sabato, dicembre 23, 2017

Perosi, Il Natale del Redentore





 Il Natale del Redentore di Perosi: Testo e Guida all'ascolto della Parte seconda.




INTRODUZIONE

Giotto, La Natività, Padova, Cappella degli Scrovegni

Giotto, la Natività
Padova, Cappella degli Scrovegni
Problema preliminare 

A distanza di un anno, torno ad augurare buon Natale ai miei amici con un post di musiche natalizie. Questa volta porterò in scena Il Natale del Redentore, un oratorio di Lorenzo Perosi (Tortona 1872 – Roma 1956). Prima, però, ritengo doveroso affrontare un problema preliminare.
Ha senso proporre a un pubblico indifferenziato (credenti di varie confessioni religiose, atei, agnostici ecc.) un’opera d’arte di contenuto apertamente religioso, cristiano? Chiarisco subito che la questione qui proposta non riguarda la presunta opportunità di evitare opere che possano risultare “offensive” alla sensibilità di “altre confessioni religiose”, come ipocritamente generalizza chi non ha nemmeno l’onestà di chiamare le cose col loro nome. Una siffatta pretesa non è né un problema, né un’opinione degna di discussione, bensì attendibilissima autocertificazione d’ignoranza.
Qui ci si domanda se un’opera d’arte dichiaratamente ispirata ai contenuti di una fede religiosa possa interessare anche persone che quella fede non condividono. Questione, questa, meritevole di ampia discussione che qui risulterebbe fuori luogo. Perciò mi limito a riproporre la risposta data da Carducci, uno che per la religione cattolica non pare nutrisse eccessive simpatie, se è vero che in uno dei suoi giambi più violenti non esitò – lui “sacerdote de l’augusto vero” - a scomunicare nientemeno che il Papa, “pontefice fosco del mistero”! 
In un suo sonetto oggi dimenticato, il poeta maremmano si domanda come mai lui, che niente condivide della fede religiosa di Dante, lui che detesta le sue idee politiche sulla funzione dell’impero, non si stanchi mai di studiare e meditare quella sua Commedia che di quella fede, e di quella visione politica, si sostanzia da un capo all'altro. La risposta è nell’ultimo verso: “Muor Giove, e l’inno del poeta resta”. E questo – aggiungo – perché un’opera d’arte degna del nome si sostanzia di sentimenti generalmente umani, tipici di tutti gli uomini che non hanno dismesso la propria umanità. Sentimenti quali, per esempio, la tenerezza verso la maternità, o il senso di profonda riverenza verso ciò che trascende la nostra terrena dimensione…

Forma e argomento del Natale del Redentore

Il Natale del Redentore è propriamente un oratorio. Per i meno esperti, ecco una definizione particolarmente sintetica, ripresa dal dizionario Garzanti: “forma musicale drammatica di argomento religioso, eseguita da solisti, coro e orchestra, ma senza messinscena teatrale”. Rispetto all’opera lirica – la “forma musicale drammatica” per eccellenza – l’oratorio si caratterizza per il soggetto, istituzionalmente religioso, per la mancanza di ambientazione scenica, e per il fatto che i personaggi non agiscono (non sono attori), ma si limitano a cantare.
L’argomento dell’oratorio qui proposto è dichiarato già nel titolo: la rappresentazione stilizzata della nascita di Gesù e delle circostanze che accompagnarono l’evento. Veramente l’opera ha anche una prima parte, una sorta di antefatto, dedicata all’Annunciazione. Ovviamente sarebbe raccomandabile l’ascolto dell’opera nella sua interezza. Io, però, per sfuggire all’accusa della mano troppo pesante, limiterò le mie osservazioni alla seconda parte, “Il Natale” propriamente detto. Anche in considerazione del fatto che, rispetto alle proposte dell’anno scorso, qui si va sul difficile(!!): alla parte strumentale si aggiunge il canto, non solo dei solisti, ma anche del coro! E non basta: la lingua del testo è il latino, che certo nessuno dei miei amici confonde con “la lingua dei latinos”, ma qualche difficoltà in più la offre… Difficoltà peraltro già contemplata dall’Autore, che al testo latino affianca una traduzione italiana (qui scrupolosamente riprodotta).
Il testo è costituito da passi dei primi due capitoli del Vangelo secondo Luca – opportunamente scorciati – intervallati da qualche breve citazione biblica e da due inni liturgici. I personaggi sono: lo Storico, cioè il cronista, l’Evangelista (baritono), Maria e l’Angelo Gabriele (rispettivamente soprano e tenore; solo nella Parte I), Angeli (soprano e mezzosoprano) e Coro.    

GUIDA ALL’ASCOLTO


Mentre la Parte I (“L’Annunciazione”) – o, più propriamente, il brevissimo prologo – entra subito in medias res con il canto del coro (In nomine Iesu Christi. Amen), la Parte II comincia con un breve preludio orchestrale, su un tema cullante introdotto dai corni, dove riconosciamo qualche eco sonora del wagneriano Tristan und Isolde (atto II, sc. 1); riecheggiamento a mio parere non casuale (l’abito talare serrava a don Perosi l’accesso al teatro d’opera, ma non gli vietava la frequentazione di partiture teatrali). Quindi, assistito dagli archi, e svolgendo un secondo tema, destinato a ripresentarsi più volte nel corso dell’oratorio, il coro intona un breve canto di gioia (Iucundare, filia Sion), chiuso dall’orchestra con un’ultima, sommessa ripresa del cullante tema iniziale.
Ha inizio la narrazione: Facutm est in diebus illis exiit edictum… Sostenuto discretamente da una musica discorsiva, lo Storico narra come, in ottemperanza a un editto di Augusto, Giuseppe e Maria si mettessero in viaggio per farsi censire a Betlemme, città dei loro padri. Al risuonare  del nome della modesta cittadina destinata a dare i natali al Messia, il piano fluire della narrazione improvvisamente s’innalza, ad assumere toni di aperta celebrazione. E, coerentemente, il Coro si unisce all’entusiasmo celebrativo dello Storico, intonando la biblica profezia che la riguarda (Et tu, Bethlehem) . 
Riprende la narrazione: cum essent ibi, impleti sunt dies ut pareret (“mentre si trovavano lì, si compirono i giorni del parto”). Siamo al momento cruciale, ed è lui stesso, lo Storico,  a sospendere la narrazione per affrettare col desiderio l’evento miracoloso. “O Emmanuel” esclama, “o Adonai”… Ricordate il Veni, veni, Emmanuel che l’anno scorso abbiamo visto ripreso ed elaborato da Respighi? Come Emmanuel (“Dio con noi”), anche Adonai (“Mio Signore”), è espressione ebraica. Invocazioni, l’una e l’altra, che dànno inizio a due delle Antifone cantate dalla Chiesa in preparazione del Natale.
L’orchestra, dopo aver accompagnato gioiosamente la fiduciosa invocazione, ne prolunga il sentimento in una breve coda. Poi, d’un tratto, intristisce, si incupisce… Ed ecco la voce triste del corno inglese, presto doppiato da clarinetto e corno, intonare un motivo dolorosamente digradante per gradi cromatici congiunti, risollevarsi per un attimo fino alla dominante, per ricadere, desolata, sulla tonica di La minore… È un’autocitazione: il musicista aveva già impiegato quello spunto nel precedente oratorio La Passione di Cristo, facendone il tema del Preludio della III parte e poi la sostanza melodica del lamento supremo di Cristo al momento della massima desolazione, dagli evangelisti citato in lingua originale: Eloi, Eloi, lamma sabacthani?  (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”).

Botticelli, Madonna col Bambino e San Giovanni
Botticelli, Madonna col Bambino e San Giovanni

Che ci fa – ci chiediamo – che ci fa qui, nel momento in cui si annunzia il ‘lieto evento’ per antonomasia, un motivo tanto sconsolato? Osservate il tondo botticelliano (qui riprodotto in bianco e nero): rappresenta la Madonna adorante il Bambino. Accanto a loro un bambino più grandicello, San Giovanni Battista. Come in tanti altri dipinti dello stesso soggetto, San Giovannino regge una croce. Un oggetto incongruo, per ragioni evidenti. Ma quella croce, illogica dal punto di vista realistico, ha valore allusivo: la tradizione pittorica, mettendo in mano al Precursore quel segno di supplizio, intende ricordare allo spettatore che quel bambino è destinato a una morte atroce per la salvezza dell’umanità. Lo stesso valore allusivo ha qui il motivo intonato dal corno inglese. Veni ad salvandum nos, avevano appena invocato lo Storico e il Coro, e subito il musicista ci ricorda che quella salvezza ha un prezzo, un costo atroce. Del resto, che don Perosi proprio questo avesse in mente ce lo dice anche un ripensamento in corso d’opera. Il manoscritto del nostro oratorio, conservato nell’Archivio storico Ricordi, reca il titolo originario Il Natale di Gesù Cristo, poi cancellato e sostituito da quello attuale, che pone l’accento sul momento della Redenzione.

Siamo giunti al cuore della narrazione. Canta lo Storico: Et peperit filium suum primogenitum: et pannis eum involvit et reclinavit eum in praesepio (“E partorì il suo figliolo primogenito, e lo fasciò e lo adagiò in una mangiatoia”).

Mettiamoci pure dal punto di vista di chi nel Vangelo di Luca vede solo un testo favoloso; e nell’evento narrato niente più che un’invenzione poetica particolarmente fantasiosa… Il mistero della vita che si rinnova commuove comunque. Un bambino, un neonato indifeso e bisognoso di tutto, fa tenerezza comunque. Ma se – facendo propria la supposta ispirazione poetica – si pensa, s’immagina, che quel bambino venuto al mondo in estrema miseria, adagiato su una povera mangiatoia d’animali, è il creatore dell’universo fattosi uomo per amore degli uomini, be’, conveniamone: chi, davanti a una creazione poetica così sublime può davvero restare insensibile? Certo non resta insensibile don Perosi – profondamente credente – che ci mostra, qui, a quali vertici di tenerezza può essere piegata una robusta voce di baritono. Quanta delicatezza, quanta tenerezza, appunto, quanto pudore, nell’accostarsi, quasi con tremore, al sublime mistero!

Il coro invita all’adorazione del divino Infante (Christum natum…). L’orchestra accompagna, e conclude giubilante col tema del Iucundare. Poi, senza stacco, l’oboe, presto seguito da flauto e corno inglese, e dall’intera orchestra, attacca una sua triste melodia. È un breve, ampio “Interludio orchestrale”, dall’autore definito “la notte tenebrosa”. Sbaglierebbe chi interpretasse “tenebrosa” come un quasi sinonimo di “tempestosa”, e pensasse – poniamo – a sinistri bagliori orchestrali come quelli della notte tragica del Rigoletto. Le tenebre cui qui si allude sono – io credo – quelle, fitte, del mistero dell’Incarnazione, sublime e impenetrabile mistero di un Dio che si fa uomo per amore delle sue creature. Certo è che siamo davanti a una splendida pagina meditativa, su sentimenti non traducibili in espressioni verbali. Corno inglese, oboe e flauto s’incaricano della melodia, volta ad approfondire l’accennato motivo della passione. Rispondono archi e ottoni e legni con un loro tema profondo, misterioso, ripreso, dopo una breve, intensa implorazione del corno, dai legni, punteggiati dal pizzicato degli archi.

Ed ecco balzare in primo piano l’oboe, con un suo motivo giocoso, presto arricchito dal flauto: i due strumenti intrecciano le loro voci come in un’ingenua gara di virtuosismo rusticano. Siamo, evidentemente, in ambiente pastorale. Ce lo conferma lo Storico (Et pastores erant in regione eadem), e prosegue narrando l’apparizione dell’Angelo in mezzo al bagliore d’una inspiegabile luce. A sottolineare la vivezza dello splendore divino che li avvolge (et claritas Dei circumfulsit illos), intervengono gli ottoni in tutta la gloria del loro clangore. 

Angeli annunciano ai pastori

L’Annuncio ai pastori
Como, Chiesa di Sant’Abbondio

 L’Angelo rassicura i pastori spaventati annunciando loro gaudium magnum, la nascita del Redentore, e fornendo i contrassegni per riconoscerlo: “Troverete un bambino avvolto in fasce, e adagiato in una mangiatoia”. Rassicurazione quanto mai necessaria, ché lo splendore si accresce, le presenze sovrumane si moltiplicano, un coro di voci celesti proclama la gloria di Dio e annuncia la pace agli uomini di buona volontà, mentre l’orchestra riprende e ancora una volta ripete il dolce motivo Iucundare.
La voce dell’oboe preannuncia la ripresa della narrazione. Lo Storico ci informa della partenza degli angeli, che sulle onde del coro noi vediamo ascendere volteggianti al cielo donde erano discesi. Poi cede la voce ai pastori che si esortano reciprocamente a correre a verificare di persona. 
A dar voce ai sentimenti dei pastori pensa il Coro, intonando l’inno liturgico Iesu, Redemptor omnium (vedete quanto è insistito questo motivo della redenzione, che quasi quasi sovrasta la gioia del Natale!). Poi, introdotto da un concitato motivo degli archi che sembra alludere all’accorrere di altri e altri pastori, dell’intera umanità, alla povera capanna, ecco, solenne e possente come sotto la grandiosa cupola michelangiolesca, esplodere all’unisono il primo versetto del Te Deum, intonato sulla melodia gregoriana nella versione cosiddetta popolare. Il canto prosegue alternando unisono a polifonia, motivi gregoriani a rielaborazioni personali del Perosi. 
Al termine dell’inno di ringraziamento, il Coro intona il Iucundare, filia Sion dell’inizio di questa Parte seconda. Con una variante: mentre là si invitava la filia Sion ad esultare perché Dominus veniet (“sta per giungere il Signore”), qui la si esorta a farlo quia venit Dominus tuus et regnabit usque in aeternum (“perché è giunto il tuo Signore, e regnerà per sempre”); e il canto si prolunga in un caldo, ripetuto invito alla gioia e all’esultanza per qualcosa che non avrà mai fine: Iucundare, iucundare… I corni intanto reintonano il motivo iniziale. Il canto della Natività è concluso a parti specularmente invertite: là tema cullante seguito da Iucundare, qui Iucundare seguito dal tema cullante. Una Ringkompisition strutturalmente perfetta, che dà una sua unità peculiare a questa seconda Parte, e vale forse a scusarci dell’arbitrio di soffermare solo su di essa la nostra attenzione.

E tuttavia… per l’Autore manca ancora qualcosa: all’oratorio giunto al termine (il libretto, in effetti, si conclude col Iucundare), a questo inno alla nascita del Redentore ormai concluso, manca – diciamo così – l’amen finale d’ogni prece. Ed ecco, come per un rinnovato impulso d’entusiasmo, il coro intona ancora Gloria. A una nota bassa, profonda degli uomini rimasti sulla terra rispondono gli angeli fluttuando leggeri verso l’alto, fino a vanire lassù lassù, nel cielo altissimo, dove sguardo umano non può giungere.
Ora tutto è compiuto: l’inno è completo, e il giovane musicista può tacere, appagato del dovere adempiuto.

Ma, a proposito, chi era questo musicista? Mi accorgo di aver mancato al galateo: ho presentato l’opera senza presentare l’Autore. Farlo ora, però, significherebbe abusare della vostra pazienza. Del resto, che fosse di Tortona l’ho già detto, e vi ho già informati che morì a Roma nel 1956, dove – aggiungo – aveva diretto la Cappella Sistina per decenni, salvo un breve periodo in cui fu interdetto per evitare che, in un accesso particolarmente nero delle sue ricorrenti crisi depressive, potesse distruggere le sue opere più belle (e così vi ho dato anche questa brutta notizia della malattia, fortunatamente discontinua!). Non voglio, però, trascurare di fornirvi un breve ritratto, che, a mio parere, coglie la nota dominante di questo compositore, quella “ingenuità” (nel senso più nobile) che così bene traspare da quest’opera, sia nell’attitudine sentimentale verso la natività di Cristo, sia nella spontaneità dell’invenzione musicale, che è tanta parte del fascino perenne di questa musica su animi non viziati dalla spasmodica ricerca del nuovo, se non dell’astruso. Lo dobbiamo a Elsa Olivieri Sangiacomo (moglie amorosa di Ottorino Respighi e lei stessa musicista di gusto raffinato) che lo delinea nel suo Cinquant’anni di vita nella musica. Lo riporto tralasciando, per brevità, alcune frasi relative a una curiosa mania (ulteriore testimonianza della fragilità umana dell’artista) e aggiungendo che, a mio parere, quelle che sembrano riserve dell’autrice (“in quegli anni”, “era considerato”…) sono soltanto un segno dei tempi: il libro fu pubblicato a metà degli anni ’70, anni di egemonia della cosiddetta avanguardia (da cui, peraltro, Elsa si tenne saggiamente alla larga).

Don Lorenzo Perosi era più raramente fra noi in casa Kanzler, preso com’era dal lavoro di Maestro del Coro della Cappella Sistina e dalla composizione dei suoi Oratori che in quegli anni gli diedero molta popolarità. Malgrado i suoi successi, Perosi aveva sovente l’aria triste e assente ed era difficile parlare con lui (…) Egli era considerato in quel tempo come un vero riformatore e gli si attribuiva il merito di aver riportato l’interesse del pubblico e dei musicisti verso un genere musicale che era caduto in oblio negli ultimi secoli. L’ingenuità che si ritrovava nella “Resurrezione di Lazzaro”, nella “Resurrezionedi Cristo”, nel “Natale del Redentore”.
Egli restò per lunghi periodi lontano dal mondo musicale romano; era ammalato e la sua fine rattristò sinceramente tutti quanti conobbero lui e la sua musica.



TESTO


Coro

Iucundare filia Sion, et exulta satis filia Ierusalem, allelujah ! ecce Dominus veniet  Propheta magnus.
Allègrati, o figlia di Sion; esulta grandemente, o figlia di Gerusalemme. Ecco sta per giungere il tuo Signore, gran profeta.


Storico

Factum est in diebus illis, exiit edictum a Caesare Augusto ut describeretur universus orbis. Et ibant omnes ut profiterentur, singuli in suam civitatem. Ascendit  Ioseph a Galilaea in Bethlehem….
Di quei giorni uscì un editto di Cesare Augusto, che si facesse il censo di tutto il mondo; e andavano tutti a dare il nome, ciascheduno alla sua città. E andò Giuseppe da Nazaret, città della Galilea, a Betlemme…


Coro

Et tu Bethlehem, … nequaquam minima es in principibus Juda ; ex te enim exiet dux qui regat populum meum Israel.
E tu, o Betlemme, non sei la minima fra le città di Giuda; poiché da te uscirà il condottiero che reggerà Israele mio popolo.


Storico

ut profiteretur cum Maria.
a dare il nome insieme con Maria


Storico

Factum est autem cum essent ibi, impleti sunt dies ut pareret
E avvenne che, mentre qui si trovavano, giunse per lei il tempo di partorire


Storico e Coro delle Genti

O Emmanuel, o Adonai, veni ad salvandum nos, o Sapientia, o Adonai!
O Emmanuel, o Adonai, vieni a salvarci, o Sapienza, o Adonai!


Storico

et peperint filium suum primogenitum: et pannis eum involvit et reclinavit eum in praesepio.
e partorì il figlio suo primogenito : e lo rifasciò e lo pose a giacere in una mangiatoia.


Coro


Christum natum, Regem nostrum, venite, adoremus!
Venite ad adorare Cristo nato, nostro Re!


Interludio orchestrale: la notte tenebrosa

Storico


Et pastores erant in regione eadem vigilantes et custodientes vigilias noctis supra gregem suum.
Ed eranvi nella stessa regione dei pastori che vegliavano e facevan di notte la ronda attorno al lor gregge.


Et ecce Angelus Domini stetit iuxta illos et claritas Dei circumfulsit illos et timuerunt timore magno  et dixit illis : 
Quand’ecco sopraggiunse vicino ad essi l’Angelo, e uno splendore divino li abbarbagliò e furono presi da gran timore. E disse loro:

Angelo


Nolite timere. Ecce enim evangelizo vobis gaudium magnum, quia natus est vobis Salvator et hoc vobis signum: invenietis infantem pannis involutum et positum in praesepio.
Non temete, imperocché eccomi a recare a voi la nuova di una grande allegrezza, perchè è nato oggi a voi un Salvatore ; ed eccovene il segnale : troverete un bambino avvolto in fasce, giacente in una mangiatoia.


Coro di Angeli

Gloria in altissimis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis.
Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace in terra agli uomini di buon volere.


Storico

Et factum est ut discesserunt ab eis Angeli in caelum, pastores loquebantur ad invicem:
E dopo che gli Angeli si furono ritirati da loro verso il cielo, i pastori presero a dire tra di loro:


Coro

Transeamus usque Bethlehem et videamus hoc verbum quod factum est, quod Dominus ostendit nobis.
Andiamo sino a Betlemme a vedere  quello che ivi è accaduto, come il Signore ci ha manifestato.

Storico

Et venerunt festinantes et invenerunt Mariam et Ioseph et infantem positum in praesepio.
E andarono con prestezza, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino giacente in una mangiatoia.


Inno dell’adorazione. Coro e solo


Jesu, Redemptor omnium,
Quem lucis ante originem,
Parem paternae gloriae,
Pater supremus edidit.
 
O Redentor de’ popoli,
Te il Padre, a Sé non ìmpari
(e pria che ogni principio
fosse di luce ), ha génito!


Tu lumen et splendor Patris,
Tu spes perennis omnium:
Intende quas fundunt preces
Tui per orbem servuli.

Raggio di Dio, degli uomini
speranza inestinguibile,
la prece odi, che gli umili
sparsi nel mondo, innalzano!...


Hunc astra, tellus, aequora,
Hunc omne quod caelo subest,
Salutis auctorem novae,
Novo salutat cantico.

la terra, il ciel, l’oceano,
Te, per cui si ridestano
di nuova vita al palpito,
con nuovo inno salutano…


Jesu, tibi sit gloria,
Qui natus es de Virgine,
Cum Patre et almo Spiritu,
In sempiterna saecula.


Ognun Gesù glorifichi,
il nato della Vergine,
col Padre e l’almo Spirito
nei sempiterni secoli.



Inno di ringraziamento. Coro


Te Deum laudámus: te Dóminum confitémur.
Te ætérnum Patrem omnis terra venerátur.
Tibi omnes ángeli,
tibi cæli et univérsæ potestátes:
incessábili voce proclamant:
 
Te lodiamo. Che sei nostro Dio, te confessiamo per nostro Signore.
Te, eterno Padre, adora tutta la terra,
a te gli Angeli tutti, i cieli e tutte le potestà vanno incessantemente cantando:


Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus Deus Sábaoth.
Te gloriósus Apostolórum chorus,
te mártyrum candidátus laudat exércitus.
Patrem imménsæ maiestátis;
venerándum tuum verum et únicum Fílium;
Sanctum quoque Paráclitum Spíritum.
 
Santo, Santo, Santo è il Signore Iddio degli eserciti.
Il coro glorioso degli apostoli,
La schiera die martiri in candida stola,
Te loda, o Padre d’immensa maestà;
E l’adorabile tuo vero ed unico Figlio;
E il Santo Spirito consolatore!


Tu rex glóriæ, Christe.
Tu, ad liberándum susceptúrus hóminem, 
non horruísti Virginis úterum.
Tu ad déxteram Dei sedes, in glória Patris.
Per síngulos dies benedícimus te.

Tu, o Cristo, sei Re della gloria!...
Tu, facendoti uomo per salvare l’umanità,
non sdegnasti il grembo della Vergine…
Tu siedi alla destra di Dio, nella gloria del Padre.
E ciascun giorno ti benediciamo.



Coro ultimo

Iucundare filia Sion, et exulta satis filia Ierusalem, quia venit Dominus tuus et regnabit usque in aeternum.
Allègrati, o figlia di Sion, ed esulta, o figlia di Gerusalemme, poichè venne il Signore e regnerà in eterno.


(testo trascritto da: Il Natale del Redentore 
oratorio per canto e orchestra di don Lorenzo Perosi,
Milano, Stab. Pontif. d’arti grafiche sacre A. Bertarelli & C., 1901)



Giotto, La Natività, Assisi, Basilica di San Francesco
Giotto, La Natività, Assisi, Basilica di S. Francesco



lunedì, dicembre 11, 2017

D'Annunzio: Orazione funebre per un aviatore francese




dipinto di Marchioni raffigurante D'Annunzio in divisa in atto di tenere un discorso

D’Annunzio oratore
in un dipinto di Marchioni
Come promesso (vedi D'Annunzio e il mito della bella morte), in questo post leggeremo, corredato di qualche nota di analisi, un esempio di ‘bella morte’ dannunziana
Si tratta di un breve discorso di commiato, tenuto in occasione delle esequie di un aviatore francese, abbattuto nel cielo di Muggia nel corso di un’operazione di bombardamento di hangar e cantieri navali austriaci. Operazione coronata da successo, secondo l’agenzia Stefani:“numerosi e vasti incendi”; gli apparecchi rientrati incolumi; tutti, meno un idrovolante francese”: quello del nostro eroe. Tra i tanti partecipanti all'impresa, l'unico sfortunato. O, piuttosto, l’unico veramente fortunato. Tale, almeno, è l’opinione del nostro Vate. Ma ecco le sue parole.

Non convengono lacrime né parole di compianto sul feretro di questo giovine alleato ch’ebbe in sorte la fine di cui era degno, la fine di cui si faceva ogni giorno più degno, aspettandola con cuore intrepido.
Nel commiato funebre - scritto in quell’ora di presentimento che per gli eroi non è nube di tristezza, ma una lucida accettazione - egli non augura ai suoi compagni se non una bella morte. Egli sapeva che una bella morte è la suprema corona di un combattente che nessun altro premio e nessun altro onore valuta – neppure una vita utile. Egli l’ha ottenuta per sé, come sognava, altissima: è morto nella sommità del giorno; è caduto sul mare come nella luce, come meteora diurna; ha rigato del suo nobile sangue il più puro cielo italiano. Così come fu colpito egli rimane scolpito nella nostra memoria chino sul bordo della carlinga a osservare l’effetto della bomba che con mano maestra aveva messa sul bersaglio destinato.
La fulminea morte non ha potuto spegnere il suo sorriso, quel sorriso di perspicace ironia che egli soleva avere nella vita di ogni giorno tra prossimi e tra estranei, il sorriso della vecchia Francia, quel segno della sua ottima razza che persiste ancora là, nel buio, sotto il piombo suggellato. Chi l’ha veduto non può più dimenticarlo. Questo alato amante del rischio aveva giovinezza ricchezza grazia – queste cose belle e della poesia – un’eleganza dello spirito un po’ disdegnosa che ci seduceva, coraggio tranquillo, fede chiara: aveva tutto, e quel sorriso. Egli ha tutto donato per la grande causa, e il sorriso gli è rimasto. È quello della Francia in piedi sanguinante, è il nostro, l’invincibile sorriso latino, opposto al furore imbestiato, alla goffaggine mostruosa del barbaro: è un’arma spirituale che non si consuma, non falla, non si vende e non si prende. Su l’esempio di questo giovine fratello glorioso, noi la stiamo affilando e appuntando sopra una lunga ed aspra cote. Ma già vi brilla, raggio diritto, certezza di vittoria!

Breve, splendido discorso di commiato. La figura del caduto ci si imprime nella mente come quella di un eroe che, al culmine degli anni giovanili, conclude in bellezza la breve esistenza. Sempre aveva aspirato a cose alte, sublimi. Ed ecco, muore “nella sommità del giorno”, lassù in alto in alto, nel cielo, e cade in un mare di luce abbacinante, rigando “del suo nobile sangue il più puro cielo italiano”. Sul viso, ancora quel sorriso che lo contraddistingueva, che tutti gli riconoscevano. “Egli ha tutto donato” ma quel “sorriso gli è rimasto”. Fissato per sempre. Lo conserva anche nella morte, persino nella bara. È ormai il suo contrassegno per l’eternità. Come nei personaggi danteschi vizi e virtù che li caratterizzarono in vita. 
Quella fine l’eroe l’aveva vagheggiata tutta la vita, vi aveva mirato come al più alto premio della sua virtù. Giorno per giorno aveva lavorato alacremente per rendersene degno. Tanto bella la considera, e tanto desiderabile,  che, presentendo la fine, nulla di meglio trova da augurare ai suoi compagni, ai suoi amici più cari.  
Anche qui, dunque, la motivazione profonda dell’azione militare non è l’amore per la patria. La ‘promessa’ che alletta l’eroe ai mille e mille disagi della guerra, fino al sacrificio supremo, non è tanto la vittoria quanto una bella morte.  La morte eroica non è strumento ad un fine più alto. È essa stessa il fine supremo. “Egli sapeva che una bella morte è la suprema corona di un combattente che nessun altro premio e nessun altro onore valuta – neppure una vita utile”.
Una fine eroica, come quella del "giovine alleato", non lugubri immagini  di morte evoca, sì un trasumanare, un sublimarsi della vita materiale in pura luce, in luminoso sorriso.

D'Annunzio arringa i legionari fiumani

D’Annunzio arringa
i legionari fiumani


L’immagine della luce associata all’eroismo – qui ribadita nel brilla della frase conclusiva – ritorna in altri scritti di questo periodo. Essa è particolarmente insistita nella prima parte della “Corona del fante”, discorso pronunziato per ringraziare i soldati che gli avevano offerto un “dura corona carsica”, nel quale troviamo  quello che è forse il più splendido elogio del povero fante italiano. “Non c’era nulla fuorché macigni, scheggiame, tronchi tritati, spine di ferro, schianti, fumo, cadaveri”, ricorda, rievocando la conquista del Veliki (I novembre 1917: “una battaglia d’oro, in una luce d’Oriente”). “Ma c’era la luce italiana, c’era il meriggio d’Italia”.
Ancora più diffuso e insistito il motivo del sorriso, spesso associato a immagini di sofferenza, ché “il più bel sorriso umano è il sorriso che luccica su i lembi lacerati del dolore inumano” (Notturno). E nella Licenza alla Leda senza cigno, rievocando un convoglio di feriti francesi, così si esprime: “Tutti mi sembravano belli. Il viso della Francia era in ciascun viso. In rilievi d’osso e di muscoli vi si scolpiva il più maschio destino. Le recenti ferite non parevano le cicatrici vecchie della nazione riaperte e riaccese? Un sorriso effuso in un volto bendato non somigliava a quel primaverile sorriso che il popolo vide schiudersi nelle statue delle sue cattedrali costrutte col canto?”. Ed è ancora nella Licenza che trova un preciso riscontro il sorriso della vecchia Francia. Il poeta si trovava, ospite di amici, nelle vicinanze del bosco di Meudon (Ile-de-France), intento anche lui ad addestrare i cani alle gare di corsa, mentre poco lontano i soldati francesi tentavano come potevano di arginare la travolgente avanzata tedesca. Uno di loro accorre ad avvisare del pericolo imminente, “a consigliare lo sgombro rapido del casale”. “Ma noi – ricorda il poeta all’amica Chiaroviso – avevamo imparato il sorriso di Francia, e rispondemmo con quel sorriso”. Il sorriso impavido di chi all'imminente pericolo risponde con l'imperturbata calma del forte; il sorriso della Francia sanguinante ma non abbattuta, della Francia sanguinante ma in piedi! È il sorriso del giovane aviatore, quel sorriso di perspicace ironia che egli soleva avere nella vita di ogni giorno tra prossimi e tra estranei, e che mantiene imperturbabile anche nel momento supremo. L’invincibile sorriso latino, opposto al furore imbestiato, alla goffaggine mostruosa del barbaro. Il sorriso che distingue la plurimillenaria civiltà latina; la serena risposta al pericolo, basata sulla coscienza incrollabile del proprio valore; insomma la civiltà, la misura, diciamo pure l'eleganza nostra contrapposte al furore brutale, alla goffaggine mostruosa del nemico. “Dall’altra parte erano i bruti, con le loro ignominie” (sempre nella Licenza). L'ingiuria antigermanica si spiega con l'odio e il disprezzo dell’avversario, sentimenti peraltro alimentati da atti di ingiustificata barbarie,  come l'incendio della cattedrale di Reims, che aveva sollevato lo sdegno e la riprovazione di mezza Europa. Ma la contrapposizione – sappiamo – ha dietro di sé una lunga tradizione letteraria. Risale al Petrarca. Ricordate? Nella canzone Italia mia il poeta rammenta ai Signori che a vario titolo governavano  il bel Paese che la Natura aveva provvidenzialmente posto le Alpi tra noi – latin sangue gentile – e la tedesca rabbia. Basta che questi incauti governanti cambino atteggiamento, e Vertù contra furore / prenderà l’arme, e fia ’l combatter corto…

medaglia commemorativa 50° anniversario I Guerra mondiale

Medaglia commemorativa
50° anniversario I Guerra mondiale

Ma chi era, veramente, questo eroe fortunatissimo (almeno a giudizio di D’Annunzio), questo giovine fratello glorioso, dalla fine eroica reso immortale? Ahimè, è tanto fortunato, tanto glorioso, che non abbiamo certezza nemmeno del nome. (Tale la situazione presente, almeno per me, non specialista di studi dannunziani, e meno ancora di studi militari sulla prima guerra mondiale. Altri – ce lo auguriamo – potrà forse fornire notizie più ampie e precise).  La stampa italiana (il “Corriere della sera” di Milano, la “Stampa” di Torino…) lo conosce come Jean Rouher. Ma per “Le Figaro” si chiama Jean Ricauer. E non è detto che sia questo il suo vero nome! Il celebre quotidiano parigino non fa che riportare una Agence Radio, con la nuda notizia della morte e delle solenni onoranze: dati ripresi pari pari dai comunicati italiani. Di suo il giornale francese (o l’Agence Radio) non ci mette che la traduzione di qualche passo del discorso di D’Annunzio. Sbagliata. A noi non resta che onorarlo come l’Ignoto Alleato!



domenica, dicembre 03, 2017

D'Annunzio e il mito della bella morte - I





una folla di persona in Piazza del Campidoglio ascolta il discorso di D'Annunzio

Discorso dalla ringhiera del Campidoglio

 La ‘bella morte’ nelle opere di D’Annunzio coeve alla Grande Guerra

È noto che il mito della ‘bella morte’ alimentò tanta parte della retorica guerresca del ventennio. Ma anche in questo caso, come in altri, il fascismo si limitò ad appropriarsi un marchio altrui. L’immagine della ‘bella morte’, almeno con riferimento alla morte eroica in un contesto bellico, reca l’inconfondibile cifra dannunziana.
Appare per la prima volta – almeno a mia conoscenza – in uno dei più infuocati discorsi interventisti del poeta.
La sera del 17 maggio 1915, arringando dalla ringhiera del Campidoglio una folla di seguaci acclamanti, portati al delirio dal teatrale bacio sulla spada di Nino Bixio, D’Annunzio ricorda: “In quest’ora, cinquantacinque anni fa i Mille si partivano da Calatafimi espugnata ed eternata nei tempi dei tempi col loro sangue, che oggi ribolle come quel dei Protomartiri; si partivano, ebri di bella morte, verso Palermo”. Del resto, il concetto, il motivo poetico, se non l’immagine verbale, della bella morte ardentemente agognata, era già stato adombrato una dozzina di giorni avanti, sempre con riferimento alla celebre spedizione garibaldina. Commemorando la partenza dei Mille dallo scoglio di Quarto, l’oratore aveva evocato gli eroi ateniesi delle battaglie di Maratona e di Micale, a riprova del superiore eroismo dei garibaldini: “ché là erano schiere ordinate, navi munite, impeto disegnato, nemico aperto, ma qui non altro che un’ebra consecrazione all’ignoto, qui non altro che una nuda devozione alla morte”.

foto del tenente di vascello Giuseppe Miraglia
Giuseppe Miraglia,
generoso, spericolato pilota di idrovolanti:
uscito incolume da numerose incursioni  contro il nemico,
perisce in un incidente sopra l’acque del Lido di Venezia
durante  un tranquillo volo di prova
Quasi un calco dell’espressione troviamo nel Notturno. Immobilizzato a letto in seguito alla ferita riportata all’occhio destro in un incidente di guerra (vedi post Busoni e la morte di Boccioni), con irosa amarezza il poeta rimprovera ‘sorella morte’ di averlo due volte defraudato della fine eroica a lui spettante: la prima al momento della morte del fraterno amico Giuseppe Miraglia, “che s’era con lui giurato pel viaggio senza ritorno”; la seconda, “con un gioco fatale di ore, ella donò a un altro la bella sorte a cui quel medesimo m’aveva designato riconoscendomene degno per diritto divino”. Il riferimento, qui, è a un episodio del 18 febbraio 1916: D’Annunzio, già ferito all’occhio ma non ancora consapevole della gravità del caso, avrebbe dovuto far parte dell’equipaggio di uno tra i velivoli destinati a effettuare un bombardamento su obiettivi militari austriaci a Lubiana. In seguito a un contrattempo, il poeta arrivò tardi: il suo posto era stato preso dal tenente colonnello Alfredo Barbieri, il comandante che lo “aveva designato” riconoscendolo “degno per diritto divino”. 
L’impresa ebbe esito tragico. Lungo il tragitto, probabilmente per consentire agli altri apparecchi di giungere indisturbati a destinazione, il velivolo attirò su di sé la caccia nemica. Nel breve scontro rimasero uccisi Barbieri e il pilota Luigi Bailo; il secondo pilota, capitano Oreste Salomone, pur ferito rifiutò la resa e, volando basso in mezzo al fuoco nemico, riuscì a riportare in patria l’apparecchio malconcio e le salme dei compagni. 
 
D'Annunzio pensieroso accanto al velivolo ancora macchiato del sangue del ten. col. Barbieri che si era sostituito a lui
D’Annunzio pensieroso accanto al velivolo di Salomone
qualche ora dopo il rientro. Sulla fiancata destra,
traccia del sangue fuoruscito dalla testa reclinata del  Barbieri,
che aveva sostituito il poeta all’ultimo momento.
 L’immagine della bella morteritorna poi verso la conclusione del Notturno, proprio in un colloquio con Salomone (destinato a morire in un incidente aereo del febbraio 1918). D’Annunzio, ancora allettato per la ferita, è angosciato dall’idea di poter restare invalido, non più idoneo al combattimento. E legge nel cuore di Salomone un inespresso, analogo terrore (è, a sua volta, convalescente della ferita riportata nella spedizione di Lubiana e, almeno per il momento, il Comando gli ha vietato la partecipazione ad azioni di guerra aeronautica). “Siamo senz’ali” riconosce il poeta. E, quasi a consolarsi e a consolarlo, subito aggiunge: “C’è una gloria dell’alto e c’è una gloria del profondo. C’è una morte bella e c’è una morte ancor più bella.” È – spiega con un racconto “vero” ma volutamente posto “fuori del tempo e fuori del limite” – l’eroismo segreto di chi, per la patria, s’immola senza testimoni. E non è tutto. Perché, poco dopo, per mostragli come fa a scrivere al buio, prende uno dei suoi famosi listelli di carta, ci scrive sopra e glielo porge. Avvicinatosi alla finestra, Salomone può leggere un’ipotesi ancora più oltranzista: “Ma  se ci fosse una morte anche più bella?”. E su questa necessità di andare oltre la bella morte ritornerà ancora a conclusione del breve discorso dal titolo “Il vincitore non può vincere, il perditore non può perdere” (raccolto nella Riscossa): “Soldato tra soldati, io ricevo questo segno d’onore come il comando di perseverare sino al più duro sacrifizio e di là dalla bella morte”. 

Oreste Salomone a bordo di un velivolo militare

Oreste Salomone, prima medaglia d'oro dell'arma aeronautica

Il motivo della ‘bella morte’ è presente e operante anche dove l’espressione non appare.


Ma tutti gli scritti e i discorsi di questo periodo ne sono permeati. Anche là dove l’espressione non ricorre, il motivo è implicito, ne è l’anima segreta. Come spiegare altrimenti un fatto apparentemente strano, riscontrabile in tutte le allocuzioni rivolte ad ufficiali o semplici soldati, e dirette a suscitare coraggio, entusiasmo e ardore di lotta? Raramente l’oratore fa brillare davanti agli occhi dell’uditorio l’ebbrezza del trionfo, la bellezza della vittoria – peraltro data sempre per scontata. Più spesso mette sotto i loro occhi scene di morte e di atrocità, visioni più atte a suscitare orrore e ripulsa che fascino e attrazione. Mi limito a quello che per me è l’esempio più significativo, l’allocuzione di… diciamo di benvenuto, “Alle reclute del 1900”.
A voi è dato divampare incolpevoli dove il fuoco più divampa; è dato consumarvi nella sublimità di un furore in cui gli uomini trasumanano e s’immortalano. Ciascuno di voi è per essere un olocausto nell’olocausto del mondo.” (Che bello! Che sogno!) “I più beati impallidiscono dinanzi a tanta beatitudine. Beatissimi dovrà chiamarvi il poeta avvenire.”
E se le vostre madri – aggiunge – si sono congedate da voi con le lacrime agli occhi (invece che con fierezza e rabbia contro il nemico), pensate che dietro di loro c'erano tante madri in lutto, tante sorelle, fidanzate ecc. (evidentemente tutte in attesa di vendetta!). “E dietro tutto quel nero c’erano gli invalidi – prosegue, nel timore di non essere stato ancora abbastanza convincente – c’erano i mutilati, c’erano i monchi, gli stroppii, i rattratti, i torsi rimasti sugli inguini in luogo di calcagni, i visi rabberciati con le ricuciture e gli innesti, i santi mostri che stentano mezzi automi e mezzi uomini”… A dei ragazzi non ancora diciottenni!
E non manca il macabro:
C’è tuttora in quella foiba del Carso, di là dal Vallone del sangue, laggiù, verso Nova Villa, quello scheletro, scoperto dalla frana, lavato dalla bufera, rimasto in piedi contro il terriccio rosso, con i buchi del teschio rivolti contro il nemico? C’è tuttora, là, presso l’Osservatorio delle Bombarde, a ponente del Veliki, in quello scheggione d’inferno, quel braccio levato fuori dai sassi, col pugno chiuso, tutto un seccume tenace di cartilagini, di tendini e di ossi, rivolto contro il nemico?” A ragazzi appena giunti al fronte, ignari di cosa li attende e comprensibilmente angosciati!
Ora, io so bene che nell’adolescenza il bisogno di  autostima, e soprattutto di stima da parte dei coetanei, spinge i più insicuri a sfidare la morte, in modi più o meno diversamente intelligenti. Come non ignoro che molti giovani accorsero ad arruolarsi volontari, spinti da ideali profondi e senso del dovere – vedi Boccioni del post sopra citato – o  da più banale spirito di avventura. Ma – sbaglierò? – io credo che a nessuno di questi giovani entusiasti, a nessuno di quegli adolescenti bisognosi di stima, nemmeno ai più incoscienti di loro, sorrida o sorridesse l’idea di ritrovarsi torsi sugli inguini in luogo di calcagni, visi rabberciati con le ricuciture e gli innesti, mostri che stentano mezzi automi e mezzi uomini…
No, non è sadismo, quello di D’Annunzio. È lo splendore della “bella morte” che brilla ai suoi occhi seducente e inebriante. Ci crede veramente, lui. Come può pensare che altri ne rimanga insensibile?

 Stilnovismo di nuovo conio

Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che  non vogliamo”, riconoscerà, qualche anno dopo, un disincantato Montale. Ciò che siamo, ciò che vogliamo, il poeta ligure lo ignora. Anche l'abruzzese lo ignorava. “Non sapevamo quel che noi fossimo, non sapevamo quel che volessimo” confessa nel discorso tenuto “in una cena di compagni, all’alba del XXV maggio MCMXV”. Non lo sapeva, prima. “Ed ecco, sappiamo quello che siamo, sappiamo quel che vogliamo”. Rivelatrice del mistero dell'esistenza, la tanto e sì a lungo invocata, pretesa, sospirata dichiarazione di guerra. “O compagni” – dice – “questa guerra che sembra opera di distruzione e di abominazione, è la più feconda creatrice di bellezza e di virtù apparsa in terra”.
Come non cedere all'impressione che fin dal principio, fin dalle infiammate concioni interventiste, il compimento dell’unità d’Italia, “l’angoscia” di Trieste e delle altre terre irredente, non siano, tutto sommato, che una motivazione secondaria? Il tante volte gridato amor di patria, ardente, divorante amor di patria (sulla cui autenticità – peraltro – non si dubita) appare strumentale a qualcosa di più alto: la conquista di un'elevatezza, di una nobiltà di sentire che concretamente può esprimersi solo col sacrificio della vita per un grande ideale, con la “bella morte” in combattimento per la grandezza della patria. Insomma, se mi è consentito un accostamento indubbiamente peregrino, ci troviamo, qui, di fronte a una inattesa riedizione  del dolce stil novo. Per il “Poeta sacro” della Vita nova l’amore per Beatrice è strumento di elevazione e perfezionamento spirituale in senso cristiano e cavalleresco. Per il Vate abruzzese l’amor di patria è strumento di perfezionamento spirituale di tipo pagano, di un trasumanare verso l'immortalità. Una sorta di misticismo pagano, destinato, anche questo, a futuri sviluppi e deformazioni, come appare nelle farneticazioni del capomanipolo Niccolò Giani, e in quelle, ben altrimenti tragiche, di certe correnti del nazismo.

Ma come se l’immaginava, D’Annunzio, questa bella morte? L’esempio a mia conoscenza più sintetico, e al tempo stesso luminoso, lo troviamo in un suo breve discorso di commiato per un aviatore abbattuto nei cieli d’Italia nel 1916. Un aviatore straniero; un alleato. Discorso registrato dal “Corriere della sera” dell’epoca e, che io sappia, non più ripubblicato. Potrete leggerlo, accompagnato da qualche nota di commento, nel mio post prossimo venturo.