Vorrei concludere questa breve silloge, dedicata al
rapporto di Montale con Leoncavallo, con una valutazione complessiva del compositore
napoletano, che il poeta presenta e sottoscrive a nome proprio.
A quarant’anni di distanza dall’intervento a nome altrui
(vedi post 24 aprile e 19 maggio), sul Corriere
d’Informazione del 25/26 aprile 1956 Montale recensisce uno spettacolo ibrido:
per riempire la serata (o, più probabilmente, per esorcizzare lo spettro della
sala deserta), l’accorto programmatore aveva prudentemente affiancato, ai Sette peccati del dodecafonico Veretti,
i Pagliacci del ‘retrivo’ Leoncavallo;
un’operina che, a dispetto dei dileggi di ‘rivoluzionari’ e ‘innovatori’,
esercitava un sicuro effetto calamita, potendo esibire più di sessant’anni di
trionfi nei teatri di almeno mezzo mondo.
Sul lavoro “seriale” di Veretti il critico fila via con
qualche apprezzamento di circostanza, e con bonaria ironia sulle virtù … visuali e democratiche della tecnica dodecafonica.
Ben diversamente articolato il discorso su Leoncavallo.
Registrati i trionfi planetari di Pagliacci,
Montale ricorda ai suoi lettori come l’opera fosse stata in seguito giudicata
“uno dei peggiori obbrobri che la scuola verista abbia dato all’Italia”. Ma ora
il vento sembra spirare in direzione opposta. “ Alcuni mesi fa – rivela il
critico – un grande musicista, Victor de Sabata, ce ne parlava con un non
dissimulato entusiasmo”. E allora? “A chi dobbiamo credere? Certamente ai
nostri orecchi; e poi alla nostra esperienza personale”. Ed ecco quanto
orecchio ed esperienza suggeriscono:
Ruggero
Leoncavallo fu, intanto, un uomo tutt’altro che incolto. Non solo aveva una
buona educazione musicale, ma la sua cultura letteraria era insolita in un
operista. Aveva seguito a Bologna le lezioni del Carducci e si era laureato in
lettere. Scriveva da sé i propri libretti, e non è detto che fossero peggiori
di quelli che si fabbricano gli autolibrettisti di oggi. Inoltre non si scrive,
o riscrive, la Bohème e Zazà; non si compone un’operetta – e
quale operetta! – sul soggetto di Malbruk;
non si porta alle ultime conseguenze la poetica del “verismo” (buona o cattiva
che sia) come ha fatto Leoncavallo nei Pagliacci
senza essere in qualche modo un intellettuale.
E’
evidente che se Leoncavallo si fosse dedicato al teatro di prosa avremmo avuto
in lui un drammaturgo non troppo diverso da Paolo Giacometti[1],
molto rispettabile sotto ogni verso. Ma in Leoncavallo era nascosto anche un
melodista del tipo di Gastaldon[2]
e un teatrante-improvvisatore che mirava ai grandi esempi dell’Ottocento. Nel
1916 assistemmo alla sua rapida creazione di un Mameli imbastito per conto del Comune di Genova, utilizzando brani
dello Chatterton e di altre sue
opere, e potemmo farci un’idea della sua estemporaneità. Il ricordo che di lui
abbiamo conservato è quello di un uomo generoso e leale, moderno e non privo di
estro. Purtroppo la nostra esperienza non giunge fino ad aver ascoltato la Zazà; ma sentendola alla radio abbiamo
pensato che con qualche aggiunta “timbrica” di sale e pepe strumentale l’opera
sarebbe più viva della Louise[3].
Se è eresia chiediamo che ci sia perdonata.
I
Pagliacci sono un’opera da baraccone,
non c’è dubbio; e sono un’opera di cattivo gusto. Resta però da dimostrare che
un’opera di cattivo gusto, e da baraccone, non possa avere una sua vitalità anche artistica. Scriviamo anche perché nell’opera si avvertono
oggi parti morte e parti vive: segno che il metro dell’estetica non disdice a
questo dramma vituperato. Consideriamo morte le parti dove la romanza da
salotto crea un clima incompatibile con quello del dramma lirico (l’aria di
Nedda, la dichiarazione di Silvio: “Ma dunque perché m’hai stregato” e non
poche altre frasi); mentre ben vivi appaiono il prologo, quasi tutta la parte
di Canio e il colore complessivo dello “spettacolo nello spettacolo”. Dare a
Nedda la possibilità di due voci diverse è stata un’intuizione geniale, che
ieri Clara Petrella ha raccolto con rara intelligenza.
I
Pagliacci hanno dunque meritato la
loro sopravvivenza, se non proprio l’immortalità. Non aprono vie nuove, forse
ne chiudono alcune, ma mostrano che l’autore della Reginetta delle rose era nato per la musica e per il teatro. Vi
pare una cosa da nulla?”
Non so cosa rispondessero i lettori del Corriere, ma a me non pare affatto una
cosa da nulla. Semmai può sembrare strano, oggi, che il poeta ligure spenda
tante righe per sostenere che Leoncavallo era “tutt’altro che incolto”, che era
“un intellettuale”.
La reazione di Montale si spiega, probabilmente, con la
necessità di rintuzzare la diffusa reputazione di rozzezza che pesava sull’artista
e sulla sua musica “da baraccone”.
Accuse di questo genere – generalmente rivolte, con vaghi
distinguo, all’intero gruppo della cosiddetta “giovane scuola”, omologata sotto
l’etichetta verista – erano partite dalla Francia nei primi anni del ‘900. Ne
ricorderò qualche esempio[4]
, cominciando da un precoce esemplare dell’autorazzismo italico, il pugliese
Ricciotto Canudo.
Da poco stabilitosi a Parigi, le Barisien (copyright Apollinaire!) trovava che “l’imitazione più
fastidiosa, priva di senso artistico e ripugnante” è, appunto, quella di
Leoncavallo, i cui Pagliacci “non
avrebbero mai dovuti essere sottoposti al giudizio degli artisti”; per non parlare
della “brutalité anthiestétique” propria di Zazà!
Gli fa eco Pierre Lalo, che ne lamenta “la volgarità disarmante”. Per Vincent
d’Indy, “i veristi ignorano tutto della musica”, i loro prodotti sono
“semplicemente ignominiosi”. Ma per Reynaldo Hahn (di origine venezuelana), i
veristi la musica non sanno nemmeno cosa sia, e quanto a Leoncavallo, se
qualcuno gli parlasse di qualche sua dimestichezza con Haydn, Mozart o
Beethoven, il povero Reynaldo confessa che sarebbe sopraffatto dallo stupore!
Giudizi di questa natura, spesso motivati da ragioni
tutt’altro che ideali, in Italia erano stati prontamente accolti e divulgati da
giovani ‘innovatori’, finendo per diventare luoghi comuni.
Montale, evidentemente, ritenne prioritario
sgombrare il campo da questo pregiudizio. E nel farlo andò forse anche un po’
oltre, attribuendo al buon Leoncavallo più meriti di quanti ne avesse, dando
eccessivo credito alla vulgata che il musicista stesso era andato costruendo intorno
a sé; come quando, sfruttando la documentata frequenza di un certo numero di
lezioni carducciane all’Università di Bologna, si era fregiato di una laurea in
lettere mai conseguita, e aveva addirittura tentato di accreditare un sodalizio
e intimità col Carducci che, stante il ruvido carattere del poeta maremmano,
appaiono difficilmente credibili[5]
. Leoncavallo aveva di queste vanità. Basti pensare che si era addirittura
ringiovanito (solo di poco!), divulgando, come anno di nascita, il 1858 invece
del 1857 attestato nell’atto di nascita!
Montale tornerà a ribadire la cultura di Leoncavallo (con
qualche attenuazione) in un articolo di tutt’altro argomento, sempre sul Corriere d’informazione (11-12 settembre
1964). Una fugace menzione, il cui significato di polemica contrapposizione è
chiarito dal contesto. Ricordata una battuta circolata qualche anno prima sulla
Biennale di Venezia, Montale si dice convinto che “riprendendo le note apposte
a ogni pezzo del programma dell’attuale festival musicale” si potrebbe mettere
insieme un libro capace di annichilire “la reputazione dei più famosi classici
del ridere”. E prosegue: “Si tratta di note scritte dagli stessi compositori,
giovani che posseggono più di una laurea, a differenza del compianto Ruggero
Leoncavallo che di lauree ne aveva una sola (a quanto pare in giurisprudenza),
il che bastava a creargli fama di compositore dottissimo seppure dotato di un
estro musicale volgarissimo”.
Si faccia attenzione a non scambiare per concessione all’opinione
corrente quell’accenno alla presunta volgarità dell’estro musicale di
Leoncavallo, che il poeta si limita a riferire come componente limitativa della
‘fama’ creatasi attorno al musicista.
Così come bisogna guardarsi bene – per tornare alla
recensione del ’56 – dal prendere troppo sul serio l’apparente apertura di credito
a chi nei Pagliacci vedeva un’opera “da
baraccone” e “di cattivo gusto”.
Che cosa debba intendersi per ‘cattivo gusto’ nelle
parole di Montale spero di poterlo chiarire in un articolo successivo. Per ora
mi limito a sottolineare l’equanimità del giudizio del poeta sui Pagliacci e sul loro autore. Egli
riconosce nell’opera parti caduche: segnatamente quelle “dove la romanza da
salotto crea un clima incompatibile con quello del dramma lirico”; quelle,
cioè, dove la naturale vena melodica (il Leoncavallo-Gastaldon!) ha preso la
mano al musicista, compromettendo la coerenza artistica del dramma. Ma la
valutazione complessiva dell’opera e dell’autore è indubbiamente positiva. Un
giudizio positivo che si estende (udite, udite!) addirittura alle famigerate Operetten! Anzi, proprio mentre
rivendica alla musica del napoletano un valore non rivoluzionario ma, pur con
indubbi limiti, certamente autentico, non si perita di definirlo, invece che
col ricordo di qualcuno dei suoi drammi “seri” più o meno di successo, col
richiamo a una delle sue creazioni meno impegnate, a quella briosa Reginetta delle rose che già nel titolo
pareva fatta apposta per attirare i lazzi e gli sberleffi di giudici seriosi e
supponenti. Una provocazione? Penso proprio di sì. Una sfida non troppo velata
a quei signori che avevano avocato a sé l’esclusiva del buongusto, e reagivano
con disdegno e disappunto tutte le volte che vedevano gli amanti della musica accorrere
ai lavori ricchi di sentimento e disertare le gelide escogitazioni cerebrali.
La Rosa di Mucha (1898) evoca bene l'atmosfera della "belle époque" in cui s'inquadra la Reginetta delle rose (1912) |
A conclusione mi si lasci dire che – indipendentemente
dalla condivisione di questo o quel particolare apprezzamento – del pezzo
montaliano mi piace serbare nella memoria principalmente quella definizione che
a Ruggero Leoncavallo calza a pennello: “un
uomo generoso e leale, moderno e non privo di estro”. Della sua modernità,
e del suo estro musicale, testimoniano i successi e – credo – gli stessi attacchi
polemici di contemporanei e immediati successori. Delle sue qualità di uomo
generoso e leale dànno prova, tra l’altro, la prontezza e la generosità con
cui, in un periodo per lui non propriamente florido, in nome di valori ideali
non esitò a rinunciare a una vantaggiosissima posizione di rendita acquisita, qual
era quella che col suo lavoro aveva saputo conquistarsi nei ricchi teatri di
lingua tedesca. E poco importa se oggi quei valori appaiono perenti e
screditati.
[1] Paolo
Giacometti (1816-1882), drammaturgo, come dice M., “molto rispettabile sotto
ogni verso”, impegnato nella costruzione di un teatro nazionale con finalità
pedagogiche e morali. Basti ricordare, di lui, La morte civile, un dramma che già nel 1861 prospettava in termini
appassionati la necessità dell’introduzione del divorzio. [NdR]
[2]
Stanislao Gastaldon (1861-1939): tra gli iniziatori del verismo musicale (Mala Pasqua!, anch’essa ispirata alla
novella di Verga, precedette di circa un mese il trionfo della Cavalleria rusticana di Mascagni), fu
noto soprattutto per la ricca vena melodica trasfusa nelle sue romanze (si
ascolti almeno Musica proibita, ma
attenti alla scelta dell’interprete!). [NdR]
[3]
“romanzo musicale” del compositore francese Gustave Charpentier (1860-1956)
andato in scena lo stesso anno di Zazà
(1900): la trama sentimentale, percorsa da venature di socialismo umanitario
anarchicheggiante, perfettamente assecondata da una musica capace di fondere un
wagnerismo stemperato in salsa francese con spunti di precoce impressionismo,
freschezza melodica e sincerità di commozione, ne ha assicurato un duraturo
quanto meritato successo. [NdR]
[4] Cito da Fiamma NICOLODI, Gusti e tendenze del Novecento musicale in
Italia, Firenze, Sansoni, 1982.
[5] Si
veda, in proposito, l’intervista rilasciata a Luigi Becherucci alla vigilia
della prima del Mameli (La Tribuna, 26 aprile 1916).