venerdì, giugno 28, 2019

Humanitas 2 - un nuovo stile di vita


 

generale romano su carro di trionfo trainato da cavalli
Trionfo di Emilio Paolo
in un fastoso dipinto (part.) di Carle Vernet (1758-1836).
La coppa esibita dai portatori fa parte del bottino.
Più significativa sarebbe stata l’esibizione dei molti rotoli di papiro
sottratti alla biblioteca del vinto re macedone

Nel post scorso (humanitas1) abbiamo delineato l’ideale di vita del cittadino romano arcaico, il mos maiorum. In questo ci occuperemo di un nuovo modello d'esistenza, profondamente influenzato dalla cultura greca ma senza rinunciare a un nucleo forte di romanità. Ne seguiremo lo sviluppo dai primi segni, all’elaborazione nell’ambito del Circolo degli Scipioni, alla sua affermazione in tutta la ricchezza di significati, alcuni dei quali oggi attuali più che mai.

Gli inizi

Il passaggio dal mos maiorum all’ideale di humanitas fu lento e contrastato.
Tra i primi innovatori è un esponente della gens Livia, Livio Salinatore (III sec. a.C.), che, tra lo stupore scandalizzato dei tradizionalisti – un cittadino romano riteneva di propria esclusiva pertinenza l’educazione dei figli maschi – affidò l’istruzione dei suoi figli proprio a uno schiavo greco di origine tarantina, quell’Andronìco che, affrancato, ne prese il nome gentilizio, ne imparò la lingua, e dette inizio alla letteratura latina.
Successivamente la palma del filellenismo passò a un’altra importantissima famiglia aristocratica, quella cui apparteneva P. Cornelio Scipione l’Africano, il vincitore di Annibale. Gli Scipioni, pur senza nulla rinnegare della sostanza del modello di vita romano, promuovono una politica culturale largamente favorevole ad aperture alla cultura greca. Interprete geniale di questa linea politica si rivelò uno scrittore proveniente dall’Italia meridionale e attratto nell’orbita degli Scipioni, Quinto Ennio.
La tendenza filellenica finì per contagiare altri esponenti della cerchia aristocratica romana. L. Emilio Paolo, pur curando in proprio l’educazione dei figli secondo l’ideale del mos maiorum, la arricchisce con contenuti nuovi, affidandoli a una schiera di maestri greci: filosofi, grammatici, retori, scultori, pittori, addestratori di cavalli, maestri di caccia, addestratori di cani... Non solo: vinto a Pidna il re di Macedonia Perseo (168 a.C.), porta a Roma, tra l’altro bottino di guerra, una preda di nuovo genere, la ricchissima biblioteca del re sconfitto, e la mette a disposizione dei propri figli.
Ma la “preda” più preziosa si rivelò Polibio di Megalopoli. Ritenuto tra i responsabili della Lega Achea, ostile ai Romani, era stato portato a Roma (167 a.C.) per esservi processato. Ma il processo non ebbe luogo, e Polibio ben presto si guadagnò la stima e la fiducia del vincitore, tanto da diventarne ospite fisso, ammirato e venerato come maestro dai figli, in particolare dal più giovane, noto in seguito col nome di Publio Cornelio Scipione Emiliano per intervenuta adozione da parte di Scipione, figlio del vincitore vincitore di Annibale. E sarà proprio dal gruppo di giovani aristocratici raccolti intorno all’Emiliano che coagulerà il cosiddetto Circolo degli Scipioni, un sodalizio nel cui ambito saranno definitivamente superati i pregiudizi antiellenici e si darà il via a un particolare tipo di cultura che possiamo a buon diritto definire greco-romana.   .


Il Circolo degli Scipioni


Parlare di ‘circolo’ in questo caso è, probabilmente, un po’ esagerato e anacronistico. Cicerone, che quel sodalizio idealizza circa un secolo dopo, si riferisce ad esso mediante il vocabolo grex (letteralmente ‘gregge’), parola spesso usata metaforicamente per significare ‘schiera’, ‘gruppo’, ‘compagnia’, ‘gruppo di amici’. Il ‘Circolo degli Scipioni’, dunque, altro non è che un sodalizio di amici che condividevano un nucleo di idee e di atteggiamenti mentali e pratici, e che aveva nell’Emiliano la personalità di maggiore prestigio sociale e politico se non propriamente culturale.

L’importanza culturale del Circolo degli Scipioni sta nel fatto che assunse “una posizione di punta nel promuovere l’assimilazione da parte dei Romani di certi aspetti fondamentali della cultura greca e nel porre così le basi di un originale amalgama tra le due civiltà” (B. Gentili). Nell’ambito di esso furono elaborati idee e valori destinati a ulteriori sviluppi e, in parte, a entrare nel patrimonio della nostra cultura. Idee e valori che possiamo schematizzare come segue:
1.      la giustificazione teoretica dell’imperialismo romano e l’individuazione di una ‘missione universale di Roma’;
2.      una nuova concezione dell’uomo, della sua dignità, dei suoi valori, che possiamo sintetizzare nel concetto di humanitas.

La giustificazione teoretica dell’imperialismo romano si deve principalmente a Polibio e al filosofo stoico Panezio. L’uno e l’altro lo fanno con profonda convinzione, in base a ragioni nient’affatto spregevoli, anche se in tempi moderni non manca chi ne ha fatto uso strumentale, provocando un discredito non sempre giustificato. In ogni caso, esso è marginale rispetto al nostro tema e, per amore di brevità, dobbiamo lasciarlo da parte.


tre pannelli marmorei figurati: flautista nuda seduta, personaggio femminile emergente, donna velata intenta a bruciar profumi

Il riconoscimento della grandezza della cultura greca da parte dei Romani

accrebbe il prestigio dei Greci, ma ebbe per loro anche conseguenze sgradevoli, 
prima fra tutte il saccheggio di splendide opere d’arte.

Ne fece le spese, tra gli altri, Locri Epizefirii, che sorgeva nei pressi dell’odierna Locri, in provincia di RC.

Provengono quasi certamente dal tempio di Marasà (Locri) i tre pezzi costituenti il  cosiddetto Trono Ludovisi

oggi al Palazzo Altemps di Roma.

Qui li  ho riaccostati in piano in una specie di “sviluppo geometrico”:

immaginare le due facce laterali richiuse a 90° verso l’interno, la sin. verso destra e viceversa.

Secondo gli esperti la figura centrale dovrebbe rappresentare Afrodite nell’atto di sorgere dal mare, mentre le figure laterali rappresenterebbero l’Amore sacro e l’Amore profano.
Humanitas

Più complessa e feconda la nozione di humanitas, che implica una nuova visione dell’uomo e dei rapporti umani.

a) humanitas = philanthropìa, cioè solidarietà verso gli uomini, comprensione, mitezza, affabilità…

All’inizio, probabilmente, tale vocabolo designa semplicemente un modo di sentire l’uomo e i rapporti umani estraneo alla tradizionale mentalità latina, ‘importato’ dalla Grecia. Più precisamente si tratta di quel particolare atteggiamento dell’uomo verso i propri simili – fatto di solidarietà, di umana comprensione, cortesia, amabilità, mitezza – elaborato nell’ambito della raffinata società ateniese del IV sec. a.C., e che ritroviamo nei personaggi di Menandro, commediografo ateniese che tanta influenza ebbe sul commediografo latino Terenzio. Una testimonianza di come uomini di cultura greca cercassero di diffondere tra i Romani questi sentimenti, per loro nuovi, ci è offerta da Polibio. In un passo autobiografico delle sue Storie egli ricorda che, nei primi tempi della sua forzata permanenza a Roma, l’Emiliano, allora diciottenne, lamentò l’impressione di essere un po’ trascurato da lui e aggiunse: “Evidentemente anche tu pensi di me ciò che pensano gli altri miei concittadini: tutti, a quanto sento dire, mi ritengono troppo pigro e tranquillo (…) Dicono inoltre che la mia famiglia non ha bisogno di siffatti rappresentanti, ma di uomini attivi ed energici, e ciò mi addolora molto”.  E Polibio, tra l’altro, risponde: “Mi compiaccio di sentire da te che ti ritieni più mite di quanto non si convenga ai discendenti della tua famiglia: è segno di magnanimità” (trad. di C. Schick).
Ecco, dunque, una nuova virtù, destinata ad essere acquisita nella successiva mentalità romana: la greca megalopsychìa, la magnanimitas, la ‘grandezza d’animo’ di colui che sa essere mite e generoso con i propri simili. Cito un solo esempio letterario: nella commedia di Terenzio Il punitore di sé stesso troviamo un personaggio che, impietosito dell’atteggiamento autopunitivo del suo vicino, gliene chiede le ragioni. Alla rude risposta di badare ai fatti propri, il buon Cremete risponde: “Homo sum; humani nil a me alienum puto” (“Sono un uomo, e perciò ritengo che nulla di ciò che è umano mi sia estraneo”; cioè: “ciò che è un problema per i miei simili lo è anche per me”!).    
La commedia di Terenzio (da certi malevoli considerato niente più che un prestanome dello stesso Emiliano, suo amico e protettore) testimonia che siffatti sentimenti e atteggiamenti, invisi ai tradizionalisti, erano ben apprezzati nella cerchia scipionica.
   

b) nobiltà e fratellanza degli esseri umani accomunati dal logos

statua marmorea rappresentante Apollo

Quando le spoliazioni non furono più sufficienti
a soddisfare la dilagante passione per le opere greche
si dovette ricorrere alle copie,
come nel caso dell’Apollo del Belvedere (Musei Vaticani),
reso celebre dall’interpretazione di Winckelmann,
splendida copia romana di un originale in bronzo di Leocare
risalente alla metà del IV sec. a.C.
Il sentimento di ‘magnanimità’ nel senso di umana solidarietà verso i propri simili, troverà sistemazione e giustificazione teoretica nel filosofo Panezio.
Seguace e riformatore della scuola stoica, Panezio abbandona il rigorismo morale ascetico e individualistico della prima Stoà. In luogo dell’astratto, e per certi aspetti disumano, modello del “sapiente” orgogliosamente chiuso nella propria virtus, il riformatore addita un nuovo paradigma: quello di un uomo che tende alla virtù in mezzo ad altri uomini, pronto alla comprensione e alla filantropia. L’uomo, sostiene Panezio, è una creatura privilegiata che – grazie al dono della ragione (logos: “parola”, “ragione”) – si stacca nettamente da tutti gli altri esseri viventi e presenta una certa parentela con la divinità. Questo privilegio, o diciamo meglio questa dignità, impone all’uomo di vivere responsabilmente la propria vita, in maniera degna della sua parentela col divino. Vivere degnamente vuol dire seguire la natura, in particolare ciò che è peculiare della natura umana, e cioè il logos, la ragione. Ed è proprio la ragione ad imporci di riconoscere in ogni uomo un nostro simile, partecipe, insieme con noi, del logos divino. Questo riconoscimento impone un atteggiamento di solidarietà (la greca philantropìa, appunto), una sorta di fratellanza umana, e il dovere di impegnarsi nella vita sociale e politica a vantaggio dei nostri simili.
A scanso di equivoci, mi sia consentita su questo argomento un’ultima annotazione, una parentesi. Gli stessi corifei dell’atteggiamento ellenizzante trovarono modo di contemperare il nobile ideale di philanthropiafratellanza, con quelle che a loro apparivano dure quanto inevitabili necessità politiche e militari. E se il campione dei tradizionalisti, Catone, si rivelerà il più acerrimo nemico di Cartagine col suo implacabile ritornello delenda Carthago (“bisogna distruggere Cartagine!”), a dare esecuzione a quella sua ossessione sarà, nel 146 a.C., il principale esponente del partito avversario. Sì, proprio quel ragazzo che i suoi confratelli di consorteria aristocratica giudicavano troppo mite, e perciò degenere rappresentante della sua nobile famiglia.

c) humanitas = paideia, cioè cultura, civiltà…

Il dovere morale di impegno politico, così caro ai sostenitori del mos maiorum, trovava dunque nella filosofia greca non solo cittadinanza, ma addirittura giustificazione teoretica, quale dovere, inerente alla natura umana, di rendersi utile ai propri simili.
Tuttavia – aggiunge Panezio, ed è forse questa la parte più originale del suo pensiero – ogni individuo è dotato, oltre che della ragione, comune a tutti gli uomini (e alla divinità!), anche di una propria personalità, fatta di propensioni, attitudini e così via. Seguire la natura significa, pertanto, seguire anche le istanze della propria specifica personalità, almeno nella misura in cui questa non si oppone ai doveri primari dettati dalla ragione.
La virtus paneziana, in altre parole, tende a uno sviluppo armonico della personalità umana in tutte le sue facoltà. Questo vuol dire che è legittimo, e anzi doveroso, coltivare, accanto alle virtù diciamo così civiche (in sostanza, per un romano, le qualità connesse con la vita politica e militare, oltre che con la cura del patrimonio) anche gli aspetti della personalità più privati. È la legittimazione dell’otium, della vita privata: secondo questa prospettiva, anche il cittadino appartenente alla classe dirigente potrà dedicarsi alla cura dei propri interessi spirituali privati.  Potrà, p. es., coltivare la poesia, gli studi letterari e filosofici, senza doversene vergognare. Al contrario, tale attività è posta tra le più nobili, perché investe direttamente quella parte di noi, lo spirito, che è più tipicamente umana; quella che ci distingue dagli animali e ci rivela compartecipi dell’essenza divina.   È il riconoscimento del valore autonomo della cultura come arricchimento dello spirito, come otium, indipendentemente dal negotium (che è, appunto, il contrario dell’otium, e sintetizza gli impegni politici ed economici).
 Questo riconoscimento era davvero rivoluzionario per la tradizionale mentalità della classe dirigente romana, e non fu accettato senza gravi difficoltà e, almeno in un primo momento, come interesse consentito accanto a quello primario dell’attività politico-militare e non come sostitutivo di questo. Ma intanto il sasso era lanciato, e presto troveremo, proprio tra gli amici dell’Emiliano, un esponente della classe dirigente – Lucilio – che, per la prima volta nella storia di Roma, rinuncia alla prospettiva di una brillante carriera politica e militare per dedicarsi, accanto alla cura del patrimonio, esclusivamente alla letteratura.


statua femminile di marmo

O come nel caso dell’Afrodite Cnidia,
copia romana (da Prassitele), bella ma…
quasi interamente ‘rifatta’
(testa, gambe e braccia si debbono al ‘restauratore’ secentesco
Ippolito Buzzi (Roma, Palazzo Altemps)
Proprio questo significato di humanitas – approssimativamente corrispondente al greco paidéia – sarà posto al centro dell’attenzione da Petrarca e seguaci, elaboratori di quel complesso di idee all’origine della civiltà moderna (sono proprio loro a elaborare la nozione di “medioevo” – “medio” tra gli antichi e i moderni – da cui intendono prendere le distanze!), quel movimento culturale noto, non a caso, col nome di ‘umanesimo’ (attraverso la nozione di humanae litterae, cioè “cultura letteraria e filosofica”), nel senso ideale prima ancora che storico.

Dall’altro lato, dall’assunzione di humanitas nel significato generico di ‘civiltà’, ‘vita civile’, in opposizione a ‘rozzezza’, ‘ignoranza’, ‘vita primitiva’, la parola finirà col significare – già nel I sec. a.C. – semplicemente le comodità, gli agi, resi possibili dalla ‘civiltà’.

Tutta questa evoluzione – si è già detto – si svolse non senza aspri contrasti con i “tradizionalisti”. I quali – va riconosciuto – avevano le loro buone ragioni, tutt’altro che irrilevanti o spregevoli. Ragioni peraltro così complesse che devo rinviarne la presentazione a un prossimo post.

lunedì, giugno 10, 2019

Humanitas valore supremo. 1- mos maiorum

Humanitas: l’uomo come valore supremo. 1 - mos maiorum.

Cornelia esibisce i suoi gioielli, cioè i figli

All’amica vanitosa che ostenta i suoi ori, Cornelia, modello di virtù femminile,
esibisce i propri ‘gioielli’ (dipinto di P. F. Hetsch, 1758-1838)

Ragioni di un post. Anzi, di due

Non tutti se ne accorgono, perché il luccichìo dei lustrini esibiti dalla maggior parte dei mass-media mette in ombra la realtà vera: da alcuni decenni stiamo assistendo a una progressiva disumanizzazione della vita sociale. È  un fatto, e non sfugge agli spiriti più attenti e spregiudicati. E così, parallelamente, si avverte sempre più il bisogno di riproporre valori dati ormai per tramontati, destinati – secondo le vittime della mentalità corrente – ad alimentare  vuote nostalgie. Ma non è così. Certo, a volte può trattarsi di proposte discutibili, ma sono comunque spunti preziosi per la ricerca di un’alternativa al volgare appiattimento su denaro e tecnolatria. Tra spunti del genere si può annoverare, per limitarmi a un solo esempio, la recente proposta dell’economista Valerio Malvezzi, sinceramente impensierito dagli esiti disastrosi dell’attuale indirizzo economico mondiale sulle condizioni di vita delle classi sociali più indifese. Non so se il suo recente appello alla fondazione di una “economia umanistica” sia percorribile e capace di dare i frutti sperati. Certo è una proposta generosa, e l’aggettivo di matrice classica è quanto mai appropriato.
Ritengo non inutile, pertanto, dare qualche ragguaglio sul concetto di “humanitas”, al quale, attraverso la rielaborazione del cosiddetto Umanesimo, quella proposta esplicitamente si richiama. Un concetto, quello di humanitas, che racchiude  un modo di pensare, di vivere, di rapportarsi al prossimo, che mette al centro l'uomo, l'umanità, e che affonda le sue radici nella civiltà greco-romana, di cui è uno dei làsciti più preziosi.
Prima, però, mi sia consentita una premessa: una breve presentazione di una concezione, di un modo di vita più arcaico, dai Romani venerato come  mos maiorum. Conoscerlo, almeno sommariamente, è interessante non solo perché caratterizzò lo stile di vita dei Romani per secoli, ma anche perché è difficile valutare l'importanza innovativa del concetto di cui intendiamo occuparci se non si ha consapevolezza di dove si partiva e dei formidabili ostacoli che si dovettero superare. E, del resto, la tenacia di quella concezione, la sua ostinata resistenza al cambiamento finirà col lasciare traccia anche nel nuovo modo di pensare, tanto da farne qualcosa di originale, asse ereditario non dell’ellenismo, bensì di quella che più propriamente è detta, appunto, civiltà greco-romana.



particolare di plastico rappresentante roma arcaica

Il cuore di Roma arcaica (partic. del plastico del “Museo della civiltà romana” di Roma).
In alto, a destra dell’Isola Tiberina, la duplice cima del Campidoglio: a sin., il Capitolium  col tempio di Giove, (approssimativamente un po’ più a destra dell’attuale  Palazzo dei Conservatori); a destra l'Arx, la Rocca, dove ora è la chiesa di S. Maria in Aracoeli.
Più in basso: a sin., il pianoro del Colle Palatino, sede della “città quadrata” fondata da Romolo; all’estrema destra, le propaggini del Quirinale.
Il pianoro approssimativamente circolare al centro è la Velia, successivamente modificata da interventi di costruzione. Il laghetto che segue è, approssimativamente, il luogo dove oggi sorge il Colosseo. La valletta a sin. del Palatino è uno scorcio del Circo Massimo (se ne vede una delle due "mete", dal lato del Foro Boario, noto ai più per la "Bocca della Verità"!). Il colle nell’angolo sin. in basso è il Celio.

Il mos maiorum

L’espressione mos maiorum (letteralm., il costume, lo stile di vita degli antenati) designa un complesso di valori, un codice non scritto di comportamento, a cui – stando alle idealizzazioni posteriori – si ispirava lo stile di vita del perfetto civis Romanus (“cittadino romano”) del buon tempo antico. Si tratta della idealizzazione nostalgica di valori e norme di comportamento tipici di una società contadina che trova nella famiglia il nucleo costitutivo basilare, nella laboriosità e nella parsimonia la principale risorsa economica, nella compattezza interna e nel valore militare la garanzia della propria indipendenza.
Il principio che sta alla base del mos maiorum   è la totale soggezione dell’individuo allo Stato. Il civis Romanus è considerato non in quanto uomo, bensì, appunto, in quanto civis, parte di una comunità – civitas – organizzata in una struttura statuale, la res publica (“lo Stato”, ma l’espressione latina è più precisa: “la cosa pubblica”, cioè “che appartiene a tutto il popolo”). È la civitas, o meglio la res publica, la fonte dei diritti e dei doveri dell’uomo romano. Pertanto saranno doverosi tutti gli atteggiamenti e i comportamenti idonei a favorire la conservazione della res publica e a incrementarne le risorse; saranno, invece, immorali e censurabili gli atteggiamenti sospettati d’incrinare la compagine sociale e di mettere in forse la difesa dello Stato.

a) virtù pubbliche

Tra questi comportamenti virtuosi occupa il primo posto il valore militare (la fortitudo), necessario per la difesa dello Stato verso i popoli confinanti: designa il vigore fisico e morale, il coraggio e la forza d’animo. Vengono poi la pietas (il rispetto, la venerazione, l’affetto verso quanto vi è di sacro: la divinità, la patria, i genitori, i figli, i congiunti) e la fides, la ‘fiducia’, cioè la lealtà, il rispetto degli impegni assunti, fondamento della giustizia e dunque della compattezza sociale. E ancora la gravitasla “serietà”, la qualità di chi agisce con ponderazione ma con severità e fermezza nello stesso tempo, guadagnandosi, con tale comportamento, fiducia, ascendente e autorevolezza sui propri concittadini.

b) virtù private

Virtù attinenti alla vita privata erano considerate l’industria, cioè la ‘laboriosità’, con cui incrementare il patrimonio familiare, e la parsimonia, cioè la modestia del tenore di vita, la moderazione nelle spese, l’avversione per il lusso. Virtù particolarmente apprezzata anche in ambito pubblico, questa, perché il lusso non solo era considerato esibizione di ricchezza e potenza pericolosa per le istituzioni democratiche, ma soprattutto perché era ritenuto (a torto?) un incentivo ad appropriarsi beni pubblici, infrangendo così la virtù della abstinentia, il ‘disinteresse’, l’onestà’ nei confronti dei beni dello Stato.
Una sezione a parte meriterebbe il tema delle virtù femminili. Ma il discorso, che vorrebbe essere soltanto una breve premessa, finirebbe con l'assumere proporzioni spropositate. Uno spunto potete trovarlo nella prima foto: mi limito a ricordare che i ‘gioielli’ di Cornelia (appartenente alla famiglia degli Scipioni, e moglie di Sempronio Gracco) si chiamano Gaio (il minore) e Tiberio Gracco, destinati a darle, da adulti, non poche amarezze quando, dimentichi di appartenere  a due tra i clan più antichi e illustri di Roma (la gens Cornelia, e la gens Sempronia) impietositi dalla miseria dei contadini rovinati dal prolungato servizio militare lontano dai loro campi, passeranno politicamente nelle file dei plebei. Amarezze che diventeranno inconsolabile dolore quando, l’uno dopo l’altro, finiranno uccisi dalle consorterie nobiliari, lasciando lei vedova e sola.

c) figure esemplari

La tradizione aveva fissato anche alcune figure esemplari, paradigmatiche (come quella appena vista di Cornelia); alcuni modelli che incarnavano il comportamento e la norma sancita dal mos maiorum.
Cincinnato salutato dittatore dai messi del senato
Cincinnato
salutato dittatore dai messi del Senato
A. Cabanel (1823-1889), part. 
Ricordate Cincinnato? I messaggeri incaricati di comunicargli la decisione del Senato di nominarlo dittatore lo trovarono intento ad arare il suo campicello; attività alla quale ritorna appena sconfitti i nemici, lasciando spontaneamente la dittatura prima ancora della scadenza del mandato.
Pochi ricordano Manio Curio, comandante dell’esercito romano nella guerra contro i Sanniti. Gli ambasciatori di questi ultimi, inviati a corromperlo, lo trovano intento a consumare un magro pasto in una scodella di legno… Ciononostante, hanno l’ardire di offrirgli il prezzo della corruzione, suscitandone l’ira e lo sdegno, presto convertitosi in uno sprezzante sorriso: Riportate questo vostro oro a coloro che vi hanno mandati!…
E quanti, oggi, riterrebbero comprensibile la dolorosa decisione di Tito Manlio Torquato?
Stando alla tradizione, in qualità di console e capo dell’esercito nella “guerra latina” (340 a.C.) non esitò a mandare a morte un giovane ufficiale reo di disubbidienza agli ordini del comandante, per aver attaccato il nemico contravvenendo alle precise disposizioni impartite. Quel giovane, valoroso e idolo di tutti i commilitoni, evidentemente aveva pensato che non era il caso di lasciarsi sfuggire un’occasione; o forse avrà confidato di potersi prendere quella libertà perché il suo comandante era anche… suo padre. Terribile esempio di gravitas nella sua versione più severa, e nello stesso tempo di completa dedizione alla disciplina militare e agli interessi dello Stato, persino contro i pur sacri affetti familiari, la sacrosanta pietas!
Lascio a voi il giudizio su un tale gesto. Voglio solo dire che forse, a rendere meno mostruosa quella sentenza, giova riflettere che sul campo di battaglia una iniziativa scoordinata può comportare l’inutile carneficina di migliaia di uomini. Certo, le guerre sarebbe meglio non farle. Sarebbe…, appunto. C’è qualcuno che potrebbe dubitarne?


Non poteva durare

Faceva parte integrante del mos maiorum la completa fedeltà alle tradizioni patrie e l’accettazione acritica della morale e della mentalità tradizionale, la fede nella superiorità indiscutibile dello stile di vita romano. Ora, se tali atteggiamenti poterono, forse, mantenersi nei primi secoli della repubblica, in un ambiente tutto sommato provinciale, come avrebbero potuto uscire indenni dal contatto diretto con l’avanzatissima civiltà greca, diffusa ormai in tutto il bacino del Mediterraneo, rivelatasi ai loro occhi increduli con la conquista dell’Italia meridionale conclusa con la presa di  Reggio nel 270 a.C.? Lo splendore e la finezza di essa conquistano da subito gli spiriti più aperti, dando inizio a Roma a un atteggiamento di simpatia e di ammirazione per la cultura greca, che andò crescendo nonostante la fiera opposizione dei tradizionalisti più intransigenti, e che culminò nel costituirsi del cosiddetto Circolo degli Scipioni.  Ma di questo parleremo nel post successivo.


foro romano

La foto è ripresa dal Campidoglio (precisamente dalla sella tra Capitolium e Arx) e mostra il complesso archeologico denominato Foro Romano. In realtà, il Foro vero e proprio, cuore politico della Roma repubblicana, risulta nascosto dalle imponenti colonne del Tempio di Saturno. Il Foro era stato ricavato, nei primi secoli della Repubblica, dal prosciugamento della valle tra Campidoglio, Quirinale, Palatino e Velia. Potete farvene un'idea confrontando col plastico sopra riportato (ma l'orientamento è invertito!). Rispetto  al periodo arcaico, tutto è cambiato: “Ho ricevuto una Roma di mattoni e ve la lascio di marmo” soleva ripetere Augusto con qualche esagerazione. A delimitare il Foro vero e proprio vediamo: a sinistra l’arco di Settimio Severo (203 d.C.) e dietro, in mattoni, la Curia, la veneranda sede del Senato; in primo piano le colonne del Tempio di Saturno; a destra  la Via Sacra (con alcuni turisti) e quello che resta della Basilica Iulia. In fondo il Foro era delimitato dal tempio di Giulio Cesare (dove sulla foto sembra di vedere una casamatta e poi, a sin., l'imponente massa del Tempio di Antonino e Faustina). Poco oltre comincia la salita della Velia. In fondo, oltre il bel campanile di Santa Francesca Romana, s’intravvede il Colosseo. Sul lato destro, oltre la Basilica Iulia, tre colonne del  Tempio di Castore e Polluce e, a destra, muraglie, cipressi e pini del Palatino.