Discorso dalla
ringhiera del Campidoglio
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La ‘bella morte’ nelle opere di D’Annunzio coeve alla Grande Guerra
È noto che il mito della ‘bella morte’ alimentò tanta
parte della retorica guerresca del ventennio. Ma anche in questo caso, come in altri, il fascismo si limitò ad appropriarsi un marchio altrui.
L’immagine della ‘bella morte’, almeno con riferimento alla morte eroica in un
contesto bellico, reca l’inconfondibile cifra dannunziana.
Appare per la prima volta – almeno a mia conoscenza – in uno
dei più infuocati discorsi interventisti del poeta.
La sera del 17 maggio 1915, arringando dalla ringhiera
del Campidoglio una folla di seguaci acclamanti, portati al delirio dal teatrale
bacio sulla spada di Nino Bixio, D’Annunzio ricorda: “In quest’ora,
cinquantacinque anni fa i Mille si partivano da Calatafimi espugnata ed
eternata nei tempi dei tempi col loro sangue, che oggi ribolle come quel dei
Protomartiri; si partivano, ebri di
bella morte, verso Palermo”. Del resto, il concetto, il motivo poetico, se non l’immagine
verbale, della bella morte
ardentemente agognata, era già stato adombrato una dozzina di giorni avanti,
sempre con riferimento alla celebre spedizione garibaldina. Commemorando la
partenza dei Mille dallo scoglio di Quarto, l’oratore aveva evocato gli eroi
ateniesi delle battaglie di Maratona e di Micale, a riprova del superiore eroismo
dei garibaldini: “ché là erano schiere ordinate, navi munite, impeto disegnato,
nemico aperto, ma qui non altro che un’ebra consecrazione all’ignoto, qui non
altro che una nuda devozione alla morte”.
Giuseppe Miraglia,
generoso, spericolato pilota di idrovolanti:
uscito incolume da numerose incursioni contro il nemico,
perisce in un incidente sopra l’acque del Lido di
Venezia
durante un
tranquillo volo di prova
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L’impresa ebbe esito tragico. Lungo il tragitto, probabilmente per consentire agli altri apparecchi di giungere indisturbati a destinazione, il velivolo attirò su di sé la caccia nemica. Nel breve scontro rimasero uccisi Barbieri e il pilota Luigi Bailo; il secondo pilota, capitano Oreste Salomone, pur ferito rifiutò la resa e, volando basso in mezzo al fuoco nemico, riuscì a riportare in patria l’apparecchio malconcio e le salme dei compagni.
L’immagine della ‘bella morte’ ritorna poi verso la conclusione del Notturno, proprio in un colloquio con Salomone (destinato a morire in un incidente aereo del febbraio 1918). D’Annunzio, ancora allettato per la ferita, è angosciato dall’idea di poter restare invalido, non più idoneo al combattimento. E legge nel cuore di Salomone un inespresso, analogo terrore (è, a sua volta, convalescente della ferita riportata nella spedizione di Lubiana e, almeno per il momento, il Comando gli ha vietato la partecipazione ad azioni di guerra aeronautica). “Siamo senz’ali” riconosce il poeta. E, quasi a consolarsi e a consolarlo, subito aggiunge: “C’è una gloria dell’alto e c’è una gloria del profondo. C’è una morte bella e c’è una morte ancor più bella.” È – spiega con un racconto “vero” ma volutamente posto “fuori del tempo e fuori del limite” – l’eroismo segreto di chi, per la patria, s’immola senza testimoni. E non è tutto. Perché, poco dopo, per mostragli come fa a scrivere al buio, prende uno dei suoi famosi listelli di carta, ci scrive sopra e glielo porge. Avvicinatosi alla finestra, Salomone può leggere un’ipotesi ancora più oltranzista: “Ma se ci fosse una morte anche più bella?”. E su questa necessità di andare oltre la bella morte ritornerà ancora a conclusione del breve discorso dal titolo “Il vincitore non può vincere, il perditore non può perdere” (raccolto nella Riscossa): “Soldato tra soldati, io ricevo questo segno d’onore come il comando di perseverare sino al più duro sacrifizio e di là dalla bella morte”.
Il motivo della ‘bella morte’ è presente e operante anche dove l’espressione non appare.
Ma tutti gli scritti e i discorsi di questo periodo ne
sono permeati. Anche là dove l’espressione non ricorre, il motivo è implicito, ne
è l’anima segreta. Come spiegare altrimenti un fatto apparentemente strano,
riscontrabile in tutte le allocuzioni rivolte ad ufficiali o semplici soldati,
e dirette a suscitare coraggio, entusiasmo e ardore di lotta? Raramente l’oratore
fa brillare davanti agli occhi dell’uditorio l’ebbrezza del trionfo, la bellezza della vittoria –
peraltro data sempre per scontata. Più spesso mette sotto
i loro occhi scene di morte e di atrocità, visioni più atte a suscitare orrore
e ripulsa che fascino e attrazione. Mi limito a quello che per me è l’esempio
più significativo, l’allocuzione di… diciamo di benvenuto, “Alle reclute del
1900”.
“A voi è dato
divampare incolpevoli dove il fuoco più divampa; è dato consumarvi nella
sublimità di un furore in cui gli uomini trasumanano e s’immortalano. Ciascuno
di voi è per essere un olocausto nell’olocausto del mondo.” (Che bello! Che
sogno!) “I più beati impallidiscono
dinanzi a tanta beatitudine. Beatissimi dovrà chiamarvi il poeta avvenire.”
E se le vostre madri – aggiunge – si sono congedate da
voi con le lacrime agli occhi (invece che con fierezza e rabbia contro il
nemico), pensate che dietro di loro c'erano tante madri in lutto, tante
sorelle, fidanzate ecc. (evidentemente tutte in attesa di vendetta!). “E dietro tutto quel nero c’erano gli invalidi –
prosegue, nel timore di non essere stato ancora abbastanza convincente – c’erano i mutilati,
c’erano i monchi, gli stroppii, i rattratti, i torsi rimasti sugli inguini in
luogo di calcagni, i visi rabberciati con le ricuciture e gli innesti, i santi
mostri che stentano mezzi automi e mezzi uomini”… A dei ragazzi non ancora
diciottenni!
E non manca il macabro:
“C’è tuttora in quella
foiba del Carso, di là dal Vallone del sangue, laggiù, verso Nova Villa, quello
scheletro, scoperto dalla frana, lavato dalla bufera, rimasto in piedi contro
il terriccio rosso, con i buchi del teschio rivolti contro il nemico? C’è
tuttora, là, presso l’Osservatorio delle Bombarde, a ponente del Veliki, in
quello scheggione d’inferno, quel braccio levato fuori dai sassi, col pugno
chiuso, tutto un seccume tenace di cartilagini, di tendini e di ossi, rivolto
contro il nemico?” A ragazzi appena giunti al fronte, ignari di cosa li
attende e comprensibilmente angosciati!
Ora, io so bene che nell’adolescenza il bisogno di autostima, e soprattutto di stima da parte dei
coetanei, spinge i più insicuri a sfidare la morte, in modi più o meno
diversamente intelligenti. Come non ignoro che molti giovani
accorsero ad arruolarsi volontari, spinti da ideali profondi e senso del dovere
– vedi Boccioni del post sopra citato – o
da più banale spirito di avventura. Ma – sbaglierò? – io credo che a nessuno di questi giovani entusiasti, a nessuno di quegli adolescenti bisognosi di stima, nemmeno ai più
incoscienti di loro, sorrida o sorridesse l’idea di ritrovarsi
torsi sugli inguini in luogo di calcagni, visi rabberciati con le ricuciture e gli innesti, mostri che
stentano mezzi automi e mezzi uomini…
No, non è sadismo, quello di D’Annunzio. È lo
splendore della “bella morte” che brilla ai suoi occhi seducente e inebriante. Ci crede
veramente, lui. Come può pensare che altri ne rimanga insensibile?
Stilnovismo di nuovo conio
“Codesto solo oggi
possiamo dirti, / ciò che non siamo,
ciò che non vogliamo”, riconoscerà, qualche anno dopo, un
disincantato Montale. Ciò che siamo, ciò che vogliamo, il poeta ligure lo ignora. Anche l'abruzzese lo ignorava. “Non sapevamo quel che noi fossimo, non sapevamo quel che volessimo”
confessa nel discorso tenuto “in una cena di compagni, all’alba del XXV maggio
MCMXV”. Non lo sapeva, prima. “Ed ecco, sappiamo quello
che siamo, sappiamo quel che vogliamo”. Rivelatrice del mistero dell'esistenza, la tanto e sì a lungo invocata, pretesa, sospirata dichiarazione
di guerra. “O compagni” – dice – “questa
guerra che sembra opera di distruzione e di abominazione, è la più feconda creatrice di bellezza e
di virtù apparsa in terra”.
Come non cedere all'impressione che fin dal
principio, fin dalle infiammate concioni interventiste, il compimento
dell’unità d’Italia, “l’angoscia” di Trieste e delle altre terre irredente,
non siano, tutto sommato, che una motivazione secondaria? Il tante volte gridato amor di patria, ardente, divorante amor di patria (sulla cui autenticità – peraltro – non si dubita) appare
strumentale a qualcosa di più alto: la conquista di un'elevatezza, di una nobiltà di sentire che concretamente può esprimersi solo col sacrificio della vita per un grande ideale, con la “bella morte” in
combattimento per la grandezza della patria. Insomma, se mi è consentito un accostamento indubbiamente peregrino,
ci troviamo, qui, di fronte a una inattesa riedizione del dolce stil novo. Per il “Poeta sacro”
della Vita nova l’amore per Beatrice
è strumento di elevazione e perfezionamento spirituale in senso cristiano e
cavalleresco. Per il Vate abruzzese l’amor di patria è strumento di
perfezionamento spirituale di tipo pagano, di un trasumanare verso l'immortalità. Una sorta di misticismo pagano, destinato,
anche questo, a futuri sviluppi e deformazioni, come appare nelle farneticazioni
del capomanipolo Niccolò Giani, e in quelle, ben altrimenti tragiche, di certe
correnti del nazismo.
Ma come se l’immaginava, D’Annunzio, questa bella morte? L’esempio a mia conoscenza più sintetico, e al tempo stesso luminoso, lo
troviamo in un suo breve discorso di commiato per un aviatore abbattuto nei
cieli d’Italia nel 1916. Un aviatore straniero; un alleato. Discorso registrato
dal “Corriere della sera” dell’epoca e, che io sappia, non più ripubblicato. Potrete
leggerlo, accompagnato da qualche nota di commento, nel mio post prossimo venturo.
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