domenica, aprile 24, 2016

Montale e Leoncavallo. La recensione di Montale al Mameli di Leoncavallo.








 Il Mameli: capolavoro o “rutto musicale”?



Cent’anni fa – precisamente il 27 aprile 1916 – veniva presentata al teatro “Carlo Felice” di Genova l’opera Goffredo Mameli di Ruggero Leoncavallo, tributo del musicista alla causa della guerra.

La scelta del soggetto risultò quanto mai appropriata al momento, e, forse anche per questo, l’opera suscitò vasti consensi, e fu replicata in varie città italiane.

Successo soprattutto di pubblico, mentre da parte dei critici non mancarono riserve, anche se in genere l’esito complessivo fu giudicato soddisfacente.

Così l’anonimo recensore del Corriere della Sera (28 aprile 1916), ne sottolinea il “garbo” e la “distinzione” della strumentazione, “varia, colorita”, “scevra di bizzarrie eccessive”; la ricchezza e la felicità della “vena melodica”; la discrezione nell’impiego di canti patriottici. E pronostica all’opera una “carriera forse non lunga”, ma “tuttavia tale da compensare la fatica non grande spesa nel concepirla e nello scriverla.” Dove, accanto alla frecciata alla scarsa accuratezza del lavoro, troviamo quell’inciso che a distanza di un secolo appare profetico: l’opera, infatti, dopo le varie repliche in diversi teatri della penisola, scomparve definitivamente dal repertorio. (Per la verità, negli ultimi cinque anni si sono registrate un paio di riprese documentarie; una, però, solo per canto e pianoforte).

Più ottimista Lo Staffile (chi l’avrebbe detto, con quel titolo minaccioso!). Leoncavallo – scrive l’anonimo recensore – “ha composto pagine ora esuberanti di impeto drammatico, ora piene di dolcissima melodia. La musica del Mameli ha ali per poter spiccare altissimi voli, ed è destinata a incontrare il favore di ogni pubblico come ha ottenuto ora quello dell’uditorio genovese.”

Nettamente avversi solo sporadici interventi, fortemente condizionati da pregiudizi ideologici.

Così Arturo Rossato – interventista e volontario, ma già provato dall’esperienza della guerra vera, troppo diversa dalla vagheggiata “sola igiene del mondo”, e futuro librettista di opere e operette – firma con lo pseudonimo Arros un breve quanto violento articolo sul Popolo d’Italia del 29 aprile.

“Ma due imbecilli – oggi –“ scrive Arros dopo aver tessuto l’elogio di Mameli, “acchiappano per le ali questa canzone, e questa giovinezza e la buttano sulla scena, vestita da prima donna e da tenore; ma un bue dal ventre rimbombante di rutti musicali […], che pochi anni or sono riempiva di note la pancia di un Rollando [sic] per incarico dell’imperatore tedesco, oggi ci imbelletta anche questo soldato morto e lo obbliga a cantarci la romanza e il duetto.”

L’Avanti! (9 maggio 1916), dal canto suo, si limita a una vignetta: Mameli, levandosi dalla tomba contro un Leoncavallo in livrea prussiana, gli grida: “Lasciatemi stare, e scrivete, invece, il “Rigoletto” buffone del re … di Prussia!” .

L’insinuazione dei due giornali era ingenerosa e ingiusta: Leoncavallo aveva sì composto, a richiesta di Guglielmo II, il Rolando di Berlino, ma già a settembre 1914 – diversamente da operisti del calibro di Mascagni e Puccini – aveva sottoscritto la protesta dell’Associazione artistica internazionale contro il bombardamento tedesco della cattedrale di Reims – adesione che gli era costata l’immediata esclusione delle sue opere dalle programmazioni del redditizio mercato di lingua tedesca (e le ire del suo editore Sonzogno!) – e, con l’entrata in guerra dell’Italia, aveva rispedito al mittente le onorificenze ricevute dal Kaiser. E aveva, d’altro parte – lui che proprio in quell’anno per difficoltà economiche sarebbe stato costretto a vendere la villa di Brissago – devoluto alla Croce rossa gli incassi dell’esecuzione genovese, di cui peraltro si era accollato i costi.

Persino Giannotto Bastianelli, tra i più convinti propugnatori dell’innovazione, scrivendo sulla Nazione del 27 maggio, in occasione della ripresa fiorentina,  rimproverava sì all’opera insufficienza di elaborazione, ma finiva col riconoscere che “qualche lampo di forma definitiva c’è”, e invitava modestamente l’autore a riprenderla in mano per approfondirla, libero ormai dall’assillo di non mancare l’occasione .



Due autori per un articolo: un incompetente e un indovino



Ma tra tanti interventi di autori più o meno quotati e temibili, la recensione che ancor oggi intriga maggiormente appartiene a un critico non ancora ventenne, all’epoca assolutamente sconosciuto, almeno in quella veste: Eugenio Montale. Il suo pezzo apparve sul genovese “Il Piccolo” (28 aprile 1916), ma non col suo nome. Racconta l’episodio lo stesso poeta, in un’intervista televisiva concessa a Leone Piccioni nel 1966, ancora rintracciabile in rete. Alla domanda se la sua recensione del Giro di vite di Britten (1955) fosse la sua prima volta, Montale risponde prontamente:



 “Era la seconda volta. Molti anni prima – non ricordo la data – quando a Genova si dette il Mameli di Ruggero Leoncavallo […] io incontrai una sera Vittorio Guerriero, che poi dopo fu noto come autore di romanzi, ebbe tante vicissitudini anche politiche – ora è morto, poveraccio – era critico musicale d’un giornale, che mi pare si chiamasse Il Piccolo, e mi diceva “Io non m’intendo affatto di opera, non so perché mi abbiano fatto critico musicale. Tu devi scrivere un articolo su quest’opera”. “Ma io non l’ho mai sentita – dico – l’opera… si stava svolgendo l’opera… noi eravamo nei sotterranei del Teatro, al caffè del Teatro… Insomma, io scrissi l’articolo senz’aver sentito questo Mameli. L’articolo fu pubblicato. Poi dopo conobbi Leoncavallo, il quale mi dichiarò che mai nessun critico lo aveva compreso così profondamente”.





Scrivere di un’opera mai sentita (e risultare convincente!)


Montale intento a leggere

Due cose, di questa storia, incuriosiscono particolarmente: 1) l’azzardo di scrivere di un’opera lirica mai ascoltata (e riuscire convincente!); 2) la paradossale dichiarazione di Leoncavallo.



Partiamo da alcune considerazioni preliminari.

Premesso che Montale fu sempre appassionato di lirica, e che, proprio in quegli anni, studiava canto da baritono, ci sembra ragionevole dare per plausibili alcune ipotesi di partenza:

a)      Montale conosceva l’ambiente della lirica e in particolare (ma non necessariamente di persona) il baritono spezzino Emilio Bione, che proprio a Genova aveva, nel 1908, dato inizio a una carriera di grandi successi, e che nel Mameli interpretava il ruolo di Terzaghi;

b)      non poteva non conoscere un compositore molto popolare come Leoncavallo, anche se il fatto che quella sera invece che in platea si trovasse al Caffè del Teatro sembra avallare l’ipotesi che non ne avesse particolare stima;

c)      lo spregiudicato quanto incompetente critico musicale del “Piccolo” (ma bisogna ricordare che Vittorio Guerriero aveva appena diciotto anni), certamente conosceva il libretto (ne aveva parlato sullo stesso giornale qualche giorno prima) e non avrà mancato di ragguagliarne l’amico compiacente. (Un indizio che Montale parla del libretto per sentito dire possiamo vederlo nella disarmante genericità della critica (peraltro, almeno a nostro parere, fondata) sulla qualità della versificazione: “dei versi, i quali potrebbero essere molto, ma molto censurabili (!; sottolineatura nostra).

Resta, dunque, da stabilire dove abbia attinto le informazioni sulle caratteristiche della musica, le prestazioni degli interpreti e le reazioni del pubblico.

Sul tema di interpreti e pubblico (su cui dà informazioni precise ed esatte) è facile ipotizzare che l’improvvisato critico si sia attivato per domandarne alle persone in uscita. Ma … la qualità della musica? Poteva fidarsi, anche su questo, del primo spettatore in uscita disposto a far due chiacchiere?

Cerchiamo di capirne qualcosa di più, partendo dalle sue osservazioni.

Dopo aver constatato che nella musica del Mameli non si riscontra “nessuna tendenza nuova”, Montale passa all’analisi di pregi e difetti, che possiamo così sintetizzare:

Pregi:

a)      predominio della “vena melodica”, che è “naturalmente limpida, facile e italiana”;

b)      sulla scia dei “nostri padri”, Leoncavallo si tiene “lontano da quelle astruserie di raccatto e dalle vacue velleità pseudowagneriane”;

c)      anche Leoncavallo “ha progredito”, ma con “parsimonia”, senza mai tradire se stesso.

Difetti:

a)      “in qualche punto, una leggera tendenza massenetiana alla leziosità poté sembrare falsa e inopportuna”;

b)      “talvolta il taglio e lo svolgimento di qualche melodia ha destato in noi qualche eco non nuova”; 

c)      qua e là una certa “enfasi declamatoria”.

Nel complesso:

quella del Mameli è una musica che evidenzia un sicuro progresso “nel campo degli studi strumentali”, senza tuttavia avventurarsi nelle “selve selvaggie” armoniche “predilette tanto da certi suoi colleghi” (evidente riferimento – crediamo – alle “vacue velleità pseudowagneriane” e all’abuso di scale esatonali di matrice debussiana, care agli innovatori.



Ci sembra che, tutto sommato, ne venga fuori una descrizione abbastanza generica, per la quale, a un giovane come Montale, forse poteva bastare la conoscenza ‘pregressa’ dell’autore. A parte due particolari importanti: il richiamo alla “leziosità massenetiana” e l’esclusione di “astruserie di raccatto” e di “velleità pseudowagneriane”. Eppure l’idea che Montale, su questo argomento centrale, abbia osato inventarsi tutto da solo non ci persuade. Non potrebbe, invece, aver interpellato – non il primo venuto, certo – ma qualche spettatore ‘accreditato’? Un ‘collega’ recensore, per esempio!  C’è, tra i recensori presenti a quella ‘prima’, qualcuno che più di altri può aver influenzato Montale?

Notiamo, anzitutto, che nessuna delle recensioni avute sott’occhio parla di prestiti massenetiani. Al contrario, almeno una – quella del Corriere della Sera, la più minuziosa nell’analisi musicale –, dopo aver accennato a Donizzetti, al Verdi “prima e seconda maniera”, a Ponchielli, e a “inquietanti” oscillazioni fra “il vecchio melodramma e la giovane scuola italiana”, fa esplicito riferimento al  “carattere wagneriano” del “bel movimento orchestrale (…) che prepara la visione profetica di Mameli”.

Altro fatto significativo: tra i ‘colleghi’ in sala, Montale dice di aver notato “Severino Santi, inviato speciale della Tribuna”. Ed è l’unico di cui faccia cenno. Perché? Viene spontaneo pensare che per il giovane poeta fosse una persona nota. Penso, però,  di poter affermare con ragionevole sicurezza che Montale non conoscesse neppure di nome l’inviato speciale della Tribuna – che pure era effettivamente presente. Tant’è vero che il nome lo sbaglia. Il giornalista, infatti – un siciliano di Partinico – si chiamava Santi (nome) Savarino (cognome). L’errore commesso da Montale è tipico di chi, non avendo sentito distintamente, supplisce in base alle nozioni più familiari. Mi sembra, quindi, non troppo azzardato ipotizzare che, all’improvvisato recensore, il redattore della Tribuna sia stato presentato proprio quella sera, e che, nella confusione, l’esordiente critico abbia sentito “Santi Severino”, e pensato che il presentatore, o lo stesso interessato, avesse invertito il normale ordine nome/cognome. In ogni caso, se l’ipotesi regge, è naturale che Montale abbia posto domande circa lo spettacolo e ne abbia avuto risposte che cercò di memorizzare. L’analisi del pezzo del Savarino non offre prove, ma qualche indizio sì.

Il giornalista siciliano si mostra entusiasta non meno delle prestazioni degli interpreti, che della musica e del libretto (del suo caporedattore Gualtiero Belvederi, ma Savarino ha già messo le mani avanti: parlerà, come sempre, con franchezza, sine ira et studio!). Gli sembra, anzi, che l’accoglienza da parte del pubblico – pure calorosa – avrebbe potuto, e dovuto, essere più entusiastica, se l’uditorio, non meno dei critici, non fosse stato inibito da ingiustificati pregiudizi verso l’autore, e da un “pudore strano di fanciulla maliziosa”, che gli ha impedito di accogliere e manifestare liberamente la propria straripante commozione.

Della musica, a parte l’insistenza, condita di retorica, sulle emozioni suscitate, non dice molto. Sottolinea, però, la presenza di “un rivolo perenne di melodia palpitante, dominante, trascinante”, e più in generale il fatto che “nella frequenza delle melodie, nel trapunto armonico, nella freschezza dello strumentale” vibri “quel sentimento della razza che ci fa fieri e orgogliosi di essere italiani”. Rivendica a Leoncavallo il merito di non confondere la “scienza” musicale, senz’altro importante, con gli stravolgimenti dei “neo-debussiani – non di Debussy – che delle eccezioni hanno fatto le regole e delle regole le eccezioni”. E bene ha fatto, il Maestro napoletano, a ricordarsi, nel comporre il Mameli, delle sue opere precedenti, del suo Rolando e di Chatterton e anche dei Pagliacci.

Ecco, a me sembra che in alcuni punti dell’analisi montaliana si possa vedere il riflesso, depurato di quel tanto di retorica che ripugnava alla natura del poeta, degli enfatici apprezzamenti di Savarino.  Così l’esaltazione della ricchezza della vena melodica, e l’orgogliosa rivendicazione dell’italianità della musica del Mameli, nella più temperata prosa del poeta ligure si sarebbero tradotte nella segnalazione della preponderanza di una linea melodica tutta italiana. Il merito, riconosciuto a Leoncavallo, di aver saputo progredire senza mai cadere nelle “astruserie di raccatto”, nelle “selve selvaggie” armoniche e nelle “vacue velleità wagneriane” potrebbe essere sviluppo montaliano delle analoghe osservazioni di Savarino. E la precisa affermazione di quest’ultimo che nel Mameli il musicista avrebbe reimpiegato elementi già presenti in Chatterton, Rolando e Pagliacci (osservazione, peraltro, esatta, almeno per le prime due opere) si è probabilmente tradotta, nel poeta che non poteva avere altrettanta sicurezza, nel più cauto e generico “ha destato in noi qualche eco non nuova”. E così l’“impetuoso entusiasmo che irrompe e travolge e abbatte” poté suscitare, nell’antiretorico poeta degli Ossi, il sospetto dell’“enfasi declamatoria”.

Ma c’è ancora un’altra possibilità.  

Nell’articolo pubblicato sul Piccolo, dopo la citata riserva sulla qualità dei versi del libretto, l’autore esprime l’opinione che “ogni musico dovrebbe essere autolibrettista”, e prosegue: “Del resto abbiamo constatato, e purtroppo anche recentemente, quanto poco giovi a un mediocre musicista il gentile soccorso di una trama di dolci e canore sillabe, siano pur esse dettate dalla Musa del maggior poeta e barocco, che l’Italia ha da molti anni prodotto”. Ma nella raccolta antologica Prime alla Scala, curata da Gianfranca Lavezzi, e autorizzata dall’autore, le parole da “siano” alla fine del periodo risultano censurate. Stefano Verdino, nella sua Storia delle riviste genovesi, avanza l’ipotesi che il poeta si riferisca al suo amico carissimo Ceccardo Ceccardi Roccatagliata, e che il riferimento avesse lo scopo di scindere le responsabilità di quest’ultimo dall’esito disastroso dell’opera Don Chisciotte, caduta miseramente, poco più d’un mese prima proprio al Carlo Felice, per evidente inadeguatezza della musica di Guido Dall’Orso.

L’ipotesi di Verdino è sostenuta con buone ragioni. Tuttavia il riferimento continua a sembrarci francamente fuori luogo, e l’elogio talmente iperbolico da risultare inspiegabile (e da aver probabilmente motivato la tardiva espunzione). Il fatto, tuttavia, potrebbe apparire meno strano se fosse vero che i due amici ne avessero riparlato, del fiasco del Chisciotte, proprio in quella occasione, magari in margine ai commenti all’opera appena eseguita, intramezzati da inevitabili confronti tra le due opere. La freschezza della rievocazione e l’adesione di Montale alle chiose e alle ragioni di Ceccardo avrebbero quanto meno favorito l’idea del riferimento apologetico e l’iperbole della lode. Naturalmente, noi non abbiamo prove che Roccatagliata fosse presente alla prima del Mameli, ma, data la sua attività di librettista, è difficile che abbia mancato di assistere a un’opera ampiamente pubblicizzata e che aveva come protagonista il celebre poeta-eroe del Risorgimento suo concittadino. E’ un’ipotesi, e come tale la presentiamo, con ogni beneficio d’inventario.





Parlare di un’opera mai sentita, e mostrare di averla capita meglio di chiunque altro



Altrettanto problematica la dichiarazione di Leoncavallo ricordata da Montale.

Prima di tutto: come fa il musicista a sapere che la recensione firmata da Guerriero in realtà era stata scritta da Montale? Si possono arrischiare due ipotesi. La prima è che il musicista si sia messo in contatto con Guerriero e questi gli abbia confessato la verità. La seconda – meno improbabile – è che nell’incontro con Leoncavallo – e sarebbe interessante sapere quando avvenuto – sia stato il poeta stesso a rivelarlo.

Poi c’è la paradossale – date le circostanze – affermazione che “mai nessun critico lo aveva compreso così profondamente”; dove, oltretutto, l’allusione alla profondità della comprensione parrebbe implicare una natura esegetica che l’articolo montaliano chiaramente non ha. Tutt’al più si può pensare che il musicista volesse estensivamente riferirsi alla comprensione dei caratteri della sua musica. Ma anche così, non pare  che nello scritto di Montale ci siano elementi tali da giustificare appieno una dichiarazione tanto impegnativa. Forse Leoncavallo, volendo esprimere la propria gratitudine per gli aspetti positivi sottolineati dal recensore, ha un po’ calcato la mano nei complimenti, rasentando la piaggeria. O forse è Montale ad avere esagerato, magari proprio per la memoria imprecisa di un episodio tanto lontano, trasformando un’approvazione ammirativa dettata da gratitudine in un apprezzamento tanto più lusinghiero. Una piccola vanità che potremmo ben perdonare al grande poeta; tanto più che il sorridente compiacimento per la propria giovanile bravura è espresso con spirito, e – sembra di vederlo – con una strizzatina d’occhio a chi sulla competenza e affidabilità dei giudizi dei recensori si ostinasse a nutrire ancora qualche dubbio. 





Un’opera che non annoia!


Ruggero Leoncavallo

Oh, a proposito: a meno che non siate prevenuti contro il melodramma e il duetto (d’amore, naturalmente!), e che non siate allergici alle dichiarazioni d’amor patrio di sapore ottocentesco, ascoltatela, quest’opera, qualora ne abbiate la possibilità. Non manca qualche tratto di enfasi retorica (anche nel testo poetico), e sicuramente c’è qualche clangore e qualche finta cannonata di troppo, ma non è male. Garantisce Montale: il Mameli è sostanziato di una musica che “se non si leva a sublimi altezze sa, nullameno, parlarci un suo linguaggio sincero e animoso”. E se non vi fidate di Montale, che l’opera non l’ha mai sentita, fidatevi almeno dell’anonimo cronista del Corriere, che l’ha ben sentita, e trovata non “profonda né entusiasmante, ma certamente neppure noiosa”.