosse ridesto da un sonno profondo”. Le ruvide arcate dei violoncelli evocano il balzare di Orso fuori dal nascondiglio: l’orchestra poi, con ritmo sempre più incalzante e concitato, ne segue le falcate, gonfia e sottolinea la drammaticità della situazione anche col ricorso a dissonanze stridenti, veri gridi anticipatori di quello lacerante di Stefan colpito a morte. Tornano le ruvide note degli archi; da esse si stacca una triste volata del clarinetto che dà avvio alla voce piagnucolosa di Orestella.
Il pianto di Orestella non convince, ma la situazione è indubbiamente tragica. E il commento? Più che all’orchestra è affidato al coro. L’“ohimè!” della disperata viene troncato e sommerso da un coro di soldati ubriachi, dove la sguaiataggine delle parole è resa ancora più evidente dalla musica e dalle modalità d’esecuzione. “O Rossana, se ti vai a confessar, tu le calze non mostrar”!
L’ascoltatore ne resta stravolto. A chi è rivolto quel dileggio? Alla povera neovedova? Non so se andasse a confessarsi, ma so di certo che di mostrar le calze la povera Orestella neppure se lo sognava. Si riode il suo lamento, cui ora si aggiunge quello della non meno casta Aglauris. E di nuovo il coro riprende il suo sarcasmo, assecondato da un’orchestra impietosa: corno e legni sembrano fare il verso, agli ohimè delle due donne fanno eco guaiti di cuccioli... Finché un energico intervento dei timpani tronca i lamenti, seguito da un trillo che smuore nel silenzio del crepuscolo. Rintocchi di campana segnano l’Avemaria. O annunciano la morte di Stefan? Tutto ripiomba nel silenzio, da cui ti aspetteresti il levarsi di un pianto funebre. “O Rossana”, più sguaiata che mai intona la voce del corifeo, presto ripresa dai suoi compari: “Vuoi far penitenza o no? Vuoi sposare Belzebù?” L’orchestra accompagna, con comica solennità, cantando all’unisono e ribattendo le note, mentre corni e legni s’incaricano degli sberleffi. “Se ti vai a confessar, tu le calze non mostrar…” Ancora! “Presto, è Pasqua e si desta Gesù; è Pasqua: praticare dovrai la virtù! Uh… uh!”.  Ed ecco, in mezzo a tanta volgarità, riemergere la tenera melodia, che a me risuona con timbro natalizio.
Questa, a mio modesto avviso, sarebbe la naturale conclusione dell'atto. Invece entra in scena Troilo che chiede alla forestiera notizie del fratello, col séguito che già conosciamo: Medusa dà inizio alla non difficile opera di seduzione, ed ecco, ancora una volta, la scanzonata ammonizione: “O Rossana…”, con quel che segue.

Il critico musicale che si cela dietro la sigla dr. p., nella recensione alla prima bergamasca, rileva la stranezza di questi interventi e li tratta come una bizzarria, un espediente, una trovata efficace. No, non è una trovata d’effetto. E se lo fosse, sarebbe artisticamente deleteria, data la contraddizione di toni, malamente giustificata dalla volontà di concludere l’atto “in modo suggestivo”. Forse c’è un’altra spiegazione.

b) l’idea centrale del dramma

Il coro rileva in Rossana una contraddizione: si va a confessare (dunque è animata dalle migliori intenzioni!), ma poi nella vita assume atteggiamenti incoerenti, non sa resistere alla tentazione…
Ma Rossana non è un personaggio del dramma. Dunque è qui inserita a modo di parabola. Ma chi è? Chi rappresenta? A mio modo di vedere, è Stefan, è Orso, Troilo, Veniero, Aglauris, Orestella… È l’umanità colta nella sua fragilità di fronte alle passioni. Con essa Barilli intende denunciare l’impossibilità di quella coerenza che la ragione esigerebbe; l’insanabile irrazionalità dell’uomo in balìa della passione. (“Marionette, che passione!” scriverà tra qualche anno Rosso di San Secondo). È come se, di fronte a quell’orribile fratricidio indotto dalla passione amorosa, si levasse d’un tratto la sagoma alta e allampanata del Barilli, in atto di additarci quel cadavere e, la bocca deformata da un ghigno amaro, gridarci: “Ecco, guardate là, voi che vi riempite la bocca di razionalità, principi morali ecc. ecc.!”.

E se il secondo atto si chiude con la riedizione del coro di ubriachi (in vino veritas!), non è perché il maestro voglia concludere “in modo suggestivo”. Osserviamo bene. Medusa ha appena informato Troilo della fine del fratello, e al grido di orrore del giovane reagisce con una ripugnante profferta d’amore. “Il fratel mio morì”… - risponde, logicamente, l’interessato. Troilo mostra dunque di vedere la mostruosità della proposta, e le sue intenzioni sono ispirate a razionalità, coerenti con la situazione. Eppure basta qualche moina, e la donna se lo porta, docile e sottomesso, “nei suoi appartamenti”. Che può fare il coro se non riadditare l’esempio di quella sventata di Rossana?

L’idea centrale del dramma, quale l’ha rivissuto il musicista, è dunque la tragicommedia dell’amore; l’uomo zimbello della passione amorosa; ragione, religione, princìpi… pannicelli caldi, che non correggono la radicale irrazionalità dell’uomo. Ed è questo scetticismo di fondo, a mio parere, che spiega anche i ripetuti interventi dell’orchestra in contrasto con quanto detto o fatto dai personaggi.
Ottone Schanzer anticipatore del teatro del grottesco? Mah, diciamo che l’effetto descritto è dovuto principalmente alla musica. Tuttavia è innegabile che il coro degli ubriachi offre al compositore un’ottima base. A meno che l’idea non sia stata suggerita dal musicista (a volte càpita), questo è un punto che riscatta, almeno in parte, un libretto per altri versi piuttosto scadente. E fa di Schanzer un (forse inconsapevole) precursore del teatro del grottesco.
Certo è che quest’opera di Barilli, di questo compositore così alieno dalle avanguardie ma – molto significativamente – grande estimatore di Stravinskij, rivela non pochi punti di contatto con certa arte figurativa coeva.

c) qualcosa si salva

Scetticismo, sfiducia nella razionalità umana; e sfiducia nei sentimenti, quando essi degenerino in passione. Ma – attenzione! – ridicoli, per Barilli, sono gli inani tentativi di contrastare gli impulsi profondi, non già la passione in se stessa. Che è cosa tremendamente seria, se può portare al delitto e alla morte.

Barilli al pianoforte, ritratto dal fratello Latino
E lavoravo, lavoravo senza contar più l’ore.
Le bugie del pianoforte filtravan raggi di zolfo…
(il compositore, ritratto dal fratello Latino, 1912)
Questo spiega la sincerità e l’ardore dei duetti. In particolare di quello tra Stefan e Medusa, sviluppato nel secondo atto, ma di fatto iniziato già nel primo. È un duetto particolarmente caro all’autore. A esso, in particolare, si riferisce lo squarcio lirico accennato nel post su Barilli musicista. “Palermo ai miei piedi avvampava d’effluvî stupefacenti. L’etere, che hanno i boschetti di mandarini, veniva su a soffocarmi”, ricorda commosso il compositore. “E lavoravo, lavoravo senza contar più l’ore. Le bugie del pianoforte filtravan raggi di zolfo attraverso le mie dita e i miei capelli; e su me, che suonavo sollevato come una vela da una gonfiezza lirica, parevan curvarsi i lauri e i gelsomini in fiore. […] È la Sicilia che mi dettò tutte quelle strane armonie in anticipo. E il suo cielo rimescolato fu il mio suggeritore.

Vediamolo dunque più da vicino questo ardente duetto che scavalca la cesura dell’atto prolungandosi fino alla naturale conclusione del secondo.

Medusa “richiude i suoi doni” annota la didascalia, e “tutti vanno nelle loro stanze”. Non proprio tutti. Orestella attende il braccio del marito e, vedendo che non si muove, quasi per un triste presentimento, “Vien!” lo esorta con insolito affetto. “Non vuoi tu, mio Stefan?”. È un momento solenne: il momento delle scelte fatali. L’uomo esita (le note sospese dell’orchestra sembrano seguire il monotono andirivieni dei suoi pensieri in un ambito molto stretto). Poi prende una risoluzione. Ce ne avverte l’orchestra intera, con un impressionante unisono, marcato dalla secca percussione del timpano. “No, io resto” è l’asciutto responso: ‘parlato’, solenne, lugubre. Orestella si allontana “affranta e umiliata”, accompagnata da una melodia mesta, punteggiata da frammenti del motivo del mare che ha portato la creatura rovinosa. Più che nelle parole che dice, Orestella vive qui, in questa mesta ritirata di donna sconfitta, scandita da legni ed archi; e nella melodia che dai violini si leva alta e solenne a esprimerne l’inesprimibile struggimento interiore.


scena dall'atto I, ediz. napoletana del 1940
Medusa presenta i suoi doni
(edizione napoletana del 1940)

Altri pensieri frastornano la mente dello sposo immemore, e li preannuncia l’orchestra con quell’improvviso risuonare delle carezzevoli note dell’arpa. “Alfin sei tu!”, esclama sorpreso, ancora incredulo. Sì, è lei. La donna ideale, la donna sognata “negli abissi del tempo”, ecco, si è miracolosamente materializzata, quando l’uomo non ci sperava più, e ha i tratti di Medusa! È la passione che crea l’immagine, o l’immagine che suscita la passione? Passione improvvisa, inesorabile. “Medusa, pietà di me! Perduto io sono, amor…” risuona l’implorazione suggerita dal doloroso spunto dell’oboe, ed enfatizzata dal sostegno degli archi. Poi, verso la conclusione della scena, la splendida ripresa da parte di Medusa di “La notte vien”, motivo già intonato da Stefan, concluso dal clarinetto, su cui l’oboe innesta la sua struggente melodia che commenta discretamente il lunghissimo bacio degli amanti…

d) i sentimenti positivi

Dall’azione corrosiva dello scetticismo di Barilli si salvano, poi, alcuni sentimenti positivi, non a caso destinati a soccombere. Primi fra tutti i tranquilli affetti familiari, proprio quelli che Barilli non seppe coltivare adeguatamente e di cui sente la mancanza nella sua vita di eterno bohémien.

Il casto amore coniugale di Aglauris, per esempio. 

Al colmo del suo trionfo (siamo nell’atto terzo), Medusa ricanta, con raffinata crudeltà, il solito tormentone (“Lungi diman trarrammi il cieco destino!”), gettando nel panico il povero Troilo, ormai irretito senza scampo. “Perduto son io…” esclama disperato. “Morte sol mi può salvar…”. E riecco la soldataglia ubriaca, che credevamo ormai definitivamente sparita. “O Rossana...” È il solito coro, ma canta allontanandosi, diremmo ‘battendo in ritirata’. L'atmosfera è totalmente cambiata. Nulla, o quasi, resta della sguaiataggine beffarda di prima. La derisione amara ha lasciato il posto alla triste rassegnazione di chi, suo malgrado, deve costatare che non ci’è rimedio… “Vanno ciechi al destin che entrambi avvincerà”! Era stato proprio Troilo a dirlo, con riferimento al fratello; ed ora tocca a lui. Il ghigno sarcastico di Barilli cede il posto alla pietà. Pietà, appunto, invoca la sposa tradita nella scena che si apre. Sul piano musicale Aglauris diventa un personaggio di primo piano proprio qui, quando cerca disperatamente di salvare questo suo amore, contro le seduzioni della rivale e la perdizione del marito. Con quanta disperata energia grida allo smemorato sposo “Io sono Aglauris!”. La musica qui davvero s’innalza al livello della tragedia e ci fa dimenticare le ingenuità e goffaggini del libretto.

Poi l’amore paterno

L’atto terzo si apre con i ripetuti, strazianti richiami fuoriscena del vecchio Veniero – Stefan! – destinati a cadere nel vuoto, senza nemmeno un’eco. E li riudremo, poi, a più riprese, intervallati da episodi orchestrali e scenici, sempre più strazianti e desolati. Come non ricordare gli altrettanto vani richiami del conte Ugolino?  “… ond’io mi diedi, / già cieco, a brancolar sovra ciascuno, / e due dì li chiamai, poi che fur morti…”.   E un’altra immagine tragica si proietta davanti a noi: quella, pietosa e spettrale, dello stesso Barilli, nei tardi anni quaranta,  girovago solitario per le vie di Roma con una misteriosa scatola di metallo sotto il montgomery. “Cosa c’è là dentro?” chiedevano, ignari, gli amici. “Mia figlia”, la folgorante risposta. C’erano le ceneri di Milena, la figlia morta trentaseienne nella lontana America.

e) il coro

Del coro abbiamo visto la funzione fondamentale nell’offrirci un’interessante chiave di lettura del dramma. Ma a esso il musicista assegna anche altri ruoli, principalmente quello onomatopeico, descrittivo o, meglio, evocativo.
Non so se Barilli conoscesse il terzo “Notturno” di Debussy – quello che all’orchestra affianca il coro delle Sirene – eseguito per la prima volta nel 1901. È comunque indiscutibile l’originalità della partitura barilliana. Se i vocalizzi debussyani evocavano il “canto misterioso delle Sirene”, quelli del coro della Medusa – li riudiamo più volte nel corso dell’opera – evocano, in concorso con l’orchestra, da un lato la natura selvaggia del mare, espressa dall’urto fragoroso dei frangenti sugli scogli, e dall’altro una sensazione di vastità sterminata e ignota (il “regno ampio dei venti”), misteriosa e inquietante.
E, per non dilungarmi ulteriormente, andrò direttamente alla conclusione, all’incendio appiccato da Orso. Ascoltate attentamente: grazie alla collaborazione di coro e orchestra la conflagrazione si materializzerà sotto i vostri occhi in bagliori improvvisi, propagazione di fiamme, crepitante brulicare di fuochi, tonfi, crolli, caos…
A riportare l’ordine della rasserenante bellezza ci pensa infine l’orchestra, con un robusto accordo sulla tonica di si bemolle maggiore.           

E su questo rassicurante accordo vi lascio, fiducioso che di questa misconosciuta, splendida opera vorrete fare personale esperienza.

Sicilia:gelsomini in fiore
Sicilia:gelsomini in fiore
(peccato che la foto che non ne trasmetta gli effluvî!)




Riconoscimenti:
-          scena edizione napoletana: foto (ritoccata) dell’Istituto Luce;
-          seconda scena edizione napoletana: fotogramma (ritoccato) dal documentario “Casa Barilli”;
-          proprietaria del ritratto di Campigli è la Galleria Ricci Oddi di Piacenza.