[È,
questo, il primo di una breve serie di post dedicati al melodramma di Roffredo
Caetani sulla fine di Ipazia, studiosa alessandrina del IV-V sec. d.C.
Partiremo dalla figura storica della protagonista (I), per passare alle
circostanze e responsabilità della sua tragica fine (II), e proseguire con
l’esame del libretto e della musica dell’“azione drammatica” caetaniana (III e
IV). Le immagini riportate a
illustrazione dell'articolo non sono ritratti d'Ipazia – ne precedono la nascita di ben tre secoli! – ma esemplificano (almeno le prime tre) la
condizione delle donne nel mondo greco-romano in fatto di istruzione: non pari
all'uomo, ma certo molto meno ignoranti di quanto certuni amano fantasticare.]
1. La “mia” Ipazia
La conobbi nei
miei studi universitari di letteratura greca. La reincontrai negli studi di
letteratura greco-cristiana, in relazione alle vere o presunte responsabilità del
focoso vescovo Cirillo di Alessandria nella sua tragica fine. E da allora fu per me una
delle figure femminili più affascinanti della tarda antichità.
A rendermela cara non furono le poche righe a lei
dedicate dalle storie letterarie (poco o nulla ci resta dei suoi numerosi scritti,
a parte la revisione del III libro del paterno Commento all’Almagesto), quanto il resoconto della sua uccisione e,
più ancora, le poche lettere a lei indirizzate da Sinesio di Cirene. Naturalmente
una donna così affascinante sul piano intellettuale e morale mi compiacqui di
figurarmela bella. E fui lieto di trovarne conferma nelle cosiddette fonti.
«Viveva in castità, pur essendo talmente bella e di bell’aspetto, che uno dei suoi giovani
frequentatori si innamorò perdutamente di lei» leggiamo nella Suda.
Vero è che la Suda
è un lessico bizantino, compilato verso la fine del x sec., sulla base di documenti non sempre attendibili. E che lo sbrigativo e poco elegante espediente con
cui Ipazia avrebbe “guarito” dall’insana passione lo spasimante “giovinetto” appannò
un po’ l’immagine idealizzata che me n’ero fatta. Ma l’accenno
all’eccezionalità della sua bellezza lo ritenni, allora, testimonianza
inconfutabile. Del resto, poiché nessuna fonte afferma il contrario, possiamo
ben continuare a immaginarcela bella, a gusto di ciascuno. Permettetemi, però,
di aggiungere che, a rendermela ancora più fascinosa, è proprio il fatto che le
fonti più attendibili attribuiscono la stima e l’affetto, di cui la circondarono
quanti la conobbero, esclusivamente alle sue doti spirituali e morali, senza
far cenno del suo aspetto fisico.
Poi passai ad altri studi e altre occupazioni. E
l’immagine dell’affascinante studiosa alessandrina regredì in un
angolino semibuio della mia coscienza. Né valsero a trarla fuori le sparse
notizie di più o meno recenti strumentalizzazioni della sua persona. L’interesse
fu invece prontamente risvegliato dall’“azione lirica” a lei dedicata da
Roffredo Caetani. L’immagine dell’amabile pensatrice alessandrina mi si
ripresentò prepotente e m’indusse a orientare i miei studi verso questo a me
ignoto e generalmente misconosciuto compositore.
Ma torniamo a Ipazia, o Hypatia (pronuncia “Ipàzia”) secondo la trascrizione fedele al
latino in voga ai primi del Novecento. Tranquilli: non vi annoierò con sottili
disquisizioni erudite. Non mi curerò – almeno per il momento – nemmeno di
confutare e raddrizzare le distorsioni perpetrate ai suoi danni da “studi”
viziati da pregiudizi anticlericali e, ultimamente, soprattutto femministi. Vi
presenterò la “mia” Ipazia, come la conobbi e l’amai basandomi esclusivamente
su un’onesta lettura delle fonti.
2. La studiosa
O come questa “liceale”
(sempre da Pompei)
anche lei molto
giudiziosa:
riflettere, prima
di scrivere!
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3. L’amica di Sinesio di Cirene
Raffinato cultore di lettere, più che di filosofia, Sinesio nacque a Cirene (Libia) verso il
370. Si accostò al cristianesimo timidamente e tra molte remore. Tuttavia,
forse anche in seguito alla fama che si era guadagnato per aver saputo
strappare all’imperatore Arcadio sgravi fiscali per la sua patria, nel 409-410 il
popolo della città libica di Tolemaide lo volle vescovo. Colto di sorpresa,
Sinesio cercò di esimersi, spiegando con franchezza i motivi che ne avrebbero
dovuto sconsigliare l’elezione: lui poteva bensì aderire alla sostanza della
dottrina e morale cristiana, ma non se la sentiva di condividerne tutti i dogmi
(per esempio, la resurrezione dei morti) né l’ascetismo dominante negli
ambienti ecclesiastici o, più propriamente, monastici. Ma non servì a nulla: il
popolo lo volle vescovo, e a lui non restò che accostarsi ai sacramenti, dal
battesimo (neanche quello aveva!) all’ordinazione sacerdotale, alla
consacrazione episcopale. Accettato l’incarico, agì con l’onestà e l’energia
che lo caratterizzavano: risanò l’amministrazione ecclesiastica e si oppose
validamente a un’incursione di barbari. Purtroppo il suo
governo durò poco: morì dopo soli tre anni, distrutto dal dolore per la morte
prematura dei suoi tre figli, scomparsi nel giro di un anno o poco più.
O come questa
giovane donna
(ancora da Pompei),
colta in una pausa di
meditazione
nel corso di una
lettura impegnativa.
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Più che trentenne (nel 404) non sa decidersi a pubblicare due inediti senza la sua preventiva approvazione. È convinto, Sinesio, che il primo gli sia stato ispirato addirittura da Dio (l’altro dalla cattiveria dei critici), ma si rimette interamente alla sua decisione. Giudizio inappellabile – dice –; tanto più che, per parafrasare Aristotele, la sa più amante della verità che dell’amico (lett. n. 154) .
“E se anche fosse vero che i morti, nell’aldilà, dimenticano ogni cosa”, le scrive, riecheggiando Omero, in una lettera dell’anno seguente (n. 124), “io, invece, anche lì mi ricorderò della mia cara Ipazia”. Non può staccarsi dalla sua patria, martoriata da un’invasione barbarica – aggiunge –; ma se un giorno, avendone l’agio, si rassegnerà a farlo, sarà solo per amore di lei.
Nel 413, poi – dunque poco prima della morte – le scrive per raccomandarle due parenti, vittime di un’ingiustizia (n. 81). Ho sempre detestato l’ingiustizia, dice; e per questo, per correggerne le storture, sono stato sempre pronto a spendere quel credito che mi ero guadagnato presso i potenti, tanto che tu eri solita chiamarmi “il bene degli altri”. Altro tempo. Ora mi sento abbandonato da tutti, a meno che non possa fare qualcosa tu, che godi di quel potere che ti auguro di conservare per sempre, utilizzandolo per il meglio. (Allusione, qui, al forte ascendente di cui Ipazia godeva verso il governatore dell’Egitto; quell’ascendente che, appunto, sta per esserle fatale!).
Nello stesso anno, persi, nel giro di una dozzina di mesi,
i suoi tre figli, separato, per
effetto dell’ordinazione episcopale, dalla moglie – di cui peraltro non fa cenno – cade in uno stato di profonda prostrazione:
si sente solo, abbandonato da tutti, persino da quella cerchia di amici
alessandrini che ha sempre nel cuore, e dai quali ha atteso inutilmente un
qualche riscontro scritto... Ma soprattutto – le scrive – mi
affligge la lontananza “della tua anima
veramente divina (τῆς θειοτάτης σου ψυχῆς), che sola speravo mi rimanesse fedele, più forte degli assalti del
destino e di una malasorte di là dall’umano” (n. 10). Ci si è chiesti se
l’atteggiamento di Ipazia qui lamentato non sia da connettere alla sua elezione
al soglio episcopale. L’immagine che i pochi documenti ci hanno trasmesso di
lei mi fanno propendere per una risposta negativa: forse Ipazia non era
informata del suo stato, forse la depressione fa scambiare a lui per abbandono
quello che è solo un ritardo... Vero è, però, che non abbiamo elementi
decisivi. A me, comunque, interessa di più quella sublimazione della persona
nell’“anima”, che lui – forse platonicamente più che cristianamente – definisce
“divina”; anzi, nel caso di Ipazia, θειοτάτη, “divinissima”! Tale è la profonda
ammirazione che ha per lei.
E infine, nell’ultima lettera che le invia (n. 16) – sempre nel fatale 413 – nell’augurarle dal più profondo del cuore quella salute
che a lui manca, la chiama “madre e sorella
e maestra, e per tutto questo mia benefattrice”, e insomma – aggiunge – tu
sei per me “quanto di più prezioso vi è di nome e di fatto”. La prega poi –
evidentemente consapevole che si tratta di un addio – di salutare quei fortunati
che fanno parte della sua cerchia di amici e seguaci, a cominciare dal padre e
dal fratello. E se – dice – al gruppo si è aggiunto qualcuno di tuo gradimento,
“salutalo come il più caro dei miei amici, e digli che lo ringrazio del fatto che abbia saputo riuscirti gradito”.
Lascio da parte un paio di lettere meno interessanti. Ma
non la n. 5, indirizzata non a lei ma al fratello del mittente. Proprio per
questo mi è più cara; perché un eventuale sospetto di piaggeria, fuor di luogo
nelle altre lettere, qui risulterebbe assurdo. È dell’ottobre del 407. Sinesio non è ancora
vescovo, e non ha ancora sperimentato la sovrumana crudeltà del destino. È un tranquillo signore di campagna – ma non
ignaro di un centro cosmopolita come Alessandria – colto, amante delle lettere,
della sapienza e dell’arte. “Salutami l’adorabile
filosofa, prediletta da Dio
(θεοφιλεστάτην)” – scrive al fratello – “e la fortunata schiera che può godere
della sua voce divina”… Ho voluto sottolineare quel “prediletta da Dio”, perché
non può non far pensare alla sua tragica fine e renderla più dolorosa e assurda,
e più detestabile il fanatismo di chi, in nome di Dio, la uccise e ne fece
strazio. Ma di questo parleremo in un prossimo post.
4. Salutata dai
suoi ammiratori
Qui voglio concludere con un passo del già accennato lemma
a lei dedicato dalla Suda. «Ora un
giorno avvenne che Cirillo, a capo della setta religiosa avversaria, passando
accanto alla casa di Ipazia, vide davanti alla porta una gran ressa confusa di
uomini e di cavalli: alcuni si avvicinavano, altri si allontanavano, altri sostavano.
E avendo chiesto che cosa fosse quell’assembramento e a che si riferisse tutto
quel chiasso davanti alla casa, gli fu risposto dai seguaci che quella era l’abitazione
della filosofa Ipazia, e che quella gente era lì appunto per salutarla». Nel
seguito del passo, l’autore si lascia andare ad arbitrarie illazioni (ne
riparleremo in altra occasione) circa le ragioni e le conseguenze di una vera o
presunta reazione rabbiosa di Cirillo. L’inattendibilità delle illazioni non
comporta, però, il rifiuto della scena descritta come contesto della rabbia
episcopale. Anzi, è probabile che proprio la spettacolarità della scena, e
l’amore generale alla studiosa alessandrina che essa testimoniava, abbiano
indotto il malevolo autore a prestare a Cirillo una buona dose della propria
bassezza morale.
Comunque stiano le cose, a me Ipazia piace ricordarla così: assediata
in casa da una ressa di ammiratori, là convenuti anche da lontano (a
cavallo!) per vederla, ascoltarla, salutarla… E non è una diva dello spettacolo
(ce n’erano anche allora!), non è un divo dello sport (ce n’erano anche
allora!)… È una filosofa: una donna amante
della sapienza!
Riconoscimento:
- gli originali delle immagini riprodotte sono proprietà del Museo nazionale di Napoli.
- la numerazione delle lettere (che non segue l’ordine cronologico!) è ripresa dall’edizione “Les belles lettres” curata da Antonio Garzya.
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