Il Mameli: capolavoro o “rutto musicale”?
Cent’anni
fa – precisamente il 27 aprile 1916 – veniva presentata al teatro “Carlo
Felice” di Genova l’opera Goffredo Mameli
di Ruggero Leoncavallo, tributo del musicista alla causa della guerra.
La
scelta del soggetto risultò quanto mai appropriata al momento, e, forse anche
per questo, l’opera suscitò vasti consensi, e fu replicata in varie città
italiane.
Successo
soprattutto di pubblico, mentre da parte dei critici non mancarono riserve,
anche se in genere l’esito complessivo fu giudicato soddisfacente.
Così
l’anonimo recensore del Corriere della
Sera (28 aprile 1916), ne sottolinea il “garbo” e la “distinzione” della
strumentazione, “varia, colorita”, “scevra di bizzarrie eccessive”; la
ricchezza e la felicità della “vena melodica”; la discrezione nell’impiego di
canti patriottici. E pronostica all’opera una “carriera forse non lunga”, ma “tuttavia
tale da compensare la fatica non grande spesa nel concepirla e nello
scriverla.” Dove, accanto alla frecciata alla scarsa accuratezza del lavoro,
troviamo quell’inciso che a distanza di un secolo appare profetico: l’opera,
infatti, dopo le varie repliche in diversi teatri della penisola, scomparve
definitivamente dal repertorio. (Per la verità, negli ultimi cinque anni si
sono registrate un paio di riprese documentarie; una, però, solo per canto e
pianoforte).
Più
ottimista Lo Staffile (chi l’avrebbe
detto, con quel titolo minaccioso!). Leoncavallo – scrive l’anonimo recensore –
“ha composto pagine ora esuberanti di impeto drammatico, ora piene di
dolcissima melodia. La musica del Mameli
ha ali per poter spiccare altissimi voli, ed è destinata a incontrare il favore
di ogni pubblico come ha ottenuto ora quello dell’uditorio genovese.”
Nettamente
avversi solo sporadici interventi, fortemente condizionati da pregiudizi
ideologici.
Così
Arturo Rossato – interventista e volontario, ma già provato dall’esperienza
della guerra vera, troppo diversa dalla vagheggiata “sola igiene del mondo”, e
futuro librettista di opere e operette – firma con lo pseudonimo Arros un breve
quanto violento articolo sul Popolo
d’Italia del 29 aprile.
“Ma
due imbecilli – oggi –“ scrive Arros dopo aver tessuto l’elogio di Mameli,
“acchiappano per le ali questa canzone, e questa giovinezza e la buttano sulla
scena, vestita da prima donna e da tenore; ma un bue dal ventre rimbombante di
rutti musicali […], che pochi anni or sono riempiva di note la pancia di un
Rollando [sic] per incarico dell’imperatore tedesco, oggi ci imbelletta anche
questo soldato morto e lo obbliga a cantarci la romanza e il duetto.”
L’Avanti! (9 maggio 1916), dal canto suo,
si limita a una vignetta: Mameli, levandosi dalla tomba contro un Leoncavallo
in livrea prussiana, gli grida: “Lasciatemi stare, e scrivete, invece, il “Rigoletto”
buffone del re … di Prussia!” .
L’insinuazione
dei due giornali era ingenerosa e ingiusta: Leoncavallo aveva sì composto, a
richiesta di Guglielmo II, il Rolando di
Berlino, ma già a settembre 1914 – diversamente da operisti del calibro di
Mascagni e Puccini – aveva sottoscritto la protesta dell’Associazione artistica
internazionale contro il bombardamento tedesco della cattedrale di Reims – adesione
che gli era costata l’immediata esclusione delle sue opere dalle programmazioni
del redditizio mercato di lingua tedesca (e le ire del suo editore Sonzogno!) –
e, con l’entrata in guerra dell’Italia, aveva rispedito al mittente le
onorificenze ricevute dal Kaiser. E aveva, d’altro parte – lui che proprio in
quell’anno per difficoltà economiche sarebbe stato costretto a vendere la villa
di Brissago – devoluto alla Croce rossa gli incassi dell’esecuzione genovese,
di cui peraltro si era accollato i costi.
Persino
Giannotto Bastianelli, tra i più convinti propugnatori dell’innovazione, scrivendo
sulla Nazione del 27 maggio, in
occasione della ripresa fiorentina, rimproverava
sì all’opera insufficienza di elaborazione, ma finiva col riconoscere che “qualche
lampo di forma definitiva c’è”, e invitava modestamente l’autore a riprenderla
in mano per approfondirla, libero ormai dall’assillo di non mancare l’occasione
.
Due autori per un
articolo: un incompetente e un indovino
Ma
tra tanti interventi di autori più o meno quotati e temibili, la recensione che
ancor oggi intriga maggiormente appartiene a un critico non ancora ventenne,
all’epoca assolutamente sconosciuto, almeno in quella veste: Eugenio Montale.
Il suo pezzo apparve sul genovese “Il
Piccolo” (28 aprile 1916), ma non col suo nome. Racconta l’episodio lo
stesso poeta, in un’intervista televisiva concessa a Leone Piccioni nel 1966,
ancora rintracciabile in rete. Alla domanda se la sua recensione del Giro di vite di Britten (1955) fosse la
sua prima volta, Montale risponde prontamente:
“Era la seconda
volta. Molti anni prima – non ricordo la data – quando a Genova si dette il Mameli di Ruggero Leoncavallo […] io
incontrai una sera Vittorio Guerriero, che poi dopo fu noto come autore di
romanzi, ebbe tante vicissitudini anche politiche – ora è morto, poveraccio –
era critico musicale d’un giornale, che mi pare si chiamasse Il Piccolo, e mi diceva “Io non
m’intendo affatto di opera, non so perché mi abbiano fatto critico musicale. Tu
devi scrivere un articolo su quest’opera”. “Ma io non l’ho mai sentita – dico –
l’opera… si stava svolgendo l’opera… noi eravamo nei sotterranei del Teatro, al
caffè del Teatro… Insomma, io scrissi l’articolo senz’aver sentito questo Mameli. L’articolo fu pubblicato. Poi
dopo conobbi Leoncavallo, il quale mi dichiarò che mai nessun critico lo aveva
compreso così profondamente”.
Scrivere di
un’opera mai sentita (e risultare convincente!)
Due
cose, di questa storia, incuriosiscono particolarmente: 1) l’azzardo di
scrivere di un’opera lirica mai ascoltata (e riuscire convincente!); 2) la
paradossale dichiarazione di Leoncavallo.
Partiamo
da alcune considerazioni preliminari.
Premesso
che Montale fu sempre appassionato di lirica, e che, proprio in quegli anni,
studiava canto da baritono, ci sembra ragionevole dare per plausibili alcune
ipotesi di partenza:
a)
Montale
conosceva l’ambiente della lirica e in particolare (ma non necessariamente di
persona) il baritono spezzino Emilio Bione, che proprio a Genova aveva, nel
1908, dato inizio a una carriera di grandi successi, e che nel Mameli interpretava il ruolo di Terzaghi;
b)
non poteva
non conoscere un compositore molto popolare come Leoncavallo, anche se il fatto
che quella sera invece che in platea si trovasse al Caffè del Teatro sembra avallare
l’ipotesi che non ne avesse particolare stima;
c)
lo
spregiudicato quanto incompetente critico musicale del “Piccolo” (ma bisogna
ricordare che Vittorio Guerriero aveva appena diciotto anni), certamente
conosceva il libretto (ne aveva parlato sullo stesso giornale qualche giorno
prima) e non avrà mancato di ragguagliarne l’amico compiacente. (Un indizio che
Montale parla del libretto per sentito dire possiamo vederlo nella disarmante
genericità della critica (peraltro, almeno a nostro parere, fondata) sulla
qualità della versificazione: “dei versi, i quali potrebbero essere molto, ma molto censurabili (!; sottolineatura
nostra).
Resta,
dunque, da stabilire dove abbia attinto le informazioni sulle caratteristiche
della musica, le prestazioni degli interpreti e le reazioni del pubblico.
Sul
tema di interpreti e pubblico (su cui dà informazioni precise ed esatte) è
facile ipotizzare che l’improvvisato critico si sia attivato per domandarne
alle persone in uscita. Ma … la qualità della musica? Poteva fidarsi, anche su
questo, del primo spettatore in uscita disposto a far due chiacchiere?
Cerchiamo
di capirne qualcosa di più, partendo dalle sue osservazioni.
Dopo
aver constatato che nella musica del Mameli
non si riscontra “nessuna tendenza nuova”, Montale passa all’analisi di pregi e
difetti, che possiamo così sintetizzare:
Pregi:
a)
predominio
della “vena melodica”, che è “naturalmente limpida, facile e italiana”;
b)
sulla scia
dei “nostri padri”, Leoncavallo si tiene “lontano da quelle astruserie di
raccatto e dalle vacue velleità pseudowagneriane”;
c)
anche
Leoncavallo “ha progredito”, ma con “parsimonia”, senza mai tradire se stesso.
Difetti:
a)
“in qualche
punto, una leggera tendenza massenetiana alla leziosità poté sembrare falsa e
inopportuna”;
b)
“talvolta il
taglio e lo svolgimento di qualche melodia ha destato in noi qualche eco non
nuova”;
c)
qua e là una
certa “enfasi declamatoria”.
Nel
complesso:
quella
del Mameli è una musica che evidenzia
un sicuro progresso “nel campo degli studi strumentali”, senza tuttavia
avventurarsi nelle “selve selvaggie” armoniche “predilette tanto da certi suoi
colleghi” (evidente riferimento – crediamo – alle “vacue velleità
pseudowagneriane” e all’abuso di scale esatonali di matrice debussiana, care
agli innovatori.
Ci
sembra che, tutto sommato, ne venga fuori una descrizione abbastanza generica,
per la quale, a un giovane come Montale, forse poteva bastare la conoscenza
‘pregressa’ dell’autore. A parte due particolari importanti: il richiamo alla
“leziosità massenetiana” e l’esclusione di “astruserie di raccatto” e di
“velleità pseudowagneriane”. Eppure l’idea che Montale, su questo argomento
centrale, abbia osato inventarsi tutto da solo non ci persuade. Non potrebbe,
invece, aver interpellato – non il primo venuto, certo – ma qualche spettatore ‘accreditato’?
Un ‘collega’ recensore, per esempio! C’è, tra i recensori presenti a quella
‘prima’, qualcuno che più di altri può aver influenzato Montale?
Notiamo,
anzitutto, che nessuna delle recensioni avute sott’occhio parla di prestiti
massenetiani. Al contrario, almeno una – quella del Corriere della Sera, la più minuziosa nell’analisi musicale –, dopo
aver accennato a Donizzetti, al Verdi “prima e seconda maniera”, a Ponchielli,
e a “inquietanti” oscillazioni fra “il vecchio melodramma e la giovane scuola italiana”,
fa esplicito riferimento al “carattere
wagneriano” del “bel movimento orchestrale (…) che prepara la visione profetica
di Mameli”.
Altro
fatto significativo: tra i ‘colleghi’ in sala, Montale dice di aver notato
“Severino Santi, inviato speciale della Tribuna”.
Ed è l’unico di cui faccia cenno. Perché? Viene spontaneo pensare che per il
giovane poeta fosse una persona nota. Penso, però, di poter affermare con ragionevole sicurezza
che Montale non conoscesse neppure di nome l’inviato speciale della Tribuna – che pure era effettivamente
presente. Tant’è vero che il nome lo sbaglia. Il giornalista, infatti – un
siciliano di Partinico – si chiamava Santi (nome) Savarino (cognome). L’errore
commesso da Montale è tipico di chi, non avendo sentito distintamente,
supplisce in base alle nozioni più familiari. Mi sembra, quindi, non troppo
azzardato ipotizzare che, all’improvvisato recensore, il redattore della Tribuna sia stato presentato proprio
quella sera, e che, nella confusione, l’esordiente critico abbia sentito “Santi
Severino”, e pensato che il presentatore, o lo stesso interessato, avesse
invertito il normale ordine nome/cognome. In ogni caso, se l’ipotesi regge, è
naturale che Montale abbia posto domande circa lo spettacolo e ne abbia avuto
risposte che cercò di memorizzare. L’analisi del pezzo del Savarino non offre
prove, ma qualche indizio sì.
Il
giornalista siciliano si mostra entusiasta non meno delle prestazioni degli
interpreti, che della musica e del libretto (del suo caporedattore Gualtiero
Belvederi, ma Savarino ha già messo le mani avanti: parlerà, come sempre, con
franchezza, sine ira et studio!). Gli
sembra, anzi, che l’accoglienza da parte del pubblico – pure calorosa – avrebbe
potuto, e dovuto, essere più entusiastica, se l’uditorio, non meno dei critici,
non fosse stato inibito da ingiustificati pregiudizi verso l’autore, e da un
“pudore strano di fanciulla maliziosa”, che gli ha impedito di accogliere e
manifestare liberamente la propria straripante commozione.
Della
musica, a parte l’insistenza, condita di retorica, sulle emozioni suscitate,
non dice molto. Sottolinea, però, la presenza di “un rivolo perenne di melodia
palpitante, dominante, trascinante”, e più in generale il fatto che “nella
frequenza delle melodie, nel trapunto armonico, nella freschezza dello
strumentale” vibri “quel sentimento della razza che ci fa fieri e orgogliosi di
essere italiani”. Rivendica a Leoncavallo il merito di non confondere la
“scienza” musicale, senz’altro importante, con gli stravolgimenti dei “neo-debussiani
– non di Debussy – che delle eccezioni hanno fatto le regole e delle regole le
eccezioni”. E bene ha fatto, il Maestro napoletano, a ricordarsi, nel comporre
il Mameli, delle sue opere
precedenti, del suo Rolando e di Chatterton e anche dei Pagliacci.
Ecco,
a me sembra che in alcuni punti dell’analisi montaliana si possa vedere il
riflesso, depurato di quel tanto di retorica che ripugnava alla natura del
poeta, degli enfatici apprezzamenti di Savarino. Così l’esaltazione della ricchezza della vena
melodica, e l’orgogliosa rivendicazione dell’italianità della musica del Mameli,
nella più temperata prosa del poeta ligure si sarebbero tradotte nella
segnalazione della preponderanza di una linea melodica tutta italiana. Il
merito, riconosciuto a Leoncavallo, di aver saputo progredire senza mai cadere
nelle “astruserie di raccatto”, nelle “selve selvaggie” armoniche e nelle
“vacue velleità wagneriane” potrebbe essere sviluppo montaliano delle analoghe osservazioni
di Savarino. E la precisa affermazione di quest’ultimo che nel Mameli il musicista avrebbe reimpiegato
elementi già presenti in Chatterton, Rolando e Pagliacci (osservazione, peraltro, esatta, almeno per le prime due opere) si è probabilmente tradotta,
nel poeta che non poteva avere altrettanta sicurezza, nel più cauto e generico
“ha destato in noi qualche eco non nuova”. E così l’“impetuoso entusiasmo che
irrompe e travolge e abbatte” poté suscitare, nell’antiretorico poeta degli Ossi, il sospetto dell’“enfasi
declamatoria”.
Ma c’è ancora un’altra possibilità.
Nell’articolo pubblicato sul Piccolo, dopo la citata riserva sulla qualità dei versi del
libretto, l’autore esprime l’opinione che “ogni musico dovrebbe essere
autolibrettista”, e prosegue: “Del resto abbiamo constatato, e purtroppo anche
recentemente, quanto poco giovi a un mediocre musicista il gentile soccorso di
una trama di dolci e canore sillabe, siano pur esse dettate dalla Musa del
maggior poeta e barocco, che l’Italia ha da molti anni prodotto”. Ma nella
raccolta antologica Prime alla Scala,
curata da Gianfranca Lavezzi, e autorizzata dall’autore, le parole da “siano”
alla fine del periodo risultano censurate. Stefano Verdino, nella sua Storia delle riviste genovesi, avanza
l’ipotesi che il poeta si riferisca al suo amico carissimo Ceccardo Ceccardi
Roccatagliata, e che il riferimento avesse lo scopo di scindere le
responsabilità di quest’ultimo dall’esito disastroso dell’opera Don Chisciotte, caduta miseramente, poco
più d’un mese prima proprio al Carlo Felice, per evidente inadeguatezza della
musica di Guido Dall’Orso.
L’ipotesi di Verdino è sostenuta con buone
ragioni. Tuttavia il riferimento continua a sembrarci francamente fuori luogo, e
l’elogio talmente iperbolico da risultare inspiegabile (e da aver probabilmente
motivato la tardiva espunzione). Il fatto, tuttavia, potrebbe apparire meno
strano se fosse vero che i due amici ne avessero riparlato, del fiasco del Chisciotte, proprio in quella occasione,
magari in margine ai commenti all’opera appena eseguita, intramezzati da inevitabili
confronti tra le due opere. La freschezza della rievocazione e l’adesione di
Montale alle chiose e alle ragioni di Ceccardo avrebbero quanto meno favorito
l’idea del riferimento apologetico e l’iperbole della lode. Naturalmente, noi
non abbiamo prove che Roccatagliata fosse presente alla prima del Mameli, ma, data la sua attività di
librettista, è difficile che abbia mancato di assistere a un’opera ampiamente
pubblicizzata e che aveva come protagonista il celebre poeta-eroe del
Risorgimento suo concittadino. E’ un’ipotesi, e come tale la presentiamo, con
ogni beneficio d’inventario.
Parlare di un’opera
mai sentita, e mostrare di averla capita meglio di chiunque altro
Altrettanto
problematica la dichiarazione di Leoncavallo ricordata da Montale.
Prima
di tutto: come fa il musicista a sapere che la recensione firmata da Guerriero
in realtà era stata scritta da Montale? Si possono arrischiare due ipotesi. La
prima è che il musicista si sia messo in contatto con Guerriero e questi gli abbia
confessato la verità. La seconda – meno improbabile – è che nell’incontro con
Leoncavallo – e sarebbe interessante sapere quando avvenuto – sia stato il
poeta stesso a rivelarlo.
Poi
c’è la paradossale – date le circostanze – affermazione che “mai nessun critico
lo aveva compreso così profondamente”; dove, oltretutto, l’allusione alla profondità della comprensione parrebbe
implicare una natura esegetica che l’articolo montaliano chiaramente non ha.
Tutt’al più si può pensare che il musicista volesse estensivamente riferirsi
alla comprensione dei caratteri della sua musica. Ma anche così, non pare che nello scritto di Montale ci siano
elementi tali da giustificare appieno una dichiarazione tanto impegnativa.
Forse Leoncavallo, volendo esprimere la propria gratitudine per gli aspetti
positivi sottolineati dal recensore, ha un po’ calcato la mano nei complimenti,
rasentando la piaggeria. O forse è Montale ad avere esagerato, magari proprio
per la memoria imprecisa di un episodio tanto lontano, trasformando un’approvazione
ammirativa dettata da gratitudine in un apprezzamento tanto più lusinghiero. Una
piccola vanità che potremmo ben perdonare al grande poeta; tanto più che il sorridente
compiacimento per la propria giovanile bravura è espresso con spirito, e –
sembra di vederlo – con una strizzatina d’occhio a chi sulla competenza e
affidabilità dei giudizi dei recensori si ostinasse a nutrire ancora qualche
dubbio.
Un’opera che non
annoia!
Oh,
a proposito: a meno che non siate prevenuti contro il melodramma e il duetto
(d’amore, naturalmente!), e che non siate allergici alle dichiarazioni d’amor
patrio di sapore ottocentesco, ascoltatela, quest’opera, qualora ne abbiate la
possibilità. Non manca qualche tratto di enfasi retorica (anche nel testo
poetico), e sicuramente c’è qualche clangore e qualche finta cannonata di
troppo, ma non è male. Garantisce Montale: il Mameli è sostanziato di una musica che “se non si leva a sublimi
altezze sa, nullameno, parlarci un suo linguaggio sincero e animoso”. E se non
vi fidate di Montale, che l’opera non l’ha mai sentita, fidatevi almeno dell’anonimo
cronista del Corriere, che l’ha ben
sentita, e trovata non “profonda né entusiasmante, ma certamente neppure noiosa”.