Voglio celebrare a modo mio un anniversario un
po’ particolare (infatti passato inosservato): quello della prima esecuzione di
Medusa di Bruno Barilli (1880-1952), andata in scena a
Bergamo ottant’anni fa, precisamente il 12 settembre 1938. Lo farò a tappe,
passando dalla presentazione e riassunto all’analisi del libretto
e, in fine, alla musica.
Vita
teatrale della Medusa di Barilli
Si trattò di una prima molto particolare: Medusa, infatti, “nasceva
alle scene” alla considerevole età di quasi trent’anni. Vita peraltro
stentata e presto finita. Ma andiamo con ordine.
L’opera, iniziata forse nel 1907, era già
completa nel 1910, in pieno trionfo del cosiddetto verismo musicale, da cui –
come si vedrà – intendeva prendere le distanze. Rimase
però nel cassetto per quasi tre decenni. E non per incuria o insoddisfazione
dell’autore. Il povero Barilli credette sempre fermamente nel valore della sua
opera, e cercò di farla eseguire. Riuscì anche a far pubblicare alcune pagine
della partitura (“Sia lode a te”, dal primo atto; “Rimango”, dal II) già nel 1914; nel 1917, poi, l’intero spartito (canto e pianoforte) fu stampato dal Mignani, un modesto editore fiorentino. Ma nessun teatro, nessun editore importante gli dette ascolto. In fine,
nel 1938, quando ormai non ci credeva più nemmeno lui, il miracolo – diciamo così – della
rappresentazione teatrale; peraltro in un sito marginale (Bergamo), in quel
“Teatro delle novità” che per un’opera composta quasi trent’anni prima doveva
suonare francamente ironico. Il successo non mancò, ma nemmeno i dubbi e le
riserve.
La vita teatrale dell’opera, del resto, fu
breve. Ripresa poco più di un anno dopo al San Carlo di Napoli, sparì
definitivamente dalle scene, almeno finora. Con la sola, parziale eccezione di
un’edizione radiofonica (26 luglio 1952), forse tardivo riconoscimento
all’autore scomparso pochi mesi prima. Dopo di che la povera Medusa sprofonda in un oblìo totale,
ignorata persino da due repertori abbastanza recenti: la nuova edizione del Dizionario dell’opera lirica, Mondadori
1991, curata da Michele Porzio, e la coeva edizione italiana (Dizionario enciclopedico dell’opera lirica)
dell’oxoniense Concise Oxford Dictionary
of Opera.
Eppure,
a mio modesto avviso, la Medusa non merita affatto il
dimenticatoio. Vediamo, dunque, di conoscerla da vicino, partendo dall’elemento
più debole e problematico, il libretto.
L’autore
del libretto
è Ottone Schanzer (Vienna
1877 – Roma 1956), austriaco di nascita ma italiano per formazione e sentimenti.
Laureatosi in legge all'Università di Roma, acquistò una certa notorietà come
poeta e librettista, nonché critico musicale. Grande ammiratore dei “nostri”
compositori del XVI-XVIII sec., “più grandi, Dio mi perdoni, degli stessi Numi
Germani della Musica” (lettera del 1943 a Giovanni Tebaldini), non disdegnò di
tradurre dal tedesco parecchi libretti d’opera e di scriverne in proprio per
musicisti italiani, principalmente per Alberto Gasco.
Riassunto
“L’azione
a Negroponte, sul finire del XV secolo”, avverte l’autore. Cioè in
Eubea, nella II metà del XV sec., in ogni caso prima del 1470, anno in cui
“Negroponte” cade in mano ai Turchi.
Atto I
Magnifico “palagio
del Podestà Veniero”, (rappresentante della Serenissima), splendidamente
affacciato sul mare. Ci abita il Podestà (baritono)
con i suoi familiari: i figli Stefan (baritono)
e Troilo (tenore) – con le loro mogli
Orestella (contralto) e Aglauris (soprano) – e Orso (basso), scapolone impenitente. Una famiglia patriarcale, armoniosa,
tranquilla. “È un chiaro
mattino d’aprile”, e l’intero gruppetto è lì, sull’ampia terrazza, intento
a contemplare la vasta distesa marina, donde giungono misteriose voci che
riudremo poi varie volte nei momenti salienti dell’opera. Affascinati da tanta
bellezza, i due giovani ne traggono occasione per complimenti galanti alle
rispettive consorti.
Ma ecco, lontano, sul mare, un vascello fila
velocissimo verso la riva, e, in men che non si dica, approda proprio lì sotto,
a due passi. Ne scende una signora, che sale al “palagio” accompagnata da
“portatori negri recanti urne d’ebano”. È Medusa (mezzosoprano), misteriosa forestiera, protagonista dell’opera.
Su questo personaggio ritornerò nell’analisi del libretto, oggetto di un post successivo. Ma qui ritengo opportuno anticiparne poche righe, necessarie all’intelligenza del dramma.
Il nome della protagonista non è casuale. E’ un
nome evocativo, carico di connotazioni e suggestioni accumulate nel corso della storia
letteraria e artistica. Medusa è un personaggio del mito greco. È la più nota –
e la più spaventevole – delle tre Gòrgoni, fanciulle alate, con folta
capigliatura infestata di serpenti, e avvezze a portare una cintura
dello stesso nobile materiale vivente; capaci di pietrificare chiunque le
guardasse (non so se per il magnetismo dello sguardo – come generalmente si crede
– o non piuttosto per lo spavento!). Medusa fu poi uccisa da Perseo con uno
stratagemma, e la sua testa fu scelta da Atena come terrificante insegna al
centro dello scudo. Ma torniamo al libretto.
Accolta con simpatia, Medusa offre gioielli e vesti, e narra una sua improbabile storia: “Ne l’Oriente s’aprì / di mia vita il fiore; / e l’infanzia passai / tra mille ignoti incanti / dove alto il sol fiammeggia, / dove ampio in fra i palmizii / trascorre il pio Giordan”. Vita idilliaca, troncata – dice – dal Simùm, l’ardente vento del deserto.
Medusa dal tempio d’Atena a Siracusa (ora nel locale Museo regionale P. Orsi)
terracotta colorata del I quarto del VI
sec a.C. ( non colorate le integrazioni moderne)
Il cavallino che tiene con tanto amore è
la sua creaturina:
lo
splendido cavallo alato Pègaso (capricci della Natura!)
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Accolta con simpatia, Medusa offre gioielli e vesti, e narra una sua improbabile storia: “Ne l’Oriente s’aprì / di mia vita il fiore; / e l’infanzia passai / tra mille ignoti incanti / dove alto il sol fiammeggia, / dove ampio in fra i palmizii / trascorre il pio Giordan”. Vita idilliaca, troncata – dice – dal Simùm, l’ardente vento del deserto.
Si risveglia “dal letargo” sulla riva del mare (come dal Giordano fosse arrivata,
in letargo, sulle rive del Mediterraneo, distanti almeno una cinquantina di km, non ve lo posso dire… perché l’interessata non lo spiega!). Che è che non è,
ecco apparire un provvidenziale vascello, “guidato
da un cupo nocchier” che la invita a bordo. Ed eccomi qui – dice. “Doman lungi m’addurrà il cieco destino”.
Non sia mai! – protesta il Podestà. Questa è una casa accogliente, “quest’è de’ pellegrini il fido asilo”, e
tu resterai qui! A nulla valgono strani segni premonitori: l’immediato,
misterioso fascino esercitato sui giovani, inquietanti particolari
dell’autopresentazione (“fan nido i serpi
nelle mie chiome”!), le maniere ciarlatanesche con cui offre i suoi doni,
il grido lancinante di Aglauris appena toccata la sciarpa offertale in dono… Salvestro Veniero, capofamiglia e Podestà di
Venezia, è talmente accogliente e solidale che il buon Papa Francesco lo
farebbe santo senza processo!
“E tu (sei) l’aulente fiore che pel mio sogno di
giovinezza il gaio april fiorì” aveva detto alla consorte – pochi minuti
prima – Stefan, questo improbabile precursore di D’Annunzio. Macché! “Sempre te sognai negli abissi del tempo!”
dice ora a Medusa, appena rimasti soli. E, più di Orestella, troverà “aulenti” le terribili chiome di Medusa.
Invano lei lo ammonisce: “Deh, pensa alla sposa tua”! Ammaliato dall’ “angelico suon di sua voce”,
dall’“ardor dei suoi sguardi”, il giovane vuole
assolutamente baciarne “le mani liliali,
le nere chiome”, dovesse pur col suo sangue “scontare il peccato mortale”. È il primo dei tre fratelli a cader
vittima del fascino mortale della misteriosa forestiera. E, incurante del’enigmatico
avvertimento di lei (“Me vincere vuoi tu? Non sai ch’io mi sia? Sono la voluttà!”) passa alle vie di
fatto, tentando d’abbracciarla. Suscitando, così, lo sgomento di Troilo e il
furore malamente represso di Orso, entrambi gelosi e intenti a spiarlo.
Atto II
Qualche tempo dopo. La situazione è
precipitata. Disperate, Aglauris ed Orestella implorano il suocero di scacciare
la straniera. “Oscura il nostro ciel da
quel dì che costei dolore e pianto in questo asil portò”. Ma non vedi, o
padre – aggiunge Aglauris – che “come
ombre muti vanno i tuoi figli per deserte stanze”, accecati dalla
concupiscenza per Medusa?
No! Il vecchio Podestà è irremovibile. “Giammai negar vorrò l’asilo che in questo dì
Venezia per opra mia le offrì” (“in
questo dì”? ma non glielo aveva offerto il giorno del suo arrivo?). “È questa mia casa – aggiunge con solenne
gravità – al par d’un tempio sacra!”
(Lo vedete? Santo subito!).
Troilo rivela a Orso di aver visto Stefan
baciare ardentemente Medusa. “S’ei l’osa ancor, l’ucciderò, gli strapperò la preda” reagisce istintivamente Orso. Ma,
sgomento, deve registrare che anche il buon Troilo, sia pure con mille
scrupoli e ripentimenti, aspira alla medesima conquista.
Riecco Stefan e Medusa. Il loro colloquio
sembra una ripresa e continuazione di quello interrotto nell’atto primo, ma in
realtà dobbiamo presupporre che esso giunga dopo altri incontri e l’ardente
bacio spiato da Troilo. I due intrecciano ora un duetto d’amore; quel duetto che
suscitò l’entusiasmo del pubblico e, per il testo, l’ira del critico Franco
Abbiati: “solo Barilli saprebbe dirne tutto il male che penso”!
“A me la
bianca mano tua, deh!, porgi che il ciel dischiude… Io vo’ baciarla, Medusa.
Baciarla e poi morire”. Medusa
tenta (o finge) di resistere, tra l’altro con una molto ragionevole
osservazione: “Baciar mi vuoi? La brama
accender vuoi, la folle brama che il tuo cuor possiede?”. Ma l’amante non
vuol sentire ragioni. “Ricorda ch’io ti debbo
avere… La bocca tua, Medusa, la debbo… la vo’ baciar”. E basta che l’amata
lo sfiori coi capelli (non dimenticate che sono i capelli di Medusa: fan nido i serpi nelle mie chiome”!),
e – nonostante l’istintivo, esterrefatto balzo all’indietro – quasi cade in
deliquio: “Oh! Che aulenti chiome hai tu!
O follia dei miei sensi!... Indicibile gioia!...”. E Medusa, ormai sicura
della conquista, si passa anche lo sfizio della beffa: “Se vuoi, tienlo pur” concede, “porgendogli
con un sorriso crudele il prezioso suo fazzoletto” (da testa, evidentemente).
Ma non senza ammonirlo (onestà, o suprema perversione?): “Mortifero è l’aroma (quello che rende aulenti le nere chiome!) che trassi da lugubre fior”. Peggio: “Magia penetrante;… nel gelo dell’avello
ancor dovrà seguirti”. (Così non potrà dire di non essere stato avvertito!).
E, visto che il ragazzo insiste: “Vien.
Vien. Vien! Sono tua, cuore ardente!”. E, forse nel timore di non essere
stata abbastanza chiara: “Vien sul mio
seno fremente, Stefan. Ti sazia alfin del corpo mio nivale”. L’immagine
preziosa trova immediata eco nello spasimante, ma con una non innocente variante:
“Saziar mi vo’ sul corpo tuo nivale”. “Qual
despota qui giunta io son, qui rimango” – può concludere, fiera di se
stessa, la trionfatrice.
“A notte
scenderò nel parco in riva al mar. Tu verrai, t’attenderò laggiù”. Ma ormai
è l’imbrunire (“La notte vien”); non
può non scapparci l’anticipo d’un bacio. Più d’un bacio. “Le labbra, le labbra tue come ardon, Stefan; ancor un bacio io vo’!”.
“Egli la bacia con estasi appassionata sulla bocca; d’un tratto essa si libera
dal suo amplesso e scompare nell’attigua stanza tenebrosa”. Come mai?
Evidentemente Medusa ha osservato, o intuito,
una presenza estranea. Orso, infatti, balza fuori dal nascondiglio e, con tre
pugnalate alla schiena, attua la feroce promessa.
Ai lamenti disperati di Orestella, accorsa al
grido lacerante del marito morente, s’intreccia il coro beffardo dei soldati
avvinazzati: “O Rossana! Se ti vuoi
confessar tu le calze non mostrar”….
Intanto giunge Troilo. Allarmato ma ignaro,
chiede a Medusa di Stefan. “È morto per
me; l’uccise il fratel” risponde tranquilla la donna. E senza perdere altro
tempo: “L’ardor ti vo’ donare del mio
cuore” e “lo trascina dolcemente nei suoi appartamenti”. Il coro reintona
divertito il suo ritornello: “O Rossana,
vuoi far penitenza o no?”…
Atto III
L’atto si apre a scena vuota, coi disperati
richiami dall’interno del vecchio Veniero, all'oscuro dell’accaduto ma reso
inquieto dall’assenza del figlio a tavola. “Stefan,
Stefan! Dove sei, figliuol mio?”. Passa per la scena sorretto da Aglauris e
ne esce, per nulla tranquillizzato dalla bugia pietosa della nuora.
Entra in scena Troilo, seguito da Medusa. E
mentre ancora risuonano gli strazianti richiami del vecchio, inizia tra i due
un duetto che uno, istintivamente, mette mano al telefonino per chiamare d’urgenza
il Telefono Azzurro. Medusa mette in atto, nei confronti di Troilo, una vera e
propria strategia di corruzione di minorenne (non sempre l’età anagrafica
corrisponde all’età psicologica!). E se ne vanta pure: “Conosco tutte l’arti che gl’ignari corrompono”, dirà tra poco,
quando l’opera di seduzione avrà raggiunto il suo scopo! Ma andiamo con ordine.
Troilo tenta di resistere, lamentando
l’uccisione del fratello. “Fanciul, deh,
obliamo i morti; e a me ti dona”
ordina Medusa E poiché quello si mostra preoccupato anche dei lamenti della
donna “che un tempo amai!”, dagli
ordini passa alla seduzione vera e propria. “La bella fronte posa sul seno mio, nei profondi miei occhi or tutto
oblia!”. Come resistere? Ode i lamenti di Aglauris…,
ma alla voce suadente di Medusa gli pare di udir “canti dal ciel discesi in su la terra”. Medusa schiude a lui “le porte del piacer, che il varco danno a
mondi ignoti al cor!” Troilo non può che rassegnarsi al suo destino: “Oh, t’amerò in eterno! (...) Io debbo amarti, Medusa”. Deve, capite? Anche lui, come già
Stefan, deve.
Medusa ha vinto ancora. “Inebria il bacio mio come il tosco infernal…”, si complimenta con se stessa. E:
“Vinto tu sei, per sempre mio sei tu
ormai”. Ma non le basta: vuole esasperarne il desiderio col minaccioso
ritornello che ripete dal momento dell’arrivo: “Lungi diman trarrammi il cieco destino!”. E, alla prevista,
disperata reazione, “Taci tu, folle
bimbo: vieni qui sul mio sen!”. E, a quel contatto, il folle bimbo rivive, nientemeno, la mistica esperienza d’Isotta,
sperimenta la voluttà del disfarsi nel Tutto. “Debbo io (…) dolcemente in vapori / dissiparmi?”, chiedeva la
giovane irlandese. “Nell’ondeggiante
oceano / nell’armonia sonora, / del respiro del mondo / nell’alitante Tutto…”
– si rispondeva – “naufragare, /
affondare… / inconsapevolmente… / suprema letizia!” (trad. G. Manacorda).
Il nostro folle bimbo è,
naturalmente, più sbrigativo: “In te già
mi dissolvo… Medusa!”. Una “dissoluzione” che Orso, apparso a una finestra,
gli augura (e gli prepara) a modo suo. E che il Coro gli contrappunta con le
sue beffarde ammonizioni: “O Rossana, è
Pasqua, tu le calze non mostrar! Praticare tu dovrai la virtù!”.
A interrompere l’estasi vale piuttosto l’arrivo
di Aglauris, la sposa tradita. Anche qui viene in mente il capolavoro
wagneriano. Ricordate la conclusione del I atto del Tristano? L’arrivo della nave in Cornovaglia è salutato da un
infernale chiasso di festose acclamazioni e assordanti squilli di tromba.
Tristano e Isotta, persi nell’estasi amorosa, non si accorgono di nulla. Il
buon Kurwenal tenta di richiamare alla realtà il suo signore: “S’appressa Re Marco”. “Chi s’appressa?”. “Il Re”. E Tristano: “Quale Re?”.
Così Troilo. Guarda con la fissità ebete d’un ubriaco la sposa che implora
pietà e tenta di farlo tornare alla tragica realtà (il cadavere del fratello è
ancora lì, a pochi passi). “Chi sei tu?”
le chiede stralunato, aggiungendo sgomento alla disperazione. “Oh, Dio! Non mi conosci? O Dio, qual furia avvinse la chiara anima
tua?”. E con tutta la forza della disperazione grida: “Io sono Aglauris! (…) la fida donna tua che amasti un dì (…) O mio
Troilo!”...
Ma se Troilo è perduto in qualche suo arcano
mondo d’amore, è ben presente, e con i piedi ben piantati sulla terra, la
nefasta ospite, stizzita dell’inopportuno arrivo dell’intrusa. “Che
vuol questa demente?” chiede brutalmente. E: “Via! (…) Non t’ode più, non
t’ama più!” le grida spietata. “Tu
piangi invano… Tutto è mio il sangue di costui”! E alla violenta reazione
dell’infelice risponde a stilettate. “Aglauris cade senza grido presso la
soglia di una porta”.
La stessa disumana freddezza permette a Medusa
di notare per tempo l’effetto della folle gelosia di Orso. “Fuggiam, fuggiam. La casa è in preda al
fuoco!” grida a quello stordito dell’amante. Che può fare, il folle bimbo, se non aggrapparsi alle
gonnelle della “mamma”? Ma lei si divincola, e fugge. Appena in tempo, ché il
soffitto crolla. E Troilo, già quasi sepolto, “Medusa, dove sei?” invoca. E poi, le sue estreme parole: “Oh ardente letto di morte!”. Tragicocomico,
involontario doppiosenso.
Medusa corre al vascello, mentre Orso tenta di
sbarrarle la fuga. “No! Non dei fuggir da
qui; devi esser mia!” (Quando si dice l’ossessione!). “Seguimi!” gli intima lei, slanciandosi sul vascello. “Sei mio! – afferma la presunta preda. “Per sempre perduto!”. E l’orchestra lo
sancisce con un pieno accordo di tonica (si bemolle maggiore).
...............................................
Tale il non
eccelso il libretto, di cui completerò l’analisi (con l’indicazione del
contesto letterario di riferimento) nel prossimo post. Ma la musica…, quella è
un’altra cosa! E ne parleremo in seguito.
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