Gli auguri ai miei amici per le prossime feste natalizie vorrei
accompagnarli (se fosse nelle mie disponibilità!) col dono di una coppia di
gioielli confezionati in epoche diverse: il Concerto
grosso op. VI n. 8 di Corelli e il Trittico
botticelliano di Respighi. Sono doni che non dovrebbero riuscire sgraditi;
perlomeno a quanti si ostinano a vedere, nelle prossime festività, qualcosa che
va oltre l’esplosione consumistica e il trionfo del kitsch nelle sue varie
forme.
Arcangelo Corelli (di Jan Frans van Douwen) |
Il VI, pubblicato postumo ma nel rispetto della sua
volontà, comprende esclusivamente Concerti grossi. Questo ‘genere’
(esclusivamente strumentale) prevedeva un organico nettamente distinto in due
parti: il ‘concertino’ (o ‘soli’) – costituito da due violini e un violoncello
– e il ‘concerto grosso’ (o ‘tutti’), costituito da un numero variabile di
strumenti ad arco, sempre accompagnati da un ‘basso continuo’, realizzato dal
clavicembalo nelle musiche ‘da camera’ e dall’organo nelle ‘musiche da chiesa’.
Questa suddivisione consentiva di alternare il ‘concertino’ col ‘tutti’,
secondo le esigenze del compositore, ottenendone varietà e dinamismo.
Quello qui proposto è appunto un Concerto grosso ‘da
chiesa’, il n. 8 della raccolta, distinto dal sottotitolo “Fatto per la Notte di Natale”.
Il carattere natalizio del concerto è particolarmente
evidente nell’ultimo movimento, “Pastorale”. E tuttavia, a modesto parere di
chi scrive, sarebbe grave errore limitare il riferimento del sottotitolo al
solo movimento conclusivo, trattando il resto come una delle suite di danze tanto care alla musica
barocca. Tutto il Concerto, con la sua alternanza di momenti gioiosi ad altri
più meditativi e inclini alla tenerezza, va inteso immerso nell’atmosfera
natalizia.
Il
primo movimento (Vivace) è brevissimo (solo otto battute) ed ha evidente
carattere introduttivo. A mio giudizio, risente del coevo melodramma, un genere
attentamente evitato dal compositore romagnolo ma a lui, certo, non ignoto. Gli
accordi, decisi anche se intervallati da pause, presentano un personaggio
autorevole che si avanza sul proscenio a imporre il silenzio e chiedere
attenzione. Il breve periodo musicale, infatti, non conclude; si arresta
sull’accordo di dominante generando sospensione, attesa, accresciuta dalla
pausa: attenzione! un evento importante sta per svolgersi sotto i vostri occhi!
Ed ecco, nel Grave, emergere, pianissimo, dalle profondità misteriose del basso
la nota fondamentale, a cui si aggiungeranno via via le altre voci, snodandosi austere
e solenni, in un preciso contrappunto che certo non sarebbe dispiaciuto a
Palestrina. È così creata l’atmosfera appropriata al mistero della salvezza, che
ha inizio appunto con la natività del Signore. Ma la nascita è comunque un
evento lieto e, in tutta naturalezza, la severa armonia trapassa nella gioiosa danza
dell’Allegro. A questo fa seguito un pezzo più meditativo, fatto di gioia
contenuta (dal sol minore si passa al mi bemolle maggiore), che parte da un
motivo semplicissimo (sostanzialmente si regge sulle note degli accordi di
tonica e di dominante), con un movimento cullante che sembra anticipare quello
della Pastorale. Il breve Adagio si lega a un passo più mosso (Allegro) per
riapparire poco dopo identico e concludersi con una ‘coda’ che prepara
l’accordo conclusivo. La gioia riesplode in una vivace danza di pastori
(tonalità di partenza) a cui sembrano unirsi anche gli angeli. La melodia
infatti è impreziosita da deliziosi trilli che sembrano evocare un aliare di angioletti
intorno al Presepe, secondo l’ingenua fantasia popolare ripresa da non pochi
pittori, quali, per esempio, Nicolas Poussin o Luca Giordano. Per poi
rinnovarsi ancor più festosa in una nuova danza in tempo tagliato (una
gavotta?), la cui foga si stempera bruscamente nel passaggio alla Pastorale
finale, avviata senza pause ma con improvviso slittamento alla tonalità di sol
maggiore. E’ questo il passo più noto, rimasto nella memoria di chiunque
l’abbia ascoltata almeno una volta. Col suo caratteristico andamento cullante (dato
dallo schema ritmico dei 12/8), la Pastorale scorre tranquilla e pacata fino
alla conclusione: un sentimento di devota tenerezza la percorre da cima a
fondo, mantenendo sempre una misura di classica sobrietà, senza mai scadere nel
facile sentimentalismo (pericolo sempre in agguato in tale genere di
composizioni).
Nicolas Poussin (XVII sec.), L'Adorazione dei pastori |
Non sta a me suggerirvi l’interpretazione in cui
ascoltarlo. Non mancherò, però, di segnalare la mia preferita (anche perché ormai fuori
commercio, credo, e quindi nessuno mi può accusare di indebita pubblicità). È
quella diretta da Igor Oistrakh, con l’Ensemble di solisti dell’Orchestra
sinfonica accademica della Filarmonica di Mosca, incisa da “Melodia” negli anni
’80 (c’era ancora l’Unione Sovietica!). Quanta gentile delicatezza, nella loro
esecuzione, quanto rispetto per quell’indicazione nient’affatto superflua
dell’autore: “fatto per la Notte di Natale”! Quanta delicatezza in quel timido
poggiare e tenere con trepidazione la nota iniziale della battuta! Con quanta finezza
sono risolti quei tenui ricami corelliani che all’ingenua fantasia evocano l’angelico
aleggiare sul presepe! Insomma, una bella differenza rispetto a chi,
probabilmente proprio per l’errore di restringere il carattere natalizio al
movimento finale, ne fa una serie di vivaci danze rustiche (da festa della
vendemmia!), adottando tempi sbrigativi, esasperazione dei tempi forti, rudezza
selvaggia dell’arcata.
Come secondo ‘dono’ avrei potuto proporvi un altro
concerto natalizio barocco, quello di Torelli, per esempio, o di Manfredini, o
di Locatelli… Preferisco suggerirvi qualcosa di meno consueto:
l'“Adorazione dei Magi”, tratta dal Trittico
botticelliano di Ottorino Respighi (Bologna, 1879 – Roma, 1936).
Respighi, con i cani, ospite di Ojetti al Salviatino |
Il secondo movimento del Trittico (Andante lento) si ispira all’omonimo dipinto
botticelliano esposto agli Uffizi. Ma chi nell’ascolto ne ricercasse una
descrizione accurata, sia pure con tutta l’indeterminatezza del linguaggio
musicale, resterebbe fatalmente deluso. Il legame col quadro di Botticelli
resta molto generico. L’ispirazione respighiana si limita all’atmosfera
natalizia, integrata da quel tanto di esotico, di orientaleggiante, suggerito
dall’arrivo dei Magi (“Vidimus stellam eius in
Oriente, et venimus adorare eum”). Certo c’è, nel musicista bolognese, la
ricerca coloristica che lo ha sempre affascinato. Il Trittico è un “lavoro per
piccola orchestra” – disse l’autore alla moglie (febbraio 1927) annunciandole
l’intenzione di comporlo. Ma è tale il suo amore per la raffinatezza pittorica che,
accanto al quintetto d’archi, al pianoforte, all’arpa e a pochi fiati usuali
(fagotto, flauto, oboe, clarinetto) non sa rinunciare a strumenti poco frequentati
ma a lui cari proprio per il particolare colore timbrico, quali, oltre
all’amata celesta, il triangolo e persino i campanelli. Eppure, anche la
ricerca di analogie tra le tinte del dipinto ispiratore e i ‘colori’
orchestrali non credo darebbe risultati convincenti.
Io vorrei invece proporre (con tutta la modestia e la
cautela del caso) una tripartizione di natura narrativa: l’adorazione dei
pastori, il viaggio dei Magi, l’adorazione dei Magi propriamente detta.
Si entra in tema appunto con l’adorazione dei pastori, evocata dal fagotto cui presto si associa l’oboe, mentre il flauto (sono i tre strumenti tipici delle scene pastorali) si esibisce in gioiosi svolazzi; e infine gli archi. Ed ecco, su pochi accordi profondi degli archi, innestarsi, chiarissima, nettissima, una melodia d’organo dal sapore antico. Ma come l’organo? Non è una composizione per piccola orchestra? Sì, e infatti non c’è nessun organo. L’illusione acustica è prodotta mediante l’accoppiamento di flauto e fagotto a distanza di due ottave, ed ha la funzione di contribuire a creare l’atmosfera di religioso raccoglimento. La melodia dal sapore antico, infatti, altro non è che la rielaborazione di una cantilena di chiesa di ascendenza medioevale, Veni veni Emmanuel, a sua volta derivata da una più antica melopea che intona le antifone vespertine in preparazione del Natale, una delle quali comincia appunto con “O Emmanuel”. Il motivo viene variamente ripetuto, fiorito da gioiosi svolazzi e giravolte del flauto, e interpuntato da brevi ma profondi interventi degli archi. Che lo concludono, cedendo il passo a una marcia in tempo moderato, evocatrice del viaggio dei Magi, e, se la memoria non m’inganna, non immemore delle borodiniane steppe dell’Asia centrale (si ricordi che Respighi, agli inizi del Novecento, partecipò come viola a due lunghe stagioni concertistiche in Russia, dove seguì con particolare interesse – per non dire con devozione – gli insegnamenti di Rimski-Korsakov, che di Borodin era stato sodale nel Gruppo dei Cinque e non di rado coadiutore nella strumentazione). La marcia, ritmata dagli archi e da bruschi interventi di pianoforte, arpa, triangolo e celesta (spesso con accordi “acquosi” che sembrano ripresi dalle Fontane) presenta un carattere esotico, orientaleggiante: si noti in particolare il breve canto dell’oboe (da confrontare col canto da Borodin assegnato al corno inglese) e il dialogare della celesta con i fiati, in particolare col flauto. Poi la musica, come per stanchezza, si fa languida; e, dopo un vano tentativo di rianimarla da parte degli archi, d’un tratto precipita in un accordo tenebroso, e ristagna senza capacità di risollevarsi. Ma ecco, proprio dal fondo scuro di quelle note stagnanti, ecco levarsi un canto noto, tenero, familiare: sì, è la melodia di “Tu scendi dalle stelle”, la popolare melodia di Sant’Alfonso, che, come Respighi ai suoi tempi, ognuno di noi ha udito da bambino, e si mescola ai più cari ricordi dell’infanzia. La presenta, con voce timida, il solito fagotto, ma presto subentra l’oboe a chiarire e illuminare quella melodia fatta di nulla, mentre gli archi la fioriscono a modo loro, e la voce del fagotto si fa cullante… Un sentimento di tenerezza s’impone: Respighi dovette avvertire il rischio di lasciarsi prendere la mano da un sentimentalismo nostalgico ribelle al “fren dell’arte”. E infatti, da grande artista, si affretta a dissiparne il motivo: fagotto e oboe lo deformano con note che sembrano incongrue e che invece ci riportano all’iniziale, umile adorazione dei pastori. Il ciclo è compiuto, la voce dominante del fagotto si spegne e presto anche il pianissimo dei violini svanisce nel silenzio.
Sandro Botticelli, L'Adorazione dei Magi |
Si entra in tema appunto con l’adorazione dei pastori, evocata dal fagotto cui presto si associa l’oboe, mentre il flauto (sono i tre strumenti tipici delle scene pastorali) si esibisce in gioiosi svolazzi; e infine gli archi. Ed ecco, su pochi accordi profondi degli archi, innestarsi, chiarissima, nettissima, una melodia d’organo dal sapore antico. Ma come l’organo? Non è una composizione per piccola orchestra? Sì, e infatti non c’è nessun organo. L’illusione acustica è prodotta mediante l’accoppiamento di flauto e fagotto a distanza di due ottave, ed ha la funzione di contribuire a creare l’atmosfera di religioso raccoglimento. La melodia dal sapore antico, infatti, altro non è che la rielaborazione di una cantilena di chiesa di ascendenza medioevale, Veni veni Emmanuel, a sua volta derivata da una più antica melopea che intona le antifone vespertine in preparazione del Natale, una delle quali comincia appunto con “O Emmanuel”. Il motivo viene variamente ripetuto, fiorito da gioiosi svolazzi e giravolte del flauto, e interpuntato da brevi ma profondi interventi degli archi. Che lo concludono, cedendo il passo a una marcia in tempo moderato, evocatrice del viaggio dei Magi, e, se la memoria non m’inganna, non immemore delle borodiniane steppe dell’Asia centrale (si ricordi che Respighi, agli inizi del Novecento, partecipò come viola a due lunghe stagioni concertistiche in Russia, dove seguì con particolare interesse – per non dire con devozione – gli insegnamenti di Rimski-Korsakov, che di Borodin era stato sodale nel Gruppo dei Cinque e non di rado coadiutore nella strumentazione). La marcia, ritmata dagli archi e da bruschi interventi di pianoforte, arpa, triangolo e celesta (spesso con accordi “acquosi” che sembrano ripresi dalle Fontane) presenta un carattere esotico, orientaleggiante: si noti in particolare il breve canto dell’oboe (da confrontare col canto da Borodin assegnato al corno inglese) e il dialogare della celesta con i fiati, in particolare col flauto. Poi la musica, come per stanchezza, si fa languida; e, dopo un vano tentativo di rianimarla da parte degli archi, d’un tratto precipita in un accordo tenebroso, e ristagna senza capacità di risollevarsi. Ma ecco, proprio dal fondo scuro di quelle note stagnanti, ecco levarsi un canto noto, tenero, familiare: sì, è la melodia di “Tu scendi dalle stelle”, la popolare melodia di Sant’Alfonso, che, come Respighi ai suoi tempi, ognuno di noi ha udito da bambino, e si mescola ai più cari ricordi dell’infanzia. La presenta, con voce timida, il solito fagotto, ma presto subentra l’oboe a chiarire e illuminare quella melodia fatta di nulla, mentre gli archi la fioriscono a modo loro, e la voce del fagotto si fa cullante… Un sentimento di tenerezza s’impone: Respighi dovette avvertire il rischio di lasciarsi prendere la mano da un sentimentalismo nostalgico ribelle al “fren dell’arte”. E infatti, da grande artista, si affretta a dissiparne il motivo: fagotto e oboe lo deformano con note che sembrano incongrue e che invece ci riportano all’iniziale, umile adorazione dei pastori. Il ciclo è compiuto, la voce dominante del fagotto si spegne e presto anche il pianissimo dei violini svanisce nel silenzio.