Nel post scorso (humanitas1) abbiamo delineato l’ideale di vita
del cittadino romano arcaico, il mos maiorum.
In questo ci occuperemo di un nuovo modello d'esistenza, profondamente influenzato dalla
cultura greca ma senza rinunciare a un nucleo forte di romanità. Ne seguiremo
lo sviluppo dai primi segni, all’elaborazione nell’ambito del Circolo degli
Scipioni, alla sua affermazione in tutta la ricchezza di significati, alcuni
dei quali oggi attuali più che mai.
Gli inizi
Il passaggio dal mos
maiorum all’ideale di humanitas
fu lento e contrastato.
Tra i primi innovatori è un esponente della gens Livia, Livio Salinatore (III sec.
a.C.), che, tra lo stupore scandalizzato dei tradizionalisti – un cittadino
romano riteneva di propria esclusiva pertinenza l’educazione dei figli maschi –
affidò l’istruzione dei suoi figli proprio a uno schiavo greco di origine tarantina,
quell’Andronìco che, affrancato, ne prese il nome gentilizio, ne imparò la
lingua, e dette inizio alla letteratura latina.
Successivamente la palma del filellenismo passò a
un’altra importantissima famiglia aristocratica, quella cui apparteneva P.
Cornelio Scipione l’Africano, il vincitore di Annibale. Gli Scipioni, pur senza
nulla rinnegare della sostanza del modello di vita romano, promuovono una
politica culturale largamente favorevole ad aperture alla cultura greca.
Interprete geniale di questa linea politica si rivelò uno scrittore proveniente
dall’Italia meridionale e attratto nell’orbita degli Scipioni, Quinto Ennio.
La tendenza filellenica finì per contagiare altri
esponenti della cerchia aristocratica romana. L. Emilio Paolo, pur curando in
proprio l’educazione dei figli secondo l’ideale del mos maiorum, la arricchisce con contenuti nuovi, affidandoli a una
schiera di maestri greci: filosofi, grammatici, retori, scultori, pittori,
addestratori di cavalli, maestri di caccia, addestratori di cani... Non solo:
vinto a Pidna il re di Macedonia Perseo (168 a.C.), porta a Roma, tra l’altro
bottino di guerra, una preda di nuovo genere, la ricchissima biblioteca del re
sconfitto, e la mette a disposizione dei propri figli.
Ma la “preda” più preziosa si rivelò Polibio di
Megalopoli. Ritenuto tra i responsabili della Lega Achea, ostile ai Romani, era
stato portato a Roma (167 a.C.) per esservi processato. Ma il processo non ebbe
luogo, e Polibio ben presto si guadagnò la stima e la fiducia del vincitore,
tanto da diventarne ospite fisso, ammirato e venerato come maestro dai figli,
in particolare dal più giovane, noto in seguito col nome di Publio Cornelio
Scipione Emiliano per intervenuta adozione da parte di Scipione, figlio del
vincitore vincitore di Annibale. E sarà proprio dal gruppo di giovani
aristocratici raccolti intorno all’Emiliano che coagulerà il cosiddetto Circolo
degli Scipioni, un sodalizio nel cui ambito saranno definitivamente superati i
pregiudizi antiellenici e si darà il via a un particolare tipo di cultura che possiamo a buon diritto
definire greco-romana. .
Il Circolo degli Scipioni
Parlare di ‘circolo’ in questo caso è, probabilmente, un
po’ esagerato e anacronistico. Cicerone, che quel sodalizio idealizza circa un
secolo dopo, si riferisce ad esso mediante il vocabolo grex (letteralmente ‘gregge’), parola spesso usata metaforicamente
per significare ‘schiera’, ‘gruppo’, ‘compagnia’, ‘gruppo di amici’. Il ‘Circolo degli Scipioni’, dunque, altro
non è che un sodalizio di amici che
condividevano un nucleo di idee e di atteggiamenti mentali e pratici, e che
aveva nell’Emiliano la personalità di maggiore prestigio sociale e politico se
non propriamente culturale.
L’importanza culturale del Circolo degli Scipioni sta nel
fatto che assunse “una posizione di punta nel promuovere l’assimilazione da
parte dei Romani di certi aspetti fondamentali della cultura greca e nel porre
così le basi di un originale amalgama tra le due civiltà” (B. Gentili). Nell’ambito
di esso furono elaborati idee e valori destinati a ulteriori sviluppi e, in
parte, a entrare nel patrimonio della nostra cultura. Idee e valori che
possiamo schematizzare come segue:
1. la giustificazione teoretica
dell’imperialismo romano e l’individuazione di una ‘missione universale di
Roma’;
2. una nuova concezione dell’uomo,
della sua dignità, dei suoi valori, che possiamo sintetizzare nel concetto di humanitas.
La giustificazione teoretica dell’imperialismo romano si deve principalmente a Polibio e al filosofo stoico Panezio. L’uno e l’altro lo fanno con profonda convinzione, in base a ragioni nient’affatto spregevoli, anche se in tempi moderni non manca chi ne ha fatto uso strumentale, provocando un discredito non sempre giustificato. In ogni caso, esso è marginale rispetto al nostro tema e, per amore di brevità, dobbiamo lasciarlo da parte.
Humanitas
Più complessa e feconda la nozione di humanitas, che implica una nuova visione
dell’uomo e dei rapporti umani.
a) humanitas = philanthropìa, cioè
solidarietà verso gli uomini, comprensione, mitezza, affabilità…
All’inizio, probabilmente, tale vocabolo designa
semplicemente un modo di sentire l’uomo e i rapporti umani estraneo alla
tradizionale mentalità latina, ‘importato’ dalla Grecia. Più precisamente si
tratta di quel particolare atteggiamento dell’uomo verso i propri simili –
fatto di solidarietà, di umana comprensione, cortesia, amabilità, mitezza –
elaborato nell’ambito della raffinata società ateniese del IV sec. a.C., e che
ritroviamo nei personaggi di Menandro, commediografo ateniese che tanta
influenza ebbe sul commediografo latino Terenzio. Una testimonianza di come
uomini di cultura greca cercassero di diffondere tra i Romani questi
sentimenti, per loro nuovi, ci è offerta da Polibio. In un passo autobiografico
delle sue Storie egli ricorda che,
nei primi tempi della sua forzata permanenza a Roma, l’Emiliano, allora
diciottenne, lamentò l’impressione di essere un po’ trascurato da lui e
aggiunse: “Evidentemente anche tu pensi di me ciò che pensano gli altri miei
concittadini: tutti, a quanto sento dire, mi ritengono troppo pigro e
tranquillo (…) Dicono inoltre che la mia famiglia non ha bisogno di siffatti
rappresentanti, ma di uomini attivi ed energici, e ciò mi addolora molto”. E Polibio, tra l’altro, risponde: “Mi compiaccio
di sentire da te che ti ritieni più mite
di quanto non si convenga ai discendenti della tua famiglia: è segno di magnanimità” (trad. di C. Schick).
Ecco, dunque, una nuova virtù, destinata ad essere acquisita nella successiva mentalità
romana: la greca megalopsychìa, la magnanimitas, la ‘grandezza d’animo’ di
colui che sa essere mite e generoso con i propri simili. Cito un solo esempio
letterario: nella commedia di Terenzio Il
punitore di sé stesso troviamo un personaggio che, impietosito
dell’atteggiamento autopunitivo del suo vicino, gliene chiede le ragioni. Alla
rude risposta di badare ai fatti propri, il buon Cremete risponde: “Homo sum; humani nil a me alienum puto”
(“Sono un uomo, e perciò ritengo che nulla di ciò che è umano mi sia estraneo”;
cioè: “ciò che è un problema per i miei simili lo è anche per me”!).
La commedia di Terenzio (da certi malevoli considerato
niente più che un prestanome dello stesso Emiliano, suo amico e protettore) testimonia
che siffatti sentimenti e atteggiamenti, invisi ai tradizionalisti, erano ben apprezzati
nella cerchia scipionica.
b) nobiltà e fratellanza degli esseri umani accomunati
dal logos
Il sentimento di ‘magnanimità’ nel senso di umana solidarietà verso i propri simili, troverà sistemazione e giustificazione teoretica nel filosofo Panezio.
Il sentimento di ‘magnanimità’ nel senso di umana solidarietà verso i propri simili, troverà sistemazione e giustificazione teoretica nel filosofo Panezio.
Seguace e riformatore della scuola stoica, Panezio
abbandona il rigorismo morale ascetico e individualistico della prima Stoà. In
luogo dell’astratto, e per certi aspetti disumano, modello del “sapiente”
orgogliosamente chiuso nella propria virtus,
il riformatore addita un nuovo paradigma: quello di un uomo che tende alla
virtù in mezzo ad altri uomini, pronto alla comprensione e alla filantropia.
L’uomo, sostiene Panezio, è una creatura privilegiata che – grazie al dono
della ragione (logos: “parola”,
“ragione”) – si stacca nettamente da tutti gli altri esseri viventi e presenta
una certa parentela con la divinità. Questo privilegio, o diciamo meglio questa
dignità, impone all’uomo di vivere
responsabilmente la propria vita, in maniera degna della sua parentela col
divino. Vivere degnamente vuol dire seguire la natura, in particolare ciò che è
peculiare della natura umana, e cioè il logos,
la ragione. Ed è proprio la ragione ad imporci di riconoscere in ogni uomo un
nostro simile, partecipe, insieme con noi, del logos divino. Questo riconoscimento impone un atteggiamento di solidarietà
(la greca philantropìa, appunto), una
sorta di fratellanza umana, e il dovere
di impegnarsi nella vita sociale e politica a vantaggio dei nostri simili.
A scanso di equivoci, mi sia consentita su questo argomento un’ultima annotazione, una parentesi. Gli stessi corifei dell’atteggiamento ellenizzante trovarono modo di contemperare il nobile ideale di philanthropia e fratellanza, con quelle che a loro apparivano dure quanto inevitabili necessità politiche e militari. E se il campione dei tradizionalisti, Catone, si rivelerà il più acerrimo nemico di Cartagine col suo implacabile ritornello delenda Carthago (“bisogna distruggere Cartagine!”), a dare esecuzione a quella sua ossessione sarà, nel 146 a.C., il principale esponente del partito avversario. Sì, proprio quel ragazzo che i suoi confratelli di consorteria aristocratica giudicavano troppo mite, e perciò degenere rappresentante della sua nobile famiglia.
A scanso di equivoci, mi sia consentita su questo argomento un’ultima annotazione, una parentesi. Gli stessi corifei dell’atteggiamento ellenizzante trovarono modo di contemperare il nobile ideale di philanthropia e fratellanza, con quelle che a loro apparivano dure quanto inevitabili necessità politiche e militari. E se il campione dei tradizionalisti, Catone, si rivelerà il più acerrimo nemico di Cartagine col suo implacabile ritornello delenda Carthago (“bisogna distruggere Cartagine!”), a dare esecuzione a quella sua ossessione sarà, nel 146 a.C., il principale esponente del partito avversario. Sì, proprio quel ragazzo che i suoi confratelli di consorteria aristocratica giudicavano troppo mite, e perciò degenere rappresentante della sua nobile famiglia.
c) humanitas = paideia, cioè cultura,
civiltà…
Il dovere morale di impegno politico, così caro ai sostenitori del mos maiorum, trovava dunque nella filosofia greca non solo cittadinanza, ma addirittura giustificazione teoretica, quale dovere, inerente alla natura umana, di rendersi utile ai propri simili.
Tuttavia – aggiunge Panezio, ed è forse questa la parte più originale del suo pensiero – ogni individuo è dotato, oltre che della ragione, comune a tutti gli uomini (e alla divinità!), anche di una propria personalità, fatta di propensioni, attitudini e così via. Seguire la natura significa, pertanto, seguire anche le istanze della propria specifica personalità, almeno nella misura in cui questa non si oppone ai doveri primari dettati dalla ragione.
Tuttavia – aggiunge Panezio, ed è forse questa la parte più originale del suo pensiero – ogni individuo è dotato, oltre che della ragione, comune a tutti gli uomini (e alla divinità!), anche di una propria personalità, fatta di propensioni, attitudini e così via. Seguire la natura significa, pertanto, seguire anche le istanze della propria specifica personalità, almeno nella misura in cui questa non si oppone ai doveri primari dettati dalla ragione.
La virtus
paneziana, in altre parole, tende a uno sviluppo
armonico della personalità umana in tutte le sue facoltà. Questo vuol dire
che è legittimo, e anzi doveroso, coltivare, accanto alle virtù diciamo così
civiche (in sostanza, per un romano, le qualità connesse con la vita politica e
militare, oltre che con la cura del patrimonio) anche gli aspetti della
personalità più privati. È la legittimazione
dell’otium, della vita privata:
secondo questa prospettiva, anche il cittadino appartenente alla classe
dirigente potrà dedicarsi alla cura dei propri interessi spirituali
privati. Potrà, p. es., coltivare la
poesia, gli studi letterari e filosofici, senza doversene vergognare. Al contrario,
tale attività è posta tra le più nobili, perché investe direttamente quella
parte di noi, lo spirito, che è più tipicamente umana; quella che ci distingue
dagli animali e ci rivela compartecipi dell’essenza divina. È il riconoscimento del valore autonomo della
cultura come arricchimento dello spirito, come otium, indipendentemente dal negotium
(che è, appunto, il contrario dell’otium,
e sintetizza gli impegni politici ed economici).
Questo
riconoscimento era davvero rivoluzionario per la tradizionale mentalità della
classe dirigente romana, e non fu accettato senza gravi difficoltà e, almeno in
un primo momento, come interesse consentito accanto
a quello primario dell’attività politico-militare e non come sostitutivo di
questo. Ma intanto il sasso era lanciato, e presto troveremo, proprio tra gli
amici dell’Emiliano, un esponente della classe dirigente – Lucilio – che, per
la prima volta nella storia di Roma, rinuncia alla prospettiva di una brillante
carriera politica e militare per dedicarsi, accanto alla cura del patrimonio,
esclusivamente alla letteratura.
Proprio questo significato di humanitas – approssimativamente corrispondente al greco paidéia – sarà posto al centro
dell’attenzione da Petrarca e seguaci, elaboratori di quel complesso di idee
all’origine della civiltà moderna (sono
proprio loro a elaborare la nozione di “medioevo” – “medio” tra gli antichi e i
moderni – da cui intendono prendere le distanze!), quel movimento culturale noto,
non a caso, col nome di ‘umanesimo’ (attraverso la nozione
di humanae litterae, cioè “cultura
letteraria e filosofica”), nel senso ideale prima ancora che storico.
Dall’altro lato, dall’assunzione di humanitas nel significato generico di ‘civiltà’, ‘vita civile’, in opposizione a ‘rozzezza’, ‘ignoranza’, ‘vita primitiva’, la parola finirà col significare – già nel I sec. a.C. – semplicemente le comodità, gli agi, resi possibili dalla ‘civiltà’.
Tutta questa evoluzione – si è già detto – si svolse non
senza aspri contrasti con i “tradizionalisti”. I quali – va riconosciuto –
avevano le loro buone ragioni, tutt’altro che irrilevanti o spregevoli. Ragioni
peraltro così complesse che devo rinviarne la presentazione a un prossimo post.