domenica, settembre 01, 2019

Hypatia, melodramma di R. Caetani. 1. La studiosa alessandrina.



 
giovane ragazza con stilo poggiato alle labbra
Così mi piace immaginare Ipazia giovinetta,
come questa ragazza da un affresco pompeiano (I sec. d.C.)
in atteggiamento riflessivo
prima di scrivere sul suo “quadernetto” nuovo di tavolette cerate
(lat. pugillares, gr. pìnakes o déltoi)



[È, questo, il primo di una breve serie di post dedicati al melodramma di Roffredo Caetani sulla fine di Ipazia, studiosa alessandrina del IV-V sec. d.C. Partiremo dalla figura storica della protagonista (I), per passare alle circostanze e responsabilità della sua tragica fine (II), e proseguire con l’esame del libretto e della musica dell’“azione drammatica” caetaniana (III e IV). Le immagini riportate a illustrazione dell'articolo non sono ritratti d'Ipazia – ne precedono la nascita di ben tre secoli! –  ma esemplificano (almeno le prime tre) la condizione delle donne nel mondo greco-romano in fatto di istruzione: non pari all'uomo, ma certo molto meno ignoranti di quanto certuni amano fantasticare.]
    

1. La “mia” Ipazia

La conobbi nei miei studi universitari di letteratura greca. La reincontrai negli studi di letteratura greco-cristiana, in relazione alle vere o presunte responsabilità del focoso vescovo Cirillo di Alessandria nella sua tragica fine. E da allora fu per me una delle figure femminili più affascinanti della tarda antichità.

A rendermela cara non furono le poche righe a lei dedicate dalle storie letterarie (poco o nulla ci resta dei suoi numerosi scritti, a parte la revisione del III libro del paterno Commento all’Almagesto), quanto il resoconto della sua uccisione e, più ancora, le poche lettere a lei indirizzate da Sinesio di Cirene. Naturalmente una donna così affascinante sul piano intellettuale e morale mi compiacqui di figurarmela bella. E fui lieto di trovarne conferma nelle cosiddette fonti.
«Viveva in castità, pur essendo talmente bella e di bell’aspetto, che uno dei suoi giovani frequentatori si innamorò perdutamente di lei» leggiamo nella Suda.
Vero è che la Suda è un lessico bizantino, compilato verso la fine del x sec., sulla base di documenti non sempre attendibili. E che lo sbrigativo e poco elegante espediente con cui Ipazia avrebbe “guarito” dall’insana passione lo spasimante “giovinetto” appannò un po’ l’immagine idealizzata che me n’ero fatta. Ma l’accenno all’eccezionalità della sua bellezza lo ritenni, allora, testimonianza inconfutabile. Del resto, poiché nessuna fonte afferma il contrario, possiamo ben continuare a immaginarcela bella, a gusto di ciascuno. Permettetemi, però, di aggiungere che, a rendermela ancora più fascinosa, è proprio il fatto che le fonti più attendibili attribuiscono la stima e l’affetto, di cui la circondarono quanti la conobbero, esclusivamente alle sue doti spirituali e morali, senza far cenno del suo aspetto fisico.    
Poi passai ad altri studi e altre occupazioni. E l’immagine dell’affascinante studiosa alessandrina regredì in un angolino semibuio della mia coscienza. Né valsero a trarla fuori le sparse notizie di più o meno recenti strumentalizzazioni della sua persona. L’interesse fu invece prontamente risvegliato dall’“azione lirica” a lei dedicata da Roffredo Caetani. L’immagine dell’amabile pensatrice alessandrina mi si ripresentò prepotente e m’indusse a orientare i miei studi verso questo a me ignoto e generalmente misconosciuto compositore.  

Ma torniamo a Ipazia, o Hypatia (pronuncia “Ipàzia”) secondo la trascrizione fedele al latino in voga ai primi del Novecento. Tranquilli: non vi annoierò con sottili disquisizioni erudite. Non mi curerò – almeno per il momento – nemmeno di confutare e raddrizzare le distorsioni perpetrate ai suoi danni da “studi” viziati da pregiudizi anticlericali e, ultimamente, soprattutto femministi. Vi presenterò la “mia” Ipazia, come la conobbi e l’amai basandomi esclusivamente su un’onesta lettura delle fonti.   

2. La studiosa

pittura pompeiana: donna con tavolette per scrivere
O come questa “liceale”
(sempre da Pompei)
anche lei molto giudiziosa:
riflettere, prima di scrivere!
Nata ad Alessandria verso il 360/370, ebbe dal padre (il celebre astronomo e matematico Teone) il nome beneaugurante di Ipazia (gr. πατία, pron. Hypatìa), che è quanto dire “eccelsa”, “sublime”. E, una volta tanto, l’orgoglio paterno non fu sconfessato dalla realtà. La figliola non solo assimilò e sviluppò gli studi paterni, ma da quelli passò alla filosofia, abbracciando – sembra – il neoplatonismo, ma senza trascurare i grandi classici. Sapeva passare con grande naturalezza da disquisizioni di argomento astronomico o matematico a spiegazioni di passi platonici o aristotelici, fino alle teorie filosofiche più recenti, suscitando nei giovani entusiasmo e, in qualche caso, ardente passione amorosa che lei seppe spegnere – stando al lessico Suda – se non con eleganza, certo con efficacia risolutiva. Questa studiosa io ve la presenterò come appare riflessa nell’affetto dell’unico, tra quelli che ne hanno tramandato il ricordo, che l’avesse conosciuta di persona.  



3. L’amica di Sinesio di Cirene

Raffinato cultore di lettere, più che di filosofia, Sinesio nacque a Cirene (Libia) verso il 370. Si accostò al cristianesimo timidamente e tra molte remore. Tuttavia, forse anche in seguito alla fama che si era guadagnato per aver saputo strappare all’imperatore Arcadio sgravi fiscali per la sua patria, nel 409-410 il popolo della città libica di Tolemaide lo volle vescovo. Colto di sorpresa, Sinesio cercò di esimersi, spiegando con franchezza i motivi che ne avrebbero dovuto sconsigliare l’elezione: lui poteva bensì aderire alla sostanza della dottrina e morale cristiana, ma non se la sentiva di condividerne tutti i dogmi (per esempio, la resurrezione dei morti) né l’ascetismo dominante negli ambienti ecclesiastici o, più propriamente, monastici. Ma non servì a nulla: il popolo lo volle vescovo, e a lui non restò che accostarsi ai sacramenti, dal battesimo (neanche quello aveva!) all’ordinazione sacerdotale, alla consacrazione episcopale. Accettato l’incarico, agì con l’onestà e l’energia che lo caratterizzavano: risanò l’amministrazione ecclesiastica e si oppose validamente a un’incursione di barbari. Purtroppo il suo governo durò poco: morì dopo soli tre anni, distrutto dal dolore per la morte prematura dei suoi tre figli, scomparsi nel giro di un anno o poco più.

pittura pompeiana: giovane donna immersa nella lettura
O come questa giovane donna
 (ancora da Pompei),
colta in una pausa di meditazione
nel corso di una lettura impegnativa.
Il futuro vescovo conobbe Ipazia, forse più anziana di lui di qualche anno, ad Alessandria; ne seguì gli insegnamenti e concepì per lei un’ammirazione spinta fino alla devozione.

Più che trentenne (nel 404) non sa decidersi a pubblicare due inediti senza la sua preventiva approvazione.  È convinto, Sinesio, che il primo gli sia stato ispirato addirittura da Dio (l’altro dalla cattiveria dei critici), ma si rimette interamente alla sua decisione. Giudizio inappellabile – dice –; tanto più che, per parafrasare Aristotele, la sa più amante della verità che dell’amico (lett. n. 154) .

E se anche fosse vero che i morti, nell’aldilà, dimenticano ogni cosa”, le scrive, riecheggiando Omero, in una lettera dell’anno seguente (n. 124), “io, invece, anche lì mi ricorderò della mia cara Ipazia”. Non può staccarsi dalla sua patria, martoriata da un’invasione barbarica – aggiunge –; ma se un giorno, avendone l’agio, si rassegnerà a farlo, sarà solo per amore di lei.

Nel 413, poi – dunque poco prima della morte – le scrive per raccomandarle due parenti, vittime di un’ingiustizia (n. 81). Ho sempre detestato l’ingiustizia, dice; e per questo, per correggerne le storture, sono stato sempre pronto a spendere quel credito che mi ero guadagnato presso i potenti, tanto che tu eri solita chiamarmi “il bene degli altri”. Altro tempo. Ora mi sento abbandonato da tutti, a meno che non possa fare qualcosa tu, che godi di quel potere che ti auguro di conservare per sempre, utilizzandolo per il meglio. (Allusione, qui, al forte ascendente di cui Ipazia godeva verso il governatore dell’Egitto; quell’ascendente che, appunto, sta per esserle fatale!).

Nello stesso anno, persi, nel giro di una dozzina di mesi, i suoi tre figli, separato, per effetto dell’ordinazione episcopale, dalla moglie – di cui peraltro non fa cenno –  cade in uno stato di profonda prostrazione: si sente solo, abbandonato da tutti, persino da quella cerchia di amici alessandrini che ha sempre nel cuore, e dai quali ha atteso inutilmente un qualche riscontro scritto... Ma soprattutto – le scrive – mi affligge la lontananza “della tua anima veramente divinaς θειοτάτης σου ψυχς), che sola speravo mi rimanesse fedele, più forte degli assalti del destino e di una malasorte di là dall’umano” (n. 10). Ci si è chiesti se l’atteggiamento di Ipazia qui lamentato non sia da connettere alla sua elezione al soglio episcopale. L’immagine che i pochi documenti ci hanno trasmesso di lei mi fanno propendere per una risposta negativa: forse Ipazia non era informata del suo stato, forse la depressione fa scambiare a lui per abbandono quello che è solo un ritardo... Vero è, però, che non abbiamo elementi decisivi. A me, comunque, interessa di più quella sublimazione della persona nell’“anima”, che lui – forse platonicamente più che cristianamente – definisce “divina”; anzi, nel caso di Ipazia, θειοτάτη, “divinissima”! Tale è la profonda ammirazione che ha per lei.

E infine, nell’ultima lettera che le invia (n. 16) – sempre nel fatale 413 – nell’augurarle dal più profondo del cuore quella salute che a lui manca, la chiama “madre e sorella e maestra, e per tutto questo mia benefattrice”, e insomma – aggiunge – tu sei per me “quanto di più prezioso vi è di nome e di fatto”. La prega poi – evidentemente consapevole che si tratta di un addio – di salutare quei fortunati che fanno parte della sua cerchia di amici e seguaci, a cominciare dal padre e dal fratello. E se – dice – al gruppo si è aggiunto qualcuno di tuo gradimento, “salutalo come il più caro dei miei amici, e digli che lo ringrazio del fatto che abbia saputo riuscirti gradito”.

Lascio da parte un paio di lettere meno interessanti. Ma non la n. 5, indirizzata non a lei ma al fratello del mittente. Proprio per questo mi è più cara; perché un eventuale sospetto di piaggeria, fuor di luogo nelle altre lettere, qui risulterebbe assurdo.  È dell’ottobre del 407. Sinesio non è ancora vescovo, e non ha ancora sperimentato la sovrumana crudeltà del destino.  È un tranquillo signore di campagna – ma non ignaro di un centro cosmopolita come Alessandria – colto, amante delle lettere, della sapienza e dell’arte.  “Salutami l’adorabile filosofa, prediletta da Dio (θεοφιλεστάτην)” – scrive al fratello – “e la fortunata schiera che può godere della sua voce divina”… Ho voluto sottolineare quel “prediletta da Dio”, perché non può non far pensare alla sua tragica fine e renderla più dolorosa e assurda, e più detestabile il fanatismo di chi, in nome di Dio, la uccise e ne fece strazio. Ma di questo parleremo in un prossimo post. 

4. Salutata dai suoi ammiratori

Qui voglio concludere con un passo del già accennato lemma a lei dedicato dalla Suda. «Ora un giorno avvenne che Cirillo, a capo della setta religiosa avversaria, passando accanto alla casa di Ipazia, vide davanti alla porta una gran ressa confusa di uomini e di cavalli: alcuni si avvicinavano, altri si allontanavano, altri sostavano. E avendo chiesto che cosa fosse quell’assembramento e a che si riferisse tutto quel chiasso davanti alla casa, gli fu risposto dai seguaci che quella era l’abitazione della filosofa Ipazia, e che quella gente era lì appunto per salutarla». Nel seguito del passo, l’autore si lascia andare ad arbitrarie illazioni (ne riparleremo in altra occasione) circa le ragioni e le conseguenze di una vera o presunta reazione rabbiosa di Cirillo. L’inattendibilità delle illazioni non comporta, però, il rifiuto della scena descritta come contesto della rabbia episcopale. Anzi, è probabile che proprio la spettacolarità della scena, e l’amore generale alla studiosa alessandrina che essa testimoniava, abbiano indotto il malevolo autore a prestare a Cirillo una buona dose della propria bassezza morale. 

mosaico pompeiano con ritratto di donna
Ed eccola
(sempre ‘prefigurata’ in un mosaico pompeiano)
mentre ascolta (con quanta pazienza!)
la sconclusionata esposizione d’un seguace
messo in difficoltà non sai se dalla propria impreparazione
o dal fascino dell’inegnante.

Comunque stiano le cose, a me Ipazia piace ricordarla così: assediata in casa da una ressa di ammiratori, là convenuti anche da lontano (a cavallo!) per vederla, ascoltarla, salutarla… E non è una diva dello spettacolo (ce n’erano anche allora!), non è un divo dello sport (ce n’erano anche allora!)… È una filosofa: una donna amante della sapienza



Riconoscimento:

  1. gli originali delle immagini riprodotte sono proprietà del Museo nazionale di Napoli.
  2. la numerazione delle lettere (che non segue l’ordine cronologico!) è ripresa dall’edizione “Les belles lettres” curata da Antonio Garzya.
 




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