Non si allarmino i miei quattro lettori. Non sono
un talebano e non sto proponendo di bandire dalle nostre case, e dalla nostra
vita, la musica, questa peccaminosa adescatrice. Al contrario. È proprio
l’amore per la musica che mi spinge ad affrontare l’argomento odierno, quello
delle conseguenze negative della pervasiva presenza della musica un po’
dappertutto: centri commerciali, locali pubblici, ristoranti, negozi,
parcheggi, alberghi… Musica spesso di infima qualità (Muzak!), e, in ogni caso,
musica non richiesta, alla cui fastidiosa ingerenza non troviamo scampo. E
notate che non è solo un problema di gusto, di fastidio personale. Pensate, per
esempio, alla condizione di una commessa forzatamente esposta, per otto ore al
giorno, al bombardamento di musica rock a tutto volume. Alla lunga, molto
probabilmente, svilupperà problemi di ipoacusia. Da subito, e senza incertezze,
possiamo dire che al termine della giornata di lavoro non può non uscire
rintronata. A meno che non impari a non ascoltare. (E confesso che quella
d’imparare a non ascoltare, o meglio ad abituare l’orecchio a un ascolto
selettivo, è l’unica strategia difensiva individuale che sono riuscito a elaborare).
È un soggetto su cui rifletto da
tempo. Se mi decido a parlarne ora è per via di un recente intervento, proprio
su questo tema, del filosofo inglese Roger Scruton su Radio 4 della BBC.
Scruton affronta il problema con sinteticità e completezza
esemplari – e con la chiarezza che distingue un po’ tutti i suoi interventi –
soffermandosi principalmente sui danni per l’orecchio e la sensibilità
musicale. Ne risulta un testo utilissimo a stimolare la riflessione: anzitutto
di quanti, a vario titolo e livello, si occupano di educazione musicale; ma
anche, più in generale, di tutti quelli che amano la musica (e anche di quelli
che non sanno di amarla!). Penso, quindi, di far cosa gradita presentandone la
traduzione, non senza premettere qualche riga sull’autore (che ringrazio per la
cortese autorizzazione). Se poi tutto questo invoglierà qualcuno a ricercarne
in Internet la registrazione originale, sarà ancora meglio.
Sir Roger Scruton (dal sito
www.roger-scruton.com)
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Sir Roger Scruton è un filosofo e scrittore
poliedrico. Al suo attivo ha già una quarantina di volumi e innumerevoli
contributi minori. Affronta spesso argomenti scottanti di politica e di
costume, esprimendo punti di vista ispirati a un conservatorismo che non
disdegnerebbe il motto di Edmund Burke, scrittore politico del Settecento, che
nella “propensione a conservare” e nella “capacità di migliorare” vedeva le
qualità costitutive del perfetto uomo di Stato (“A disposition to preserve, and an ability to
improve, taken together, would be my standard of a statesman”: “una sintesi di propensione a conservare
e capacità di migliorare costituirebbe, per me, l’uomo di Stato ideale”!).
Punti di vista talvolta condivisibili, altre volte discutibili, ma sempre
stimolanti. Almeno per chi ricerca la verità senza condizionamenti preconcetti.
Ma il campo filosofico in cui Scruton si muove da
vero specialista è quello dell’estetica. E qui la sua posizione sembra a me
largamente condivisibile. Specialmente per quanto attiene alla musica, un
ambito in cui Sir Roger può vantare anche un’esperienza diretta in veste di
compositore (pezzi per pianoforte, lieder – alcuni su testi di Garcia
Lorca –, un paio di opere liriche…), anche se lui tende a minimizzare,
proclamandosi niente più che un “amateur”, qualcuno che si siede davanti a un
pianoforte “per puro divertimento personale”. La sua presa di posizione sul
nostro argomento è dunque dettata da amore nutrito di competenza. Non ci resta
che ascoltarlo. E... magari discuterlo.
Perché è ora di spegnere la musica
Oggigiorno quasi in ogni spazio pubblico
gli orecchi sono presi d’assalto dal suono della musica pop. Nei centri
commerciali, nei locali pubblici, nei ristoranti, alberghi, ascensori il rumore
di fondo non è la conversazione umana, ma la musica rovesciata nell’aria da
diffusori – di solito diffusori invisibili e inaccessibili, che non possono
essere ‘puniti’ per la loro invadenza. Certi locali si caratterizzano con una
sigla musicale loro propria – folk, jazz o brani di musical di Broadway. Ma,
nella maggior parte dei casi, la musica prevalente è di una banalità
stupefacente: in realtà, c’è per non esserci. È solo un sottofondo a
un’attività volta al consumo, un avvolgente nulla sul quale noi scarabocchiamo
i graffiti dei nostri desideri. Le forme peggiori di questa musica – dal nome
commerciale nota a volte come Muzak – sono prodotte senza l’intervento di
musicisti, trattandosi di pezzi tratti da un repertorio di effetti standard e
montati al computer.
Il sottofondo sonoro della vita
moderna è dunque di giorno in giorno meno umano. Il ritmo, che è il suono della
vita, è stato largamente sostituito da impulsi elettrici, prodotti da una
macchina programmata a ripetersi all’infinito, e a far penetrare le sue
rimbombanti note di basso direttamente nelle ossa della vittima. Intere zone di
spazio pubblico nella nostra società sono ora presidiate da questo suono, che
esaspera alla follia chiunque abbia un minimo di sensibilità musicale, e
garantisce che per molti di noi una capatina in un pub o un pasto al ristorante
hanno perso il loro significato accessorio. Non sono più incontri sociali, ma
esperimenti di resistenza: non si fa che gridare l’uno all’altro al di sopra di
quel rumore infernale.
Ci sono due ragioni che spiegano
perché questa musica vacua ha invaso ogni spazio pubblico. Una è il grande
cambiamento apportato all’orecchio umano dalla produzione di massa del suono.
L’altra è la mancanza di leggi volte a proteggerci dal risultato. Per i nostri
antenati la musica era qualcosa che uno si metteva a sedere per ascoltarla, o
farla da se stesso. Era un evento rituale, al quale si partecipava,
passivamente come ascoltatore o attivamente come esecutore. In entrambi i casi
si dava e si riceveva vita, condividendo qualcosa di grande importanza sociale.
Con l’avvento del grammofono,
della radio e ora dell’iPod, la musica non è più qualcosa che dobbiate fare da
voi stessi, o che dobbiate mettervi a sedere per ascoltarla. Vi segue dovunque
andiate, l’accendete come sottofondo. Non è propriamente ascoltata, quanto
sentita sbadatamente. Le melodie banali e i ritmi meccanici, le armonie
prefabbricate riciclate canzone dopo canzone: queste cose significano l’eclisse
dell’orecchio musicale. Per molte persone la musica non è più un
linguaggio formato dai nostri sentimenti più profondi, non è più un rifugio dalla
pacchianeria e frenesia della vita d’ogni giorno, non è più un’arte in cui idee
avvincenti sono seguite fino alle loro lontane conclusioni. È soltanto un
tappeto sonoro destinato ad abbassare pensiero e sentimento al suo livello, per
scongiurare l’eventualità che qualcosa di serio venga detto o avvertito.
E non c’è alcuna legge che vi si
opponga. A voi è giustamente impedito di inquinare col fumo l’aria di un
ristorante, ma niente impedisce al proprietario di infliggere ai clienti questo
ben peggiore inquinamento; un inquinamento che avvelena non il corpo, ma
l’anima. Naturalmente, voi potete ben chiedere di spegnere la musica. Ma vi
troverete di fronte sguardi stupefatti, persino ostili. Che razza di sciroccato
è questo tipo, che vuole imporre a tutti il proprio volere? Chi è lui per
imporre il livello del rumore? Questa è la comune reazione. La musica di
sottofondo è la condizione normale. Non al silenzio si ritorna quando si smette
di parlare, ma al vacuo baccano della scatola da musica. Il silenzio deve
essere escluso ad ogni costo, giacché vi fa aprire gli occhi sul vuoto che si
profila inquietante al margine della vita moderna, minacciando di mettervi di
fronte alla spaventosa verità che non avete proprio niente da dire. D’altra
parte, se noi conoscessimo il silenzio per quello che era una volta, la docile
materia a cui la vera musica dà forma, non ci spaventerebbe affatto.
Io penso che non dovremmo
sottovalutare la tirannia esercitata sul cervello umano dalla musica pop.
L’implacabile ripetizione, ad ogni momento del giorno e della notte, di
banalità musicali porta alla dipendenza. Ed ha un effetto deleterio sulla
conversazione. Ho l’impressione che la crescente incapacità di esprimersi dei
giovani, la loro inettitudine a completare le frasi, a trovare locuzioni ed
immagini espressive, o a dire una qualunque cosa senza ricorrere all’ausilio
della parola “come”, abbia qualcosa da vedere col fatto che i loro orecchi sono
costantemente imbottiti di bambagia. Nelle loro teste girano e rigirano le
progressioni armoniche, le parole vuote e i frammenti immiseriti d’un motivetto
orecchiabile, e la scatola cranica gli scoppia ad ogni inizio di battuta.
L’inquinamento della musica pop
ha, sul gusto per la musica, un effetto paragonabile a quello della pornografia
in ambito sessuale. Tutto ciò che è bello, speciale e pieno d’amore è
sostituito da un meccanismo implacabile. Proprio come il pornodipendente perde
la capacità di un autentico amore sessuale, così il popdipendente perde la
capacità di una genuina esperienza musicale. Il magico incontro con il
quartetto beethoveniano, la suite bachiana, la sinfonia di brahmsiana, nel quale
tutto il vostro essere è afferrato da idee melodiche e armoniche e condotto in
un viaggio attraverso l’immaginario spazio musicale – questa esperienza che
giace nel cuore della nostra civiltà ed è un’incomparabile fonte di gioia e
consolazione per tutti quelli che la conoscono – non è più una risorsa
universale. È diventata una stravaganza privata, qualcosa cui resta aggrappato
un gruppo decrescente di vecchietti, ma che molti giovani considerano
irrilevante. Giovani orecchi via via più numerosi risultano incapaci di
raggiungere questo mondo incantato, e quindi ci rinunciano. La perdita è loro,
ma voi non potete farglielo capire, non più di quanto possiate spiegare la
bellezza dei colori a chi sia nato cieco.
Al pianoforte (“en amateur”!): fotogramma dal film documentario At home in Scrutopia
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C’è rimedio? Sì, io penso di sì.
L’orecchio assuefatto, reso ottuso dalla ripetizione, è sigillato come un
mollusco bivalve attorno alle sue stupide perle. Ma potete forzarlo ad aprirsi
con gli strumenti musicali. Mettete un giovane in condizione di far musica, e
non di ascoltarla soltanto, e subito l’orecchio comincerà a risvegliarsi dal
letargo. Insegnando ai bambini a suonare strumenti musicali, li facciamo
familiarizzare con le radici della musica nella vita umana.
Il passo successivo consiste
nell’introdurre l’idea della valutazione critica. La convinzione che esiste una
differenza tra buono e cattivo, significativo e insignificante, profondo e
insulso, emozionante e banale – questa convinzione una volta aveva
un’importanza fondamentale nell’educazione musicale. Ma si scontra con la
correttezza politica. Oggi c’è il mio gusto come c’è il tuo. L’idea che il mio
gusto sia migliore del tuo è elitaria, un’offesa all’uguaglianza. Ma se non
insegniamo ai bambini a valutare criticamente, a discriminare, a riconoscere la
differenza tra musica di valore duraturo e il mero effimero, rinunciamo al
compito educativo. La valutazione critica è la precondizione di una fruizione
autentica, e il preludio alla comprensione dell’arte in tutte le sue forme.
La buona notizia è che, in cuor
loro, le persone sono consapevoli di questo. Tutti quelli che hanno fatto
l’esperienza di insegnare ad apprezzare la musica sanno che è così. Il primo
passo è far conoscere il bene prezioso del silenzio, in modo che i vostri
studenti tengano le orecchie ben aperte all’ascolto del cosmo, e comincino a
dimenticare i piaceri non dissimili a quelli delle droghe. Poi suonate loro le
cose che amate voi. Dapprima si mostreranno disorientati. Insomma, come può
questo vecchiaccio starsene seduto in silenzio per 50 minuti ad ascoltare
qualcosa che non ha un ritmo marcato, che non presenta un qualche motivo
orecchiabile? Poi passate a discutere le cose che amano loro. Avevano notato,
per esempio, che Lady Gaga in “Poker Face” per la maggior parte della melodia
resta su una nota sola? È vera melodia, questa? Dopo un po’ si renderanno conto
che loro fanno valutazioni da sempre – solo che le facevano sbagliate. Quando
al festival di Glastonbury del 2014 apparvero i Metallica, ci fu un momento di
presa di coscienza di questo genere: il riconoscimento che questi ragazzi,
diversamente da tanti che si erano esibiti là, avevano effettivamente qualcosa
da dire. Sì, ci sono differenze anche nel regno del pop.
La fase successiva consiste nel
fare agire gli studenti: cantare all’unisono, e poi per parti corali. Ben
presto capiranno che la musica non è una coltre per silenziare la
comunicazione, ma una forma di comunicazione essa stessa. E gradualmente
impareranno a conoscere il posto di questa grande forma d’arte nel mondo che
hanno ereditato. La nostra civiltà è stata modellata dalla musica, e la
tradizione musicale che abbiamo ereditato merita la nostra approvazione non
meno di tutte le altre nostre conquiste nell’arte, nella scienza, nella religione
e nella politica. Questa tradizione musicale parla da sé, ma per sentirla
bisogna ripulire l’aria dal rumore.