È una poesia di Sully Prudhomme, un poeta francese (1839-1907) ascritto alla corrente dei Parnassiani, primo vincitore del Premio Nobel per la letteratura (1901). Pochi versi, semplici, apparentemente banali; cristallini nella forma, ma governati da un ritmo, una musicalità vellutata, suadente.... Alla certezza della continuazione della vita nel regno dello spirito, in ciò che chiamiamo l'invisibile, insomma in una dimensione diversa (“La vita viene mutata, non tolta!” canta – o cantava – la Chiesa cattolica) ci si arriva pe gradi. L’umano, troppo umano, rifiuto della morte come un dissolversi nel nulla, è acquisito con dolcezza. Anche là dove il rigetto è espresso in modo più risoluto (Non, non, cela n’est pas possible!) non è un grido; sì, piuttosto, una negazione decisa, fatta con voce ferma e appassionata, ma sommessa. E del resto, da questo delicato poeta, dal gentile poeta del Vase brisé (chi può lo cerchi e lo legga in originale), non ci si potrebbe aspettare atteggiamento diverso.
La mia traduzione è volutamente pedestre, non più che una specie di guida interlineare alla lettura dell’originale. Ma diamo la parola all’autore.
Bleus ou noirs, tous aimés, tous beaux,
Des yeux sans nombre ont vu l’aurore ;
Ils dorment au fond des tombeaux
Et le soleil se lève encore.
Les nuits plus douces que les jours
Ont enchanté des yeux sans nombre ;
Les étoiles brillent toujours
Et les yeux se sont remplis d’ombre.
Oh ! qu’ils aient perdu le regard,
Non, non, cela n’est pas possible !
Ils se sont tournés quelque part
Vers ce qu’on nomme l’invisible ;
Et comme les astres penchants,
Nous quittent, mais au ciel demeurent,
Les prunelles ont leurs couchants,
Mais il n’est pas vrai qu’elles meurent :
Bleus ou noirs, tous aimés, tous beaux,
Ouverts à quelque immense aurore,
De l’autre côté des tombeaux
Les yeux qu’on ferme voient encore.
Aperti a qualche immensa aurora |
Traduzione
Azzurri o neri, tutti amati, tutti belli,
occhi innumerevoli hanno visto l'aurora;
essi dormono dentro le tombe,
e il sole si leva ancora.
Le notti, più dolci del dì,
hanno incantato innumerevoli occhi;
le stelle brillano ancora,
e gli occhi sono ormai pieni d’ombra.
Oh! che essi abbiano perso la facoltà di vedere,
no, no, questo non è possibile!
Si son voltati da qualche parte,
verso ciò che diciamo l’invisibile.
E come gli astri che tramontano
ci lasciano, ma restano in cielo,
anche le pupille hanno il loro tramonto,
ma non è vero che muoiano.
Azzurri o neri, tutti amati, tutti belli,
aperti a qualche immensa aurora,
dall’altro lato delle tombe
gli occhi che si chiudono vedono ancora.
Dite che è un’illusione? Può essere. Ma – risponderò col Foscolo –
Ma perché pria del tempo a sé il mortale
Invidierà l’illusïon che, spento,
pur lo sofferma al limitar di Dite?
E qui mi fermo, perché temo che altrimenti dovrei fare un’altra ‘traduzione’. O, più esattamente, una parafrasi: dal tono sublime della lingua poetica foscoliana (indubbiamente ‘antiquata’ e difficile, così diversa dall’espressione piana e disadorna di Prudhomme) alla misera banalità della lingua quotidiana, distruggendo la poesia. Solo mi limiterò a ricordare ai meno esperti che:
- il mortale significa “l’uomo, fatalmente destinato alla morte”;
- invidiare ha qui il significato di “voler togliere”;
- pur lo sofferma al limitar di Dite: “pur”: ciononostante, nonostante che sia “spento”, morto; Dite è, nella mitologia greco-romana, il dio dell’oltretomba; dunque il limitar di Dite è la soglia dell’oltretomba, della sede dei morti…
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