Governanti e condottieri allergici alla morale non hanno
avuto bisogno di attendere la codificazione di Machiavelli per applicarne i
princìpi. Così, da tempo immemorabile, chi è interessato alla manipolazione
delle coscienze fa ricorso alla manipolazione linguistica. (Anche se oggi
questo strumento risulta ampiamente surclassato dall’uso truffaldino delle
immagini – disegni, foto, video – variamente manipolate: contraffatte,
decontestualizzate, reinterpretate…). E quindi non è detto che gli espedienti
cui accenneremo siano direttamente riconducibili agli ‘insegnamenti’ di Orwell.
È vero invece che lo scrittore inglese ci aiuta a identificarli.
Partiamo dalla fine: la riscrittura dei classici
Ricorderete che il post precedente si concludeva con un accenno alla
manipolazione dei classici, tradotti in neolingua. Vorrei ripartire proprio
da qui. O, più precisamente, dalla reinterpretazione delle opere teatrali, in
particolare delle opere in musica, oggi bersaglio privilegiato di registi e
scenografi indifferenti ai valori musicali, ma ben attenti al successo e al
denaro. Per brevità mi limito a un solo esempio tra tanti, scegliendolo tra
quelli più recenti.
Probabilmente tutti conoscono la trama della Carmen di Bizet, ambientata nella Spagna
ottocentesca. Nel dubbio, ecco qui un riassunto telegrafico.
Don Josè, brigadiere dei dragoni, soccombe al fascino e
alle seduzioni di Carmen, una zingara… Ups, eccomi caduto nel politicamente
scorretto: dovevo dire “rom”. E se era “sinti”? In fondo, io mica li
distinguo. Facciamo così: in luogo del proibito "zingara" userò il corrispondente vocabolo spagnolo. Mi consentite
di chiamarla “gitana” senza accusarmi di razzismo? Grazie, la chiamerò così.
Don Josè – dicevo – soccombe alle seduzioni di Carmen, una gitana arrestata per
rissa con uso di coltello. La lascia scappare e, per amore, da gendarme si fa
contrabbandiere e bandito, pur tormentato da continui soprassalti di rimorso.
Ma quella che per lui è passione fatale, per Carmen è un capriccio passeggero,
presto sostituito dall’amore per Escamillo, il torero in auge al momento. A
nulla valgono le suppliche dell’amante tradito. Carmen, gelosa della sua
libertà, gli risponde in maniera sprezzante e – com’è nel suo carattere –
provocatoria. Accecato dalla gelosia, don Josè mette mano al coltello. Un
omicidio passionale in piena regola, da qualche tempo ridefinito “femminicidio”,
nella speranza (fondata?) che un mutamento di vocabolo contribuisca a risolvere
questa tragedia sociale. Quale migliore occasione per una riscrittura
politicamente corretta?
don José uccide Carmen (partic.)
(dal blog di Monica
Cadoria)
|
E infatti, qualche mese fa, a Firenze, un tizio a caccia di “gloria”
a costi stracciati, da regista reinventa la storia, offrendo, a spettatori
presunti annoiati dalla musica e sessualmente intorpiditi, un intrattenimento
a base di scenette più o meno piccanti. Ma il vero colpo di
genio si svela nel finale. L’affascinante gitana dismette l’odioso ruolo di
vittima della fatale passione amorosa del maschio per assurgere a quello –
politicamente corretto – di vindice di tutte le donne offese, di tutte le
vittime di “femminicidio”. Così la fosca tragedia della passione fatale qual
era in Mérimée (autore del racconto originale), temperata ma non tradita dai
librettisti e soprattutto dalla musica immortale di Bizet, si avvia a diventare
altra cosa. A farla finire in farsa ci pensa la banalità del destino: alla
prima rappresentazione, per ben due volte la vendicatrice preme il grilletto
vendicatore, e altrettante volte la pistola di scena risponde con beffarda cilecca.
Mentre Don Josè si accascia inspiegabilmente a terra, forse colpito da infarto.
Tra i fischi e gli urli dei musicofili traditi, e l’entusiastica approvazione del Nardella.
Manipolazione ideologica della lingua italiana
Prima di cominciare questo paragrafo, permettetemi una
premessa superflua per i più, necessaria per qualcuno. Sia chiaro che quando
segnalerò l’uso a mio modo di vedere strumentale, o addirittura truffaldino, di
certe espressioni, mi limito a considerare la natura ideologica di tale
l’impiego, mentre lascio assolutamente
impregiudicata la plausibilità o meno dell’ideologia che sta dietro.
Affrontare seriamente simili problemi richiederebbe trattazioni lunghe e
articolate, fuor di luogo in un blog dedicato alla musica e alla letteratura, e
ai linguaggi che le esprimono.
Bene. Diciamo, anzitutto, che oggi, in Italia, la prima
fonte di espressioni usate per nascondere più che per esprimere è proprio l’inglese
in quanto lingua “alta” (espediente cui ricorreva già il vecchio don Abbondio,
con il suo latinorum, per confondere
le idee al povero Renzo!). È vero che molte persone nobilitano il nostro
volgare – inguaribilmente “provinciale” – inzeppandolo di espressioni inglesi (molto
spesso storpiate nel significato e/o nella pronuncia) per pura vanità, o per
dimostrarsi “non provinciali” (ignari del fatto che la lingua italiana, da loro
non sempre ben conosciuta, sia la quarta lingua più studiata al mondo, dopo la koiné inglese, lo spagnolo, e il cinese).
Ma i politicanti, oltre che per queste ragioni, lo fanno anche a scopo
truffaldino. Un esempio per tutti: l’ineffabile jobs act!
Reinterpretazione
delle Avventure
di Pinocchio, in chiave anticomunista
(copertina di un
fumetto del 1948: dal sito pinocchio-e-pinocchiate.blogspot)
|
Un serbatoio analogo è costituito dai cosiddetti
linguaggi settoriali (soprattutto quello dell’economia), inesauribile miniera
di parole presumibilmente “straniere” alla maggioranza dei cittadini comuni. Ma
non disperdiamoci. Passiamo a spigolare qualche esempio tra le locuzioni più
comuni (altri ne potrei fare, e tanti e tanti altri verranno in mente a voi!).
Ricordate bellyfeel?
Ha il suo bravo corrispondente anche in italiano: è un sintagma avverbiale di
formazione molto recente: “di pancia”. Ha lo stesso significato (sottolinea,
appunto, l’irrazionalità di un’adesione non mediata dalla ragione), ma con una
valenza politica opposta: nella nostra società è un disvalore. Proprio per
questo l’uso ideologico che se ne fa è non meno orientato e tendenzioso. Questo
è particolarmente evidente in un’altra locuzione, formata con la stessa figura:
la “pancia dell’elettorato”. Parlare alla “pancia dell’elettorato” si dice di
partiti o uomini politici rivali, per insinuare che essi fanno appello agli
istinti, alle pulsioni più basse degli elettori. Derubricando a basso impulso
irrazionale quelle che magari sono esigenze fondate e legittime, tradotte in scelte
politiche pienamente razionali, benché legittimamente messe in discussione da
chi segue un diverso orientamento ideologico. Per non dire di quelli che la
usano nel senso di “rivolgersi a un segmento particolare degli elettori”,
quelli metaforicamente ascrivibili alla “pancia”; elettori visivamente degradati
alla sola funzione digestiva, escretoria. Con l’ovvio sottinteso di riservare
arbitrariamente a se stessi, e ai propri seguaci, la funzione nobile di
cervello, di “testa pensante”… Con una distinzione ben più cruda di quella del
vecchio Menenio Agrippa.
Reinterpretazione
del Risorgimento:
Garibaldi scaccia
De Gasperi, diffamato come “austriaco”
perché nato in
Trentino, al tempo parte dell’Impero austro-ungarico
(illustrazione ripresa dal sito
loccidentale.it)
|
C’è poi la vasta categoria della lingua “politicamente
corretta”. Non nego l’opportunità della sostituzione di qualche espressione effettivamente
discriminatoria, come “negro”, giustamente sostituito con “nero” (mentre trovo
ridicolo ed offensivo il tentativo di riverniciatura implicito nella locuzione “di
colore”!). Ne rifiuto l’abuso. Prendete la parola “genere”, o addirittura gender, come preferiscono i seguaci di
conduttrici e conduttori televisivi. Nell’uso inedito introdotto da movimenti
d’opinione postnovecenteschi, essa si è appropriata vari significati
tradizionalmente spettanti alla parola “sesso”. Perché? Perché la parola
“sesso”, nella sua greve materialità anatomicamente determinata, è meno
disponibile ad acconciarsi alle esigenze di chi, in materia, propone visioni
largamente innovative.
Controreinterpretazione
del Risorgimento:
Garibaldi ammonisce
gli elettori
denunciando l’indebita
appropriazione della sua immagine
da parte del Fronte
popolare
(dal sito flickriver) |
Oppure, per entrare nel campo più proprio delle blanket words, delle “parole-coperta”,
pensate all’uso del suffissoide –fobia,
estrapolato dall’ambito della patologia neurologica di sua pertinenza (agorafobia, claustrofobia ecc.), per formare parole come xenofobia, omofobia,
addirittura islamofobia, composti
chiaramente intesi a degradare a malattia psichiatrica un’opinione politica
sgradita, così da liberarsi del noioso impiccio di confutarla con
argomentazioni razionali! Pensate alla parola “razzista”, passata – in bocca a molte persone – dal significato
proprio di “aderente a un’ideologia di presunta superiorità di una ‘razza’
umana sull’altra (con conseguente difesa della sua ‘purezza’)” a ingiuria
pressoché onnicomprensiva. O pensate all’uso del neologismo “buonista” per condannare sbrigativamente
un atteggiamento senza darsi la pena di provarne l’inadeguatezza. Riflettete all’uso
ingiurioso di parole come fascista,
che propriamente designa un preciso movimento storico e un ben determinato corpus di dottrine politiche. E “populista”? Che significa “populista”? Staccatosi
dalla designazione storica (populismo russo del XIX sec.), oggi dovrebbe avere
assunto il significato estensivo di aderente a un movimento “che tende
genericamente all’elevazione delle classi più povere” (Diz. Garzanti); e non si
vede che cosa, questa tendenza, abbia di intrinsecamente negativo fino fargli
assumere, nei casi estremi, il significato di “qualcuno che si diverte a vedere
affogare i bambini”. Mentre, sull’altro versante, non manca chi usa, come
ingiuria sanguinosa, la qualifica di “comunista”:
uno che i bambini non vuole farli affogare, perché preferisce mangiarseli! Eh via! Lasciamo queste scempiaggini a chi
non è capace d’altro. Torniamo a un uso razionale della lingua! Combattiamo le
battaglie per le nostre idee con argomenti razionali. Probabilmente ci capiterà
di smussarne le punte più aspre; in qualche caso ci potrebbe persino capitare –
come effetto dello sforzo raziocinativo – di doverle addirittura cambiare. Con
vantaggio della nostra coscienza. E di quanti ci circondano.
La fine di Syme
Ah, a momenti me ne dimenticavo. E Syme? Si dissolse
veramente come vapore, secondo le previsioni di Winston?
Ebbene sì. Ne dà il ferale annuncio George Orwell in
persona, all’inizio del cap. V (cfr. post sulla lingua del GF); sempre il V (destino?), ma della Parte II,
questa volta. Un bel giorno Syme non si presenta al lavoro. Soltanto quelli già
parecchio avanti nell’arte di non pensare si posero qualche domanda. Il giorno
dopo, nemmeno loro. Il terzo giorno Winston andò a dare un’occhiata alla lista
del Comitato Scacchi a cui Syme era iscritto. La lista era lì, uguale a quella
di sempre, ma invano l’occhio avrebbe cercato il nome di Syme. Nessuno, del
resto, avrebbe mai ammesso di aver conosciuto un certo Syme, filologo, in
servizio al Miniver. In nessun documento, in tutto il Superstato di Oceania, si
sarebbe trovato il suo nome. Syme non era mai esistito!