LO SPETTACOLO BURATTINESCO DELL’ODIO POLITICAMENTE CORRETTO
Wagner e Verdi, nati nello setsso anno (1813) tedeschissimo l'uno, l'altro italianissimo l'uno e l'altro musicisti di valore universale. |
Il titolo originale è “Nazionalismo
musicale”, cui è aggiunto, tra parentesi, il sottotitolo “Storia vera”; una
precisazione che oggi, dopo le innumerevoli “storie vere” televisive, il buon
Maestro si sarebbe guardato bene dall’aggiungere.
Monte Zebio nel martoriato (I guerra mondiale) Altopiano dei Sette Comuni, a Nord di Asiago. |
I due versi del Trovatore (“Ai nostri monti”…) sono tratti dalla penultima scena dell’opera verdiana. La zingara Azucena e Manrico – il trovatore, il cantautore, che lei ha allevato come figlio – si trovano in un orrido carcere, prigionieri del Conte di Luna, rivale in amore di Manrico. Azucena, ossessionata dal ricordo di sua madre arsa sul rogo come strega proprio dal padre del Conte, e sicura d’esser destinata alla stessa fine, non riesce a prender sonno. Poi, cedendo alle suppliche del figlio, si assopisce e, tra il sonno e la veglia, rievoca la pace dei suoi monti, in un canto intriso di “italianissima nostalgia”…
Un po’ più complesso il discorso sullo “scandalo all’Augusteo”. Augusteo, o più propriamente Teatro Augusteo, era il grande teatro musicale, capace di ben 3500 posti, ricavato dalla radicale ristrutturazione dell’Anfiteatro Corea (costruito nel tardo Settecento sul Mausoleo di Augusto), inaugurato nel 1908, reso illustre da spettacoli e artisti di fama internazionale, e demolito nel 1937 nel quadro del programma di ripristino dei monumenti di Roma antica. Lo scandalo cui si allude (la rumorosa interruzione di un concerto di Toscanini) ebbe luogo nel gennaio del 1917.
Uno scorcio della sala dell'Augusteo gremita di spettatori (maggio 1923) |
Al celebre Maestro era stato
suggerito di non mettere in programma lavori di musicisti tedeschi per evitare prevedibili
contestazioni: troppo fresco ancora, e doloroso, il ricordo delle vittime del
bombardamento di Padova dell’11 novembre 1916. Toscanini – sul cui coraggioso
patriottismo solo gli sciocchi potrebbero sollevare dubbi (v. Toscanini ardito)
– convinto che l’arte (di valore universale) dovesse tenersi estranea ai
conflitti bellici, aveva sdegnosamente declinato l’invito, mettendo in
programma due brani del Crepuscolo degli Dèi di Wagner, forse il
più platealmente tedesco dei musicisti tedeschi. Il “Mormorio della foresta”
passò con qualche segno di protesta senza gravi conseguenze. Ma non appena risonarono
gli inconfondibili rintocchi di timpani con cui inizia la “Marcia funebre di
Sigfrido”, il silenzio della pausa che segue fu squarciato da un urlo. “Questa
è per i morti di Padova!” gridò una voce dalla galleria. Bastò questo.
L’irascibile Maestro gettò rabbiosamente la bacchetta e lasciò il podio. E “in
un silenzio veramente tragico – ricorda Elsa Respighi che certamente era
presente – la grande sala si vuotò in pochi minuti”.
Ma cediamo la parola al Maestro Gui.
NAZIONALISMO
MUSICALE
(STORIA VERA)
Nell'inverno
del 1917 comandavo in qualità di ufficiale del Genio un posto di ascolto nelle
trincee di M. Zebio, e precisamente sulla quota 1591, dove la nostra linea si
avvicinava estremamente a quella nemica, fino a una distanza minima di otto
metri. Alt! un momento... perché non si creda che io narri questo a mio vanto,
dirò subito che era un posto tranquillissimo: la vicinanza estrema,
paradossale, forse casualmente stabilitasi dopo un’azione di ritirata di
qualche mese innanzi, e mantenuta poi non si sa bene perché dagli stati
maggiori delle due parti belligeranti, aveva portato a una specie di accordo
tacito tra gli uomini di buon senso portati da un destino ironico e crudele a
star a fronte a fronte masticando i loro lenti giorni nelle pozzanghere e nella
neve di quel monte, il cui ricordo è ancor tragico nella memoria di chi lo
conobbe allora. Neve, neve e neve; biancore sterminato, silenzi inverosimili,
rotti da qualche raro ta-pum ozioso di vedetta austriaca zelante, a cui
il bono taliano non si degnava di rispondere: cigolio di rami di abeti
troppo carichi sotto il peso della neve: qualche filo azzurrognolo di fumo, qua
e là, nella immensa ingannevole solitudine; una gran pace in mezzo alla grande
guerra. Seduti accanto a un bel fuoco, gli occhi lagrimosi per il fumo
importuno, un gruppo di ufficiali legge le notizie che i giornali portano di laggiù,
dal mondo lasciato indietro, quello che pare proprio impossibile debba
ritornare ad essere il nostro, come prima...
Soldati italiani in trincea |
— Guarda, guarda! — si volge a me un collega che non ignora la mia vera persona nascosta sotto l'uniforme del tenente — a Roma è avvenuto uno scandalo all’Augusteo in un concerto diretto da Toscanini. Il pubblico si è opposto con urli e schiamazzi all'esecuzione della Marcia Funebre del Crepuscolo, e il concerto è stato interrotto mentre la folla chiedeva a gran voce e otteneva la Marcia Reale.
—
Cretinerie! — interviene soldatescamente un altro. — È strano come il
sentimento patriottico esploda in simili manifestazioni, che i giornali
borghesi continuano a chiamar violente, sempre tra gente che non trova
altro mezzo per difender la Patria, che quello di gridare dopo aver messo al
sicuro la ghirba.
—
Patriottismo da imboscati!
—
Interessi loschi di fornitori militari!
— Ma no,
forse c'è una parte di ragione...
— Ma che
ragione!!!!
— La
logica del sentimento...
— Una
voce pare abbia gridato: «è la marcia funebre per le vittime di Padova! ».
— Ben
detto.
—
Battuta melodrammatica lanciata a freddo…
— Ma
scusate amici, l’arte cosa c'entra? Credete proprio voi che quel Riccardo
Wagner il quale scrisse nell’impeto dell’ispirazione quella meravigliosa pagina
che è la Marcia funebre di Sigfrido sia esattamente lo stesso tedesco
nazionalista, pangermanista che appare nelle sue chiacchiere letterarie? In
ogni modo perché vorremo noi, proprio oggi che la violenza inevitabile ci ha
gettati fuori da ogni gioia dello spirito, perché vorremmo sacrificare a questo
doloroso destino finanche l’ultimo rifugio che è il godimento dell’Arte, in
nome di una patria che può esigere da noi il sacrificio delle nostre vite, ma
non già della nostra libertà spirituale?
—
Giusto! vedi che in Germania si è capito così bene questo, che i teatri
tedeschi, lungi dal gettare l'ostracismo contro le opere italiane, seguitano a
dare Verdi e Puccini....
— Signor tenente — interrompe qualcuno — l'apparecchio segnala conversazioni...
È il mio
caporale che, avvertito da un cenno del soldato che siede alla cuffia, viene a
chiamarmi.
–
Silenzio, vi prego, un momento.
— Cosa
dicono? Come?.... è il Comando di battaglione... Ridono?...
— Fanno
un tal chiasso!
— Sono
gli ufficiali del Comando austriaco...
— Senta
senta, signor tenente, fanno musica! una specie di fanfara.... non si afferra bene....
ma è certo musica...
— Dammi
qua la cuffia.
Soldati austriaci in trincea sul Monte Zebio |
Mi metto in ascolto. Dio del cielo! ma questa è proprio musica: è un grammofono certamente; riconosco il timbro nasale dello strumento. Le risate e il chiasso che arrivano insieme mi impediscono di afferrare subito il motivo. Ah, ecco... sì.... oh! bellissima! Ma questo è il Trovatore!
l'antica
pace ritroveremo...
Ignoto collega ufficiale austriaco che eri nel gennaio del 1917 sul Monte Zebio, quota 1591, dall'altra parte, e così grande distanza ci separava malgrado gli otto metri di terra irta di fili di ferro che si stendeva tra noi, se il fato sotto la vile forma del così detto «piombo nemico» ha risparmiato la tua pelle come ha risparmiato la mia, dovunque tu oggi ti trovi, o nella pace della tua ricuperata famiglia, o nel turbine inquieto della tua vita d'affari, sosta un minuto e cerca di ricordare... e dimmi qual demone ironico ti suggerì l’idea di metter nel tuo rauco grammofono proprio in quell'ora quel disco di italianissima nostalgia, quasi a dare la risposta più chiara più definitiva e più libera alla spudoratezza di quegli inscenatori di dimostrazioni patriottiche, che nelle pieghe della bandiera del loro paese (e ve n'è in tutti i paesi del mondo) nascosero le loro mani adunche di rapinatori e le loro bocche avide di divoratori di cadaveri... e l’ingenuità delle folle si inchinava! Son passati anni, le piaghe si cicatrizzano, i ricordi impallidiscono. I nazionalisti dell'arte ci permettono ormai (bontà loro) di suonare tutte le marcie funebri che vogliamo, anche quella delle nostre illusioni. Sigfrido è morto, l’eroismo è scomparso dal mondo, e dorme il più alto sonno. I patriotti di allora, i più accaniti gridatori hanno perduto la voce, e contano in silenzio le monete nel sacco ricolmo. Gli altri... oh! gli altri.... molti di essi tacciono per sempre; i superstiti vanno a poco a poco dimenticando.... Solo di tanto in tanto li prende la strana malinconia di ricordare, ma ancora non trovano la «buona risata » di zaratustriana memoria, che tutto cancella, e di cui solo è degno lo spettacolo burattinesco di questa umana commedia.
Ecco, la storia si ripete. Sotto forme diverse, ma nella sostanza si ripete. Anche oggi non mancano gli “inscenatori di dimostrazioni patriottiche” (oggi si preferisce definirle ‘di solidarietà’!) che, nella bandiera di nobili ideali, nascondono ben altri interessi. E, ahimè!, anche oggi “l’ingenuità delle folle” continua ad inchinarsi e applaudire. Anzi, oggi più che mai, dato il gigantesco potere di manipolazione delle masse offerto dalla tecnologia moderna a chi ha capitali per disporne.
Rileggete quella battuta sulla funzione dell’arte – anzi, dell’Arte – come “rifugio” contro la violenza. Ma, più che questo, sembra a me particolarmente urgente soffermarsi sulla rivendicazione di un valore oggi così spesso svilito: la libertà spirituale. La patria (le Istituzioni, il Governo, il Presidente…) può imporci tutto, forse anche il sacrificio della vita, ma il sacrificio della libertà spirituale, quello non può imporcelo nessuno: la libertà spirituale è nostra, diritto inerente alla persona umana, e perciò inalienabile!
Ma
rileggete (e meditate) soprattutto quella commossa apostrofe al collega
ufficiale austriaco, al nemico di ieri, a un uomo che, pur nella
dolorosa obbedienza al “fato” che lo volle contrapposto ad altri uomini, seppe
andare oltre la situazione contingente e vedere nell’arte italiana un valore
umano ed universale, base imprescindibile per un superamento degli odi che
altri avevano suscitato e favorito.
Sono
considerazioni, quelle di Gui, non di un imboscato, di un guerriero da salotto
come quelli che affollano i talk-show televisivi e le redazioni di molti
giornali; sono considerazioni di uno che – esattamente come il collega ‘nemico’
– masticava “i suoi lenti giorni nelle pozzanghere e nelle
neve”, consapevole che da un momento all’altro, da un fronte o dall’altro,
poteva arrivare l’ordine d’attacco e il compiersi del “ fato sotto la vile
forma del così detto «piombo nemico»”.
E se qualcuno fosse talmente stolto (o furbo!) da scambiare l’atteggiamento suggerito dal Maestro Gui per cinica indifferenza per le sofferenze ineluttabilmente connesse a tutte le guerre, o addirittura per connivenza col ‘nemico’ di turno, non state a discutere: sarebbe inutile! Sotterratelo sotto «la “buona risata” di zaratustriana memoria, che tutto cancella, e di cui solo è degno lo spettacolo burattinesco di questa umana commedia».
Il M. Vittorio Gui (1885 - 1975) |