Presentazione
In questo articolo, dopo una breve premessa su ascendenze
e novità della musica barilliana, vorrei condividere qualche non arbitraria impressione d’ascolto, e qualche spunto
interpretativo, libero ognuno di accoglierli e svilupparli in proprio, o di
rifiutarli sostituendovene altri.
Varrà questo a invogliarvi a farne esperienza personale?
Lo spero. Perché ne vale la pena. Barilli non ha certo la statura musicale di
un Verdi, o di un Wagner, ma Medusa è
un’opera nuova e, diversamente da tanti celebrati esperimenti avanguardistici,
completamente godibile anche da non musicisti come noi. Solo vorrei avvertirvi
di non fermarvi alle impressioni del primo ascolto. Non è opera di fascino
immediato. Non troviamo qui né i pezzi chiusi cui ci aveva abituati il
melodramma tradizionale, né le espansioni liriche delle romanze “veriste”. Gli
spunti melodici non mancano certo, ma in generale si esauriscono in poche
battute. E anche l’impiego dell’orchestra, benché l’autore si avventuri nella
selva degli accordi con qualche timidezza, risulta nuovo, specialmente nella
ricerca timbrica. Ma basta ascoltarla un paio di volte e ci si appassiona.
Dove ascoltarla?
Ricordate quella riedizione Rai che il povero Barilli non
arrivò ad ascoltare? Fu registrata il 26 luglio 1952 negli studi della Rai di
Milano, diretta da Alfredo Simonetto. La trovate su Youtube. La qualità tecnica
non è elevata; e c’è anche una ripetizione: a 45:27 la registrazione torna
indietro, riprendendo da 43:07 (chi ha operato la giunzione è stato tratto in
inganno dall’esclamazione “O follia di tutti i sensi” – 45:27 – confusa con “O
follia dei miei sensi” – 43:07 –). Ciò
nulla toglie al merito del baritono Allan Rizzetti che l’ha messa in rete, al quale va il mio
cordiale ringraziamento.
Ascendenze e novità della musica barilliana
“Quando il maestro è Mottl e l’allievo è uno come me, è
chiaro che ne verrà fuori qualcosa come Medusa”, riconosce Barilli. Ed
è riconoscimento non da poco per uno che, pur non potendo disconoscere la
grandezza e l’importanza di Wagner, non aveva nascosto la propria antipatia per
la sua ingombrante presenza nella musica italiana, prima direttamente, poi via
Strauss, piombatoci addosso “come un post scriptum di Wagner”, quando Puccini e
Mascagni ce ne avevano a malapena liberati.
Felix Mottl, l’amato maestro degli anni monacensi (v. Barilli musicista), era
infatti uno dei più ardenti wagneriani. Al punto da cadere “fulminato ai piedi
dell’altare” del Tristano, come annota
Barilli (e non è un modo di dire: Mottl morì in seguito a un attacco
di cuore sopravvenuto proprio mentre dirigeva la sua centesima esecuzione del Tristano!). Nessuna meraviglia, dunque,
se nella Medusa barilliana qualche
traccia del disamato Wagner ce la troviamo.
“Il plastico tema sbalzato sulle prime nude battute di
Medusa, alcuni andamenti e positure degli archi scoperti, il ricorso dei motivi
e quell’intervallare spazioso e profondo del declamato risentono le influenze
inevitabili dell’atmosfera nordica”, scriveva Abbiati all’indomani della prima
bergamasca. Ma non è solo questo.
A Wagner, direttamente o indirettamente, va ricondotta
anzitutto l’adozione della tecnica della “melodia infinita”, con l’esclusione
non solo dei numeri chiusi cari al melodramma ottocentesco (tanto più
significativa in un fervente ammiratore di Verdi qual era il nostro), ma anche
delle espansioni liriche presenti in Puccini e negli altri esponenti della
“giovane scuola”. Come lo è il ricorrere – identici o variati – di alcuni temi,
sia pure senza la specifica funzione wagneriana; e non solo “l’intervallare
spazioso e profondo del declamato” (così diverso da quello corrente all’epoca,
che si muoveva prevalentemente dal registro centrale a quello acuto), ma anche
quella che chiamerei dilatazione enfatica, cioè una durata particolarmente protratta della nota che intona sillabe di parole
molto importanti; diversa, dunque, dalle note a
corona (dilatazioni retoriche, le chiamerei) messe lì a servizio del virtuosismo e vanità dei cantanti, per strappare
l’applauso irrefrenabile di platea e loggione all’unisono.
E allora – direte – come si concilia tutto questo, non
tanto con la dichiarata antipatia per l’esorbitante presenza di Wagner nella
musica italiana, ma soprattutto con la insistita pretesa di una Medusa fattasi “da per sé”. “Io
assistevo e registravo, come un cronista musicale, dall’orecchio attento e
chiarissimo, – scrivevo sotto dettatura, e alle volte la suonavo d’emblée”. Sarà stato senz’altro così. Solo che
il ‘dettatore’ altri non era che l’io profondo del Barilli, quale si era venuto
configurando anche attraverso
l’assimilazione degli esempi e insegnamenti del wagneriano Felix Mottl.
La Medusa alla prova dell’ascolto:
a) un’impressione di incongruenza
Al primo ascolto si rimane perplessi, per non dire confusi.
Si ha la strana impressione che in
alcuni punti l’orchestra contraddica il personaggio.
Prendiamo, per esempio, il racconto
‘autobiografico’ di Medusa. È forse l’unica occasione offerta dal testo poetico
alla ‘romanza’, e immagino cosa ne sarebbe uscito dalle mani di un Mascagni,
per non dire di Puccini! Invece Barilli ne dà una versione piuttosto monotona
nella prima parte, lo interrompe violentemente con l’accenno al simùm, cui
segue lo splendido intervento del coro evocatore della vastità del foscoliano
“regno ampio dei venti”, per poi riprenderlo con enfasi accentuata. Ma c’è qualcosa che non torna.
Quando Medusa giunge alla fine della prima parte (“dove
ampio in fra i palmizii trascorre il pio Giordan”) il flauto sottoscrive con un paio di svolazzi che hanno l’aria di uno sberleffo d’incredulità, rafforzata dalle note
profonde dei contrabbassi. E quando si giunge al provvidenziale vascello, l’orchestra
gonfia il racconto di enfasi caricaturale.
Analoga impressione in non pochi altri casi. All’inizio del secondo
atto, poi, sono gli stessi lamenti delle due spose dimenticate ad essere
intonati in maniera… poco convincente. Che succede dunque? Il musicista irride
i suoi stessi personaggi che vivono (o dovrebbero) una storia tragica? Sembra
proprio di sì... Andiamo alla conclusione del secondo atto.
Siamo all’apice del dramma. Il duetto d’amore sta per
concludersi. È il momento del commiato, e Medusa reclama ancora un bacio. Un
bacio lungo, abilmente sostenuto e commentato dall’orchestra. Dopo le note
sospese a mezz’aria (che avevano accompagnato anche il bacio precedente), da
una volata ascendente del clarinetto fiorisce una breve melodia affidata
principalmente all’oboe: una melodia dal timbro natalizio (almeno per me), ma
triste, come un Natale misero, senza festa e senza luci. Che significa, qui?
Che Stefan, nell’ebbrezza della passione si sente tornato all’innocenza
infantile? O non piuttosto la sensazione opposta, la consapevolezza,
nell’adulto, dell'impossibilità di un ritorno all’innocenza delle gioie infantili? (Ad
ogni modo è un motivo che riudremo tra poco, in un contesto ben diverso). Ma
improvvisamente l’orchestra “cambia metro”: Medusa si è frettolosamente
svincolata dall’abbraccio ed è fuggita, lasciando l’amante “come s’ei fosse
ridesto da un sonno profondo”. Le ruvide arcate dei violoncelli evocano il
balzare di Orso fuori dal nascondiglio: l’orchestra poi, con ritmo sempre più
incalzante e concitato, ne segue le falcate, gonfia e sottolinea la
drammaticità della situazione anche col ricorso a dissonanze stridenti, veri
gridi anticipatori di quello lacerante di Stefan colpito a morte. Tornano le
ruvide note degli archi; da esse si stacca una triste volata del clarinetto che
dà avvio alla voce piagnucolosa di Orestella.
Il pianto di Orestella non convince, ma la situazione è
indubbiamente tragica. E il commento? Più che all’orchestra è affidato al coro.
L’“ohimè!” della disperata viene troncato e sommerso da un coro di soldati
ubriachi, dove la sguaiataggine delle parole è resa ancora più evidente dalla
musica e dalle modalità d’esecuzione. “O Rossana, se ti vai a confessar, tu le
calze non mostrar”!
L’ascoltatore ne resta stravolto. A chi è rivolto quel
dileggio? Alla povera neovedova? Non so se andasse a confessarsi, ma so di
certo che di mostrar le calze la povera Orestella neppure se lo sognava. Si
riode il suo lamento, cui ora si aggiunge quello della non meno casta Aglauris.
E di nuovo il coro riprende il suo sarcasmo, assecondato da un’orchestra
impietosa: corno e legni sembrano fare il verso, agli ohimè delle due donne
fanno eco guaiti di cuccioli... Finché un energico intervento dei timpani
tronca i lamenti, seguito da un trillo che smuore nel silenzio del crepuscolo.
Rintocchi di campana segnano l’Avemaria. O annunciano la morte di Stefan? Tutto
ripiomba nel silenzio, da cui ti aspetteresti il levarsi di un pianto funebre. “O
Rossana”, più sguaiata che mai intona la voce del corifeo, presto ripresa dai
suoi compari: “Vuoi far penitenza o no? Vuoi sposare Belzebù?” L’orchestra
accompagna, con comica solennità, cantando all’unisono e ribattendo le note,
mentre corni e legni s’incaricano degli sberleffi. “Se ti vai a confessar, tu
le calze non mostrar…” Ancora! “Presto, è Pasqua e si desta Gesù; è Pasqua:
praticare dovrai la virtù! Uh… uh!”. Ed
ecco, in mezzo a tanta volgarità, riemergere la tenera melodia, che a me risuona
con timbro natalizio.
Questa, a mio modesto avviso, sarebbe la naturale conclusione dell'atto.
Invece entra in scena Troilo che chiede alla forestiera notizie del fratello,
col séguito che già conosciamo: Medusa dà inizio alla non difficile opera di
seduzione, ed ecco, ancora una volta, la scanzonata ammonizione: “O Rossana…”,
con quel che segue.
Il critico musicale che si cela dietro la sigla dr. p.,
nella recensione alla prima bergamasca, rileva la stranezza di questi
interventi e li tratta come una bizzarria, un espediente, una trovata efficace.
No, non è una trovata d’effetto. E se lo fosse, sarebbe artisticamente
deleteria, data la contraddizione di toni, malamente giustificata dalla volontà
di concludere l’atto “in modo suggestivo”. Forse c’è un’altra spiegazione.
b) l’idea centrale del dramma
Il coro rileva in Rossana una contraddizione: si va a
confessare (dunque è animata dalle migliori intenzioni!), ma poi nella vita
assume atteggiamenti incoerenti, non sa resistere alla tentazione…
Ma Rossana non è un personaggio del dramma. Dunque è qui
inserita a modo di parabola. Ma chi è? Chi rappresenta? A mio modo di
vedere, è Stefan, è Orso, Troilo, Veniero, Aglauris, Orestella… È l’umanità
colta nella sua fragilità di fronte alle passioni. Con essa Barilli intende
denunciare l’impossibilità di quella coerenza che la ragione esigerebbe; l’insanabile irrazionalità dell’uomo in
balìa della passione. (“Marionette, che passione!” scriverà tra qualche anno
Rosso di San Secondo). È come se, di fronte a quell’orribile fratricidio
indotto dalla passione amorosa, si levasse d’un tratto la sagoma alta e
allampanata del Barilli, in atto di additarci quel cadavere e, la bocca
deformata da un ghigno amaro, gridarci: “Ecco, guardate là, voi che vi riempite
la bocca di razionalità, principi morali ecc. ecc.!”.
E se il secondo atto si chiude con la riedizione del
coro di ubriachi (in vino veritas!),
non è perché il maestro voglia concludere “in modo suggestivo”. Osserviamo
bene. Medusa ha appena informato Troilo della fine del fratello, e al grido di
orrore del giovane reagisce con una ripugnante profferta d’amore. “Il fratel
mio morì”… - risponde, logicamente, l’interessato. Troilo mostra dunque di
vedere la mostruosità della proposta, e le sue intenzioni sono ispirate a
razionalità, coerenti con la situazione. Eppure basta qualche moina, e la donna
se lo porta, docile e sottomesso, “nei suoi appartamenti”. Che può fare il coro
se non riadditare l’esempio di quella sventata di Rossana?
L’idea centrale del
dramma, quale l’ha rivissuto il musicista, è dunque la tragicommedia
dell’amore; l’uomo zimbello della passione amorosa; ragione, religione,
princìpi… pannicelli caldi, che non correggono la radicale irrazionalità
dell’uomo. Ed è questo scetticismo di fondo, a mio parere, che spiega anche i
ripetuti interventi dell’orchestra in contrasto con quanto detto o fatto dai
personaggi.
Ottone Schanzer anticipatore del teatro del grottesco?
Mah, diciamo che l’effetto descritto è dovuto principalmente alla musica.
Tuttavia è innegabile che il coro degli ubriachi offre al compositore un’ottima
base. A meno che l’idea non sia stata suggerita dal musicista (a volte càpita),
questo è un punto che riscatta, almeno in parte, un libretto per altri versi piuttosto scadente. E fa di Schanzer un (forse inconsapevole) precursore del teatro
del grottesco.
Certo è che quest’opera di Barilli, di questo compositore
così alieno dalle avanguardie ma – molto significativamente – grande estimatore
di Stravinskij, rivela non pochi punti di contatto con certa arte figurativa
coeva.
c) qualcosa si salva
Scetticismo, sfiducia nella razionalità umana; e sfiducia
nei sentimenti, quando essi degenerino in passione. Ma – attenzione! – ridicoli,
per Barilli, sono gli inani tentativi di contrastare gli impulsi profondi, non
già la passione in se stessa. Che è cosa tremendamente seria, se può portare al
delitto e alla morte.
E lavoravo, lavoravo
senza contar più l’ore.
Le bugie del
pianoforte filtravan raggi di zolfo…
(il compositore, ritratto dal
fratello Latino, 1912) |
Vediamolo dunque più da vicino questo ardente duetto che
scavalca la cesura dell’atto prolungandosi fino alla naturale conclusione del
secondo.
Medusa “richiude i suoi doni” annota la didascalia, e
“tutti vanno nelle loro stanze”. Non proprio tutti. Orestella attende il
braccio del marito e, vedendo che non si muove, quasi per un triste
presentimento, “Vien!” lo esorta con insolito affetto. “Non vuoi tu, mio
Stefan?”. È un momento solenne: il momento delle scelte fatali. L’uomo esita
(le note sospese dell’orchestra sembrano seguire il monotono andirivieni dei
suoi pensieri in un ambito molto stretto). Poi prende una risoluzione. Ce ne
avverte l’orchestra intera, con un impressionante unisono, marcato dalla secca percussione
del timpano. “No, io resto” è l’asciutto responso: ‘parlato’, solenne, lugubre.
Orestella si allontana “affranta e umiliata”, accompagnata da una melodia mesta,
punteggiata da frammenti del motivo del mare che ha portato la creatura rovinosa.
Più che nelle parole che dice, Orestella vive qui, in questa mesta ritirata di
donna sconfitta, scandita da legni ed archi; e nella melodia che dai violini si
leva alta e solenne a esprimerne l’inesprimibile struggimento interiore.
Medusa presenta i
suoi doni
(edizione napoletana
del 1940)
|
Altri pensieri frastornano la mente dello sposo immemore,
e li preannuncia l’orchestra con quell’improvviso risuonare delle carezzevoli
note dell’arpa. “Alfin sei tu!”, esclama sorpreso, ancora incredulo. Sì, è lei.
La donna ideale, la donna sognata “negli abissi del tempo”, ecco, si è
miracolosamente materializzata, quando l’uomo non ci sperava più, e ha i tratti
di Medusa! È la passione che crea l’immagine, o l’immagine che suscita la
passione? Passione improvvisa, inesorabile. “Medusa, pietà di me! Perduto io
sono, amor…” risuona l’implorazione suggerita dal doloroso spunto dell’oboe, ed
enfatizzata dal sostegno degli archi. Poi, verso la conclusione della scena, la
splendida ripresa da parte di Medusa di “La notte vien”, motivo già intonato da
Stefan, concluso dal clarinetto, su cui l’oboe innesta la sua struggente
melodia che commenta discretamente il lunghissimo bacio degli amanti…
d) i sentimenti positivi
Dall’azione corrosiva dello scetticismo di Barilli si
salvano, poi, alcuni sentimenti positivi, non a caso destinati a soccombere.
Primi fra tutti i tranquilli affetti familiari, proprio quelli che Barilli non
seppe coltivare adeguatamente e di cui sente la mancanza nella sua vita di
eterno bohémien.
Il casto amore
coniugale di Aglauris, per esempio.
Al colmo del suo
trionfo (siamo nell’atto terzo), Medusa ricanta, con raffinata crudeltà, il
solito tormentone (“Lungi diman
trarrammi il cieco destino!”), gettando nel panico il povero Troilo, ormai
irretito senza scampo. “Perduto son io…” esclama
disperato. “Morte sol mi può salvar…”. E riecco la soldataglia ubriaca,
che credevamo ormai definitivamente sparita. “O Rossana...” È il solito
coro, ma canta allontanandosi, diremmo ‘battendo in ritirata’. L'atmosfera è
totalmente cambiata. Nulla, o quasi, resta della sguaiataggine beffarda di
prima. La derisione amara ha lasciato il posto alla triste rassegnazione di chi, suo malgrado, deve costatare che non ci’è
rimedio… “Vanno ciechi al destin che
entrambi avvincerà”! Era stato proprio Troilo a dirlo, con riferimento al
fratello; ed ora tocca a lui. Il ghigno sarcastico di Barilli cede il posto alla pietà. Pietà, appunto, invoca la sposa tradita nella scena che si apre. Sul
piano musicale Aglauris diventa un personaggio di primo piano proprio qui,
quando cerca disperatamente di salvare questo suo amore, contro le seduzioni
della rivale e la perdizione del marito. Con quanta disperata energia grida
allo smemorato sposo “Io sono Aglauris!”. La musica qui
davvero s’innalza al livello della tragedia e ci fa dimenticare le ingenuità e
goffaggini del libretto.
L’atto terzo si apre con i ripetuti, strazianti richiami fuoriscena del vecchio Veniero – Stefan! – destinati a cadere nel vuoto, senza nemmeno un’eco. E li riudremo, poi, a più riprese, intervallati da episodi orchestrali e scenici, sempre più strazianti e desolati. Come non ricordare gli altrettanto vani richiami del conte Ugolino? “… ond’io mi diedi, / già cieco, a brancolar sovra ciascuno, / e due dì li chiamai, poi che fur morti…”. E un’altra immagine tragica si proietta davanti a noi: quella, pietosa e spettrale, dello stesso Barilli, nei tardi anni quaranta, girovago solitario per le vie di Roma con una misteriosa scatola di metallo sotto il montgomery. “Cosa c’è là dentro?” chiedevano, ignari, gli amici. “Mia figlia”, la folgorante risposta. C’erano le ceneri di Milena, la figlia morta trentaseienne nella lontana America.
e) il coro
Del coro abbiamo visto la funzione fondamentale nell’offrirci
un’interessante chiave di lettura del dramma. Ma a esso il musicista assegna
anche altri ruoli, principalmente quello onomatopeico, descrittivo o, meglio, evocativo.
Non so se Barilli conoscesse il terzo “Notturno” di
Debussy – quello che all’orchestra affianca il coro delle Sirene – eseguito per
la prima volta nel 1901. È comunque indiscutibile l’originalità della partitura
barilliana. Se i vocalizzi debussyani evocavano il “canto misterioso delle
Sirene”, quelli del coro della Medusa
– li riudiamo più volte nel corso dell’opera – evocano, in concorso con
l’orchestra, da un lato la natura selvaggia del mare, espressa dall’urto
fragoroso dei frangenti sugli scogli, e dall’altro una sensazione di vastità
sterminata e ignota (il “regno ampio dei venti”), misteriosa e inquietante.
E, per non dilungarmi ulteriormente, andrò direttamente
alla conclusione, all’incendio appiccato da Orso. Ascoltate attentamente: grazie alla collaborazione di coro e orchestra la
conflagrazione si materializzerà sotto i vostri occhi in bagliori improvvisi,
propagazione di fiamme, crepitante brulicare di fuochi, tonfi, crolli, caos…
A riportare l’ordine della rasserenante bellezza ci pensa
infine l’orchestra, con un robusto accordo sulla tonica di si bemolle maggiore.
E su questo rassicurante accordo vi lascio, fiducioso che
di questa misconosciuta, splendida opera vorrete fare personale esperienza.
Riconoscimenti:
-
scena
edizione napoletana: foto (ritoccata) dell’Istituto Luce;
-
seconda
scena edizione napoletana: fotogramma (ritoccato) dal documentario “Casa
Barilli”;
-
proprietaria
del ritratto di Campigli è la Galleria Ricci Oddi di Piacenza.