sabato, settembre 29, 2018

Barilli, Medusa. 2) Analisi del libretto




testa femminile adagiata sulla propria chioma costituita di serpenti
Testa di Medusa
il celebre quadro un tempo attribuito a Leonardo e ora a un anonimo fiammingo
prototipo della bellezza medusea

 Nel tracciare il riassunto del libretto (vedi post "la trama") ho abbondato di particolari, lasciandomi andare, qua e là, a toni giocosi o a bonaria ironia (senza, peraltro, tradirne mai la sostanza!). L’ho fatto perché il lettore potesse rendersi conto personalmente di che stoffa siano fatti i personaggi e il dramma nel suo complesso. Qui intendo approfondire l’analisi per: a) richiamare il contesto culturale in cui quel libretto si situa e trova spiegazione, b) individuare le ragioni dell'insoddisfazione, c) azzardare una risposta al perché il musicista (che è anche un fine scrittore) abbia scelto una base letteraria tanto inadeguata.


a)    Il contesto culturale

Ho già accennato, nel post precedente, al personaggio mitologico che alla protagonista dà il nome e qualche carattere (salvo il fatto che i giovani di casa Veniero dallo sguardo di Medusa più che pietrificati vengono rincretiniti).
Ma, all’epoca della composizione, Medusa è anche l’emblema di un particolare tipo di bellezza, quella “bellezza medusea” cui Mario Praz dedica il primo capitolo del volume La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica. La definizione probabilmente è stata suggerita dal fascino singolare esercitato sul poeta inglese Percy B. Shelley da un quadro degli Uffizi a quel tempo attribuito a Leonardo e ora, con più ragione (e minor sacrilegio!), a un qualche fiammingo.  Shelley gli dedicò una poesia che godette fama vasta e duratura: On the Medusa of Leonardo da Vinci. Come i giunchi nella belletta dannunziana, la “bellezza medusea” ha “l’odore / delle persiche mézze e delle rose / passe, del miele guasto e della morte”. Una bellezza – come scrive Praz – “intrisa di pena, di corruzione e di morte”, quale poteva piacere al gusto romantico. O, più esattamente, a una sua corrente, quella cui doveva riferirsi Goethe quando dichiarava a Eckermann: “Das Romantische (nenne ich) das Kranke  (“Romantico io chiamo ciò che è malato”). Un gusto, quello dominante tra i romantici “malati”, destinato ad essere ripreso e approfondito dal decadentismo.

Questo speciale concetto di bellezza, applicato al fascino femminile, viene poi esteso e mescidato con quello della “donna fatale”, della “belle dame sans merci”, della “donna-vampiro”, e via digradando di mostro in mostro. “Le donne della specie di Cecily – scrive Sue nei Misteri di Parigi – esercitano un’azione improvvisa, un’onnipotenza magica sugli uomini di sensualità brutale” (confrontate la folgorazione esercitata dalla nostra eroina sui tre giovani, ma in particolare su Orso, quello in cui la “sensualità brutale” si rivela con più immediatezza). E ancora: quando Cécily vedeva le sue vittime anelanti ai suoi piedi, “si passava lo sfizio di prolungare il loro desiderio ardente con una civetteria raffinata e feroce; poi, tornando al suo primo istinto, li divorava coi suoi abbracci micidiali” (embrassements homicides!).

Insomma, ai primi del Novecento motivi come quelli della “bellezza medusea”, della “donna fatale” e simili amenità, erano ormai componenti immancabili nella letteratura erotica corrente, in prosa e in versi. In Italia erano stati magistralmente introdotti da D’Annunzio, e, sotto il suo magistero, si erano poi celermente diffusi. Mi limito a un paio di esempi, tratti da un libro di Giuseppe Rino (L'estuario delle ombre) pubblicato a Messina nel 1907. Due passi particolarmente significativi, perché con il nostro libretto presentano addirittura qualche coincidenza verbale (il che, naturalmente, non implica garanzia di derivazione diretta, dato che si tratta di elementi ormai largamente banalizzati). La sua “Demoniaca” (!) “rise d’un riso perfido nivale / e ne l’iride sua selvaggia e impura /  parvero i veli d’un gran sogno astrale”; e ancora: “Porgi le labbra al mio veleno chiaro / che brilla in tazze fine di smeraldo”. (Tra i “doni” sciorinati dalla nostra pellegrina figurano “smeraldi, verdi al par d’acque fonde”, “cristalli preziosi ricolmi di terribili profumi”… E Troilo: “d’Oriente i toschi brucian sovra il tuo labbro! ” – sospira verso Medusa).


b1) Una storia artisticamente incoerente

Tale il poco esaltante contesto in cui si colloca il nostro libretto. Pure, anche in quell’atmosfera ammorbata, artisti capaci di produrre opere dignitose non ne erano mancati, e, in qualche caso, ci era scappato persino il capolavoro. Ma Schanzer era artista di altra pasta.
Franco Abbiati (quello che dichiara la sua inabilità a dirne tutto il male che ne pensa!) trova il libretto “oscillante fra reale e irreale”; “totalmente privo d’azione stimolante”; un testo che “all’ascoltatore non dice nulla di vero e ben poco di verosimile”. Ed è proprio così.
Pensate, per esempio, alla storia raccontata dalla protagonista, con l’inspiegabile apparizione del servizievole “nocchiero”, e il non meno misterioso “destino” di eterna errante…  È una storia così assurda che solo quel bonaccione di Salvestro Veniero poteva bersela. O a particolari quali il grido lacerante di Aglauris al solo toccare il funesto regalo della sciarpa, grido dissoltosi nella più totale indifferenza degli astanti. O al momento in cui Medusa sfiora coi suoi capelli la fronte di Stefan. Com’è naturale (“fan nido i serpi nelle chiome mie …”!) “il giovane indietreggia rabbrividendo e fissa Medusa con occhi sbarrati”. E, con quegli “occhi sbarrati” d’orrore, “Oh! Che aulenti chiome hai tu!” la corteggia galante. Poi, nel terzo atto, mentre Troilo, ormai irretito senza scampo dalla seduzione di Medusa, ne invoca disperatamente il bacio, lei risponde invitandolo romanticamente a contemplare le stelle! E poco dopo, quando, accecato dal desiderio carnale di Medusa, nemmeno riconosce la giovane sposa, questa, per riconquistarne l’amore, non sa far di meglio che proclamare la propria superiorità in fatto di castità (“Ma di’, non son più pura io di costei?). Si potrebbe continuare un pezzo a elencare incongruenze e ingenuità, goffaggini e puerilità del testo, senza aggiungere nulla di nuovo. Prima di proseguire, però, lasciatemi precisare, una volta per tutte, che qui non è questione di verisimiglianza banalmente intesa (che per Barilli è la parole des idiots”!): quello che qui si lamenta è la mancanza di coerenza interna al mondo fantastico di Schanzer, la mancanza di logica artistica! Ma passiamo a un altro aspetto.

Che cosa rappresenta veramente Medusa, la protagonista attorno a cui ruota tutta l’azione?
Medusa, di V. Kotarbinsky (1903)
Medusa, di V. Kotarbinsky
(1903)
C’è una battuta che sembra rivelatrice. Verso la fine del primo atto, Stefan “si precipita nuovamente su Medusa e l’afferra alfine a mezzo il corpo”; e, sicuro ormai della conquista,  le grida: Mia or tu sarai. La donna “si divincola invano”, ma non sembra preoccupata; anzi risponde in tono di sfida: “Me vincere vuoi tu? Non sai ch’io mi sia? Sono la voluttà!”. E dalla voluttà – sembra sottintendere – tu non hai scampo. Questa strana battuta mi ha fatto pensare che l’intenzione dell’autore fosse di presentarci il dramma della ricerca spasmodica del piacere, dell’edonismo eretto a sistema di vita, e destinato a finire tragicamente. O forse, con un pizzico di misoginia, il carattere fatale del fascino femminile.
Ma l’atmosfera culturale era quella che era, e Schanzer, scarso – a quanto si può giudicare da questa sua creatura – di personale energia creativa, si aggrappa a quello che le letture di cui si era nutrito potevano suggerirgli. E così la sua Medusa assume, con sempre maggiore evidenza, i caratteri della “donna fatale”, della “belle dame sans merci”, senza però rinunciare del tutto agli altri modelli di femminilità perversa che la morbosità romantico-decadente aveva saputo escogitare. 
Così Medusa è anche un po’ la Salomè di Wilde e Strauss (Ve la ricordate? Chiusa nella sua sacrilega passione per il corpo casto di Jochanaan, ossessionata dal desiderio libidinoso della sua bocca purpurea, non bada minimamente al cadavere di Narraboth che si è appena suicidato per amore di lei, non più di quanto la nostra Medusa si curi del cadavere di Stefan, appena morto per lei, o di quello di Aglauris, da lei stessa assassinata…). Ma può a buon diritto rivendicare anche qualche tratto della donna-vampiro: “L’amaro pianto e il sangue tuo con voluttà vo’ sugger in questa notte”; e ad Aglauris: “Tutto è mio il sangue di costui”. Eh, quanta sanguinaria ingordigia! Del resto non stupisce trovare, con questa, non poche altre tracce delle lussuriose superdonne dannunziane, da Pantea a Comnena (naturalmente in formato ridotto!). Né poteva mancare, in un librettista di lingua materna tedesca, qualche eco del linguaggio d’Isotta (“Pei miei occhi profondi come obliosi mondi, per questa notte chiara”…), anche se in questo la nostra eroina è addirittura superata dal “folle bimbo”, come si è visto nel post precedente.

Sugli altri personaggi poco c’è da aggiungere a quanto emerge dal riassunto. Un vecchio governatore, onesto e fedele al suo ufficio e a Venezia, capofamiglia bonario e gentile, ma totalmente incapace di vedere cosa accade attorno a lui. Due fratelli che, pur felicemente ammogliati e non più giovanissimi, sembrano aver scoperto “le gioie del sesso” solo all’apparire della misteriosa straniera e si comportano come adolescenti in preda ad un’eccitazione incontrollabile. Non si tratta di amore, e ancor meno di fascino per la bellezza. Ciò a cui mirano è l’accoppiamento o, più esattamente, il possesso di quel corpo. Lo dicono esplicitamente, senza sotterfugi o ambagi: per loro il congiungimento carnale con la bella straniera è un “dovere”, una necessità insopprimibile. Medusa, “ricorda (!) ch’io ti debbo avere” – le rammenta Stefan.
Il terzo fratello, quello che – stando alle convenzioni dei registri vocali – parrebbe il più attempato, sembra scoprire l’esistenza del sesso solo alla vista  di Medusa. In lui, anzi, la natura della concupiscenza appare allo stato primitivo, ferino (“sensualità brutale” direbbe Sue). Io vo’ con la violenza conquistar costei!” dice; e ancora: Vo’ posseder quel corpo suo divino! Quel corpo lo eccita e dunque gli appartiene; e... chi lo ostacola va eliminato, punto!   
Meno ancora c’è da dire sui due personaggi femminili. Evanescente Orestella. Aglauris prende vita, per qualche attimo e in mezzo a non poche goffaggini, quando cerca disperatamente di far rinsavire il marito rintronato dal desiderio di Medusa. (E anche questa sensazione è, forse, principalmente merito della musica!).


b2) Incoerenza stilistica

La molteplicità irrisolta delle fonti si rivela anche a livello stilistico.
Elementi tipici del melodramma ottocentesco (gli innumerevoli “deh”, i ripetuti “mio cuor” e “cuor mio”,  Ciel! Ciel!”, “O gran Dio!”, “Celeste ardore!”, “Dolce mio bene, giurami eterna fè”) convivono con elementi di marca dannunziana (“le mani liliali”, “il corpo mio nivale”, “aulenti chiome”, “folle mio desire”,  despota”, “L’amaro pianto e il sangue tuo con voluttà vo’ sugger in questa notte”,  d’Oriente i toschi brucian sovra il tuo labbro”...). E persino con elementi di sapore verista (“or tu vaneggi, bimbo”, “taci tu, folle bimbo”, “scontare il peccato mortale”, l’imprecazione più o meno blasfema “Per Gesù!, e l’impagabile “O Medusa, vieni qui!”).            
D’altra parte, non potevano mancare echi wagneriani. Si pensi al carattere prevalentemente esclamativo del testo, agli incessanti sospiri lirici dei duetti: “O follia dei miei sensi!... Indicibile gioia!”, “ O lungo brivido… oh gioia!”, “Ebbrezza dell’amor! Luce del viver mio!”… Sembra d’essere catapultati nell’interminabile duetto del II atto del Tristano!


c) Ragioni di una scelta

Chi conosce le doti di Barilli scrittore non può fare a meno di domandarsi come mai abbia accettato come base per la sua opera d’esordio una simile roba. Tanto più stupisce, in un critico teatrale acuto e severo come lui, l’accettazione di un libretto che, oltre ai difetti già accennati, mostra, almeno a mio avviso, una singolare goffaggine nel taglio degli atti.  
E infatti il recensore dell’Eco di Bergamo (dr. p.) si chiede, incredulo, “come mai il maestro Barilli che, senza dubbio, è un musicista di valore e lo ha dimostrato anche in questo lavoro, ed è un letterato che si distingue, si sia innamorato del libretto di Medusa”. E allarga le braccia, rassegnandosi alla vecchia spiegazione oraziana: Quandoque bonus dormitat Homerus! (“Qualche volta sonnecchia anche il buon Omero!”). Abbiati attribuisce l’accettazione di una roba del genere all’inesperienza del musicista, dovuta all’età al momento della composizione, ma anche alla scelta di vivere da “solitario maledetto”.

Bruno Barilli, in una caricatura di A. Baldini
Il nostro musicista
in una caricatura dell’amico Baldini
A parte l’innegabile inesperienza, non mancano però – io credo – altre e più sostanziali ragioni.
La prima è che al libretto Barilli attribuiva una funzione molto marginale. “Quando il musicista sorge, il librettista tramonta” annotava nel Taccuino XXVIII; “non esiste un testo di libretto da mettere in valore nella sua grana preziosa [di vocaboli e di metafore vane], nelle sue letterarie squisitezze: il ritmo e l’armonia avvolge d’un altro mantello un libretto, sia esso di D’Annunzio o di Sem Benelli, e le parole son come sassi che non si vedono in fondo al torrente se l’acqua è profonda, <non> più che ciottoli sui quali il canto scivola come l’acqua”. Un libretto, per il nostro compositore,  non può essere che una travatura molto schematica con poche parole che poi non si sentono”. (B.B., Capricci di vegliardo, Einaudi, passim). Anzi, a non capire ci si guadagna”! (Ma, francamente, non so se con quest'ultima, paradossale affermazione si riferisse al libretto per musica in generale o a qualche caso particolarmente sfortunato!).  
Altra probabile ragione attiene direttamente alla scelta dell’argomento: una ‘favola’ sufficientemente esotica, lontana dalla realtà quotidiana e da quella visione razionale dell’uomo (sulla cui fondatezza Barilli nutriva non pochi dubbi!) da consentirgli di prender le distanze dal “verismo” a favore di una musica originale, fortemente lirica ed evocativa, quale lui aveva in mente.
 E, come lui stesso affermava, ed è convinzione comune tra gli amanti del teatro musicale, ciò che conta veramente è la musica. E quella – concludevo nel post precedente – è davvero un’altra cosa. Non un capolavoro, probabilmente; ma certo un’opera di grande interesse, che giustifica la faticosa lettura e analisi del libretto, e soprattutto merita un attento ascolto. Ce ne occuperemo nel prossimo post.


Riconoscimenti:
per le due riproduzioni di Medusa ringrazio Annalisa P. Cignitti, curatrice del blog rocaille.it





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