D’Annunzio oratore
in un dipinto di Marchioni
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Si tratta di un breve discorso di commiato, tenuto in occasione delle esequie di un aviatore francese, abbattuto nel cielo di Muggia nel corso
di un’operazione di bombardamento di hangar e cantieri navali austriaci.
Operazione coronata da successo, secondo l’agenzia Stefani:“numerosi e vasti incendi”; gli apparecchi rientrati
incolumi; tutti, “meno un idrovolante francese”: quello del nostro eroe. Tra i tanti partecipanti all'impresa, l'unico sfortunato. O, piuttosto, l’unico
veramente fortunato. Tale, almeno, è l’opinione del nostro Vate. Ma
ecco le sue parole.
Non convengono
lacrime né parole di compianto sul feretro di questo giovine alleato ch’ebbe in
sorte la fine di cui era degno, la fine di cui si faceva ogni giorno più degno,
aspettandola con cuore intrepido.
Nel commiato
funebre - scritto in quell’ora di presentimento che per gli eroi non è nube di
tristezza, ma una lucida accettazione - egli non augura ai suoi compagni se non
una bella morte. Egli sapeva che una bella morte è la suprema corona di un
combattente che nessun altro premio e nessun altro onore valuta – neppure una
vita utile. Egli l’ha ottenuta per sé, come sognava, altissima: è morto nella
sommità del giorno; è caduto sul mare come nella luce, come meteora diurna; ha
rigato del suo nobile sangue il più puro cielo italiano. Così come fu colpito
egli rimane scolpito nella nostra memoria chino sul bordo della carlinga a
osservare l’effetto della bomba che con mano maestra aveva messa sul bersaglio
destinato.
La fulminea morte
non ha potuto spegnere il suo sorriso,
quel sorriso di perspicace ironia che egli soleva avere nella vita di ogni giorno
tra prossimi e tra estranei, il sorriso della vecchia Francia, quel segno della
sua ottima razza che persiste ancora là, nel buio, sotto il piombo suggellato.
Chi l’ha veduto non può più dimenticarlo. Questo alato amante del rischio aveva
giovinezza ricchezza grazia – queste cose belle e della poesia – un’eleganza
dello spirito un po’ disdegnosa che ci seduceva, coraggio tranquillo, fede
chiara: aveva tutto, e quel sorriso. Egli ha tutto donato per la grande causa,
e il sorriso gli è rimasto. È quello della Francia in piedi sanguinante, è il
nostro, l’invincibile sorriso latino, opposto al furore imbestiato, alla
goffaggine mostruosa del barbaro: è un’arma spirituale che non si consuma, non
falla, non si vende e non si prende. Su l’esempio di questo giovine fratello
glorioso, noi la stiamo affilando e appuntando sopra una lunga ed aspra cote.
Ma già vi brilla, raggio diritto, certezza di vittoria!
Breve, splendido discorso di commiato. La figura del caduto ci si imprime nella mente come
quella di un eroe che, al culmine degli anni giovanili, conclude in bellezza la breve esistenza. Sempre aveva aspirato a cose alte, sublimi. Ed ecco, muore
“nella sommità del giorno”, lassù in alto in alto, nel cielo, e cade in un mare
di luce abbacinante, rigando “del suo nobile sangue il più puro cielo
italiano”. Sul viso, ancora quel sorriso che lo contraddistingueva, che tutti
gli riconoscevano. “Egli ha
tutto donato” ma quel “sorriso gli è
rimasto”. Fissato per sempre. Lo conserva anche nella morte,
persino nella bara. È ormai il suo contrassegno per l’eternità. Come nei personaggi danteschi vizi e virtù che li caratterizzarono in vita.
Quella fine l’eroe l’aveva vagheggiata tutta la vita, vi aveva mirato come al più alto premio della sua virtù. Giorno per giorno aveva lavorato alacremente per rendersene degno. Tanto bella la considera, e tanto desiderabile, che, presentendo la fine, nulla di meglio trova da augurare ai suoi compagni, ai suoi amici più cari.
Anche qui, dunque, la motivazione profonda dell’azione militare non è l’amore per la patria. La ‘promessa’ che alletta l’eroe ai mille e mille disagi della guerra, fino al sacrificio supremo, non è tanto la vittoria quanto una bella morte. La morte eroica non è strumento ad un fine più alto. È essa stessa il fine supremo. “Egli sapeva che una bella morte è la suprema corona di un combattente che nessun altro premio e nessun altro onore valuta – neppure una vita utile”.
Quella fine l’eroe l’aveva vagheggiata tutta la vita, vi aveva mirato come al più alto premio della sua virtù. Giorno per giorno aveva lavorato alacremente per rendersene degno. Tanto bella la considera, e tanto desiderabile, che, presentendo la fine, nulla di meglio trova da augurare ai suoi compagni, ai suoi amici più cari.
Anche qui, dunque, la motivazione profonda dell’azione militare non è l’amore per la patria. La ‘promessa’ che alletta l’eroe ai mille e mille disagi della guerra, fino al sacrificio supremo, non è tanto la vittoria quanto una bella morte. La morte eroica non è strumento ad un fine più alto. È essa stessa il fine supremo. “Egli sapeva che una bella morte è la suprema corona di un combattente che nessun altro premio e nessun altro onore valuta – neppure una vita utile”.
Una fine eroica, come quella del "giovine alleato", non lugubri
immagini di morte evoca, sì un trasumanare, un
sublimarsi della vita materiale in pura luce, in luminoso sorriso.
D’Annunzio arringa
i legionari fiumani
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L’immagine della luce associata all’eroismo – qui ribadita nel brilla della frase conclusiva – ritorna in altri scritti di questo periodo. Essa è particolarmente insistita nella prima parte della “Corona del fante”, discorso pronunziato per ringraziare i soldati che gli avevano offerto un “dura corona carsica”, nel quale troviamo quello che è forse il più splendido elogio del povero fante italiano. “Non c’era nulla fuorché macigni, scheggiame, tronchi tritati, spine di ferro, schianti, fumo, cadaveri”, ricorda, rievocando la conquista del Veliki (I novembre 1917: “una battaglia d’oro, in una luce d’Oriente”). “Ma c’era la luce italiana, c’era il meriggio d’Italia”.
Ancora più diffuso e insistito il motivo del sorriso, spesso associato a immagini di
sofferenza, ché “il più bel sorriso umano è il sorriso che luccica su i lembi
lacerati del dolore inumano” (Notturno).
E nella Licenza alla Leda senza cigno,
rievocando un convoglio di feriti francesi, così si esprime: “Tutti mi
sembravano belli. Il viso della Francia era in ciascun viso. In rilievi d’osso
e di muscoli vi si scolpiva il più maschio destino. Le recenti ferite non
parevano le cicatrici vecchie della nazione riaperte e riaccese? Un sorriso effuso in un volto bendato non
somigliava a quel primaverile sorriso
che il popolo vide schiudersi nelle statue delle sue cattedrali costrutte col
canto?”. Ed è ancora nella Licenza che trova
un preciso riscontro il sorriso della
vecchia Francia. Il poeta si trovava, ospite di amici, nelle vicinanze del
bosco di Meudon (Ile-de-France), intento anche lui ad addestrare i cani alle
gare di corsa, mentre poco lontano i soldati francesi tentavano come potevano
di arginare la travolgente avanzata tedesca. Uno di loro accorre ad avvisare
del pericolo imminente, “a consigliare lo sgombro rapido del casale”. “Ma noi
– ricorda il poeta all’amica Chiaroviso – avevamo imparato il sorriso di Francia, e rispondemmo con
quel sorriso”. Il sorriso impavido di chi all'imminente pericolo risponde con l'imperturbata calma del forte; il sorriso della Francia sanguinante ma non abbattuta, della Francia sanguinante ma in piedi! È il sorriso del giovane aviatore, quel sorriso di perspicace ironia che egli soleva avere nella vita di
ogni giorno tra prossimi e tra estranei, e che mantiene imperturbabile anche nel momento supremo. L’invincibile sorriso latino, opposto al furore imbestiato, alla
goffaggine mostruosa del barbaro. Il sorriso che distingue la plurimillenaria civiltà latina; la serena risposta al pericolo, basata sulla coscienza incrollabile del proprio valore; insomma la civiltà, la misura, diciamo pure l'eleganza nostra contrapposte al furore brutale, alla goffaggine mostruosa del nemico. “Dall’altra
parte erano i bruti, con le loro
ignominie” (sempre nella Licenza). L'ingiuria antigermanica si spiega con l'odio e il disprezzo dell’avversario, sentimenti peraltro alimentati da atti di ingiustificata barbarie,
come l'incendio della cattedrale di Reims, che aveva sollevato
lo sdegno e la riprovazione di mezza Europa. Ma la contrapposizione
– sappiamo – ha dietro di sé una lunga tradizione letteraria. Risale al Petrarca. Ricordate? Nella canzone Italia mia il poeta rammenta ai Signori che a vario titolo governavano il bel Paese che la Natura aveva provvidenzialmente
posto le Alpi tra noi – latin sangue
gentile – e la tedesca rabbia. Basta
che questi incauti governanti cambino atteggiamento, e Vertù contra furore / prenderà l’arme, e
fia ’l combatter corto…
Ma chi era, veramente, questo eroe fortunatissimo (almeno
a giudizio di D’Annunzio), questo giovine fratello
glorioso, dalla fine eroica reso immortale? Ahimè, è tanto fortunato, tanto glorioso, che non abbiamo certezza nemmeno del nome. (Tale la situazione presente, almeno per me, non specialista di studi dannunziani, e meno ancora di studi militari sulla prima guerra mondiale. Altri –
ce lo auguriamo – potrà forse fornire notizie più ampie e precise). La
stampa italiana (il “Corriere della sera” di Milano, la “Stampa” di Torino…) lo
conosce come Jean Rouher. Ma per “Le
Figaro” si chiama Jean Ricauer. E non è detto che sia questo il suo vero nome! Il celebre
quotidiano parigino non fa che riportare una Agence Radio,
con la nuda notizia della morte e delle solenni onoranze: dati ripresi pari
pari dai comunicati italiani. Di suo il giornale francese (o l’Agence Radio) non ci mette che la traduzione di
qualche passo del discorso di D’Annunzio. Sbagliata. A noi non resta che onorarlo come l’Ignoto
Alleato!
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