Cento anni fa moriva a Montecatini Terme il musicista Ruggero Leoncavallo. È l’autore con cui, a suo tempo, ho avviato l’avventura
di questo blog. (Forse qualcuno dei miei primissimi lettori ricorderà i tre
articoli dedicati appunto al Mameli di Leoncavallo e allo strano caso
di Montale che di quest’opera (mai ascoltata!) scrisse la
sua prima, fortunata
‘recensione’ musicale. Chi poi non li avesse letti, e gli venisse in mente di farsene un’idea – potrebbe trovarli in Montale1, Montale2, Montale3).
Lasciar trascorrere questa ricorrenza senza dedicargli almeno una parola di ricordo mi sembrerebbe peccato d’ingratitudine. D’altra parte, però, è anche vero che questo valente ma sfortunato musicista, anche per morire ha scelto il momento meno indicato: il 9 agosto, ragazzi, a meno di una settimana dal ferragosto! Pensate al caldo soffocante di questi giorni: salvo malaugurati impedimenti, vi siete tutti dileguati, fuggiti chi al mare chi ai monti in cerca di un po’ di refrigerio e del meritato riposo. Con quale faccia potrei – rebus sic stantibus – venirvi a chiedere di dedicare anche solo qualche dozzina di minuti a opere impegnative, e magari d’argomento tragico? Meglio ripiegare sulla leggerezza dell’operetta.
‘recensione’ musicale. Chi poi non li avesse letti, e gli venisse in mente di farsene un’idea – potrebbe trovarli in Montale1, Montale2, Montale3).
Lasciar trascorrere questa ricorrenza senza dedicargli almeno una parola di ricordo mi sembrerebbe peccato d’ingratitudine. D’altra parte, però, è anche vero che questo valente ma sfortunato musicista, anche per morire ha scelto il momento meno indicato: il 9 agosto, ragazzi, a meno di una settimana dal ferragosto! Pensate al caldo soffocante di questi giorni: salvo malaugurati impedimenti, vi siete tutti dileguati, fuggiti chi al mare chi ai monti in cerca di un po’ di refrigerio e del meritato riposo. Con quale faccia potrei – rebus sic stantibus – venirvi a chiedere di dedicare anche solo qualche dozzina di minuti a opere impegnative, e magari d’argomento tragico? Meglio ripiegare sulla leggerezza dell’operetta.
Sorella minore dell’opera lirica
L’operetta –
lo sapete ma ve lo ricordo – è un genere di teatro musicale di carattere
leggero, basato su argomenti comico-sentimentali. È caratterizzata da un linguaggio semplice e
brillante, che alterna dialoghi recitati a danze e brani cantati in coro o da
soli: arie, assoli, duetti, terzetti ecc. Insomma, una sorella minore della più paludata opera lirica, e
persino della ridanciana opera buffa. Un genere un po’ snobbato dai musicofili
di palato più esigente, ma non inadatto a noi e al clima torrido di questi
giorni.
Ruggero Leoncavallo, comunque, non lo disdegnò. Vi ricorse, anzi,
abbastanza spesso: un po’ per ragioni economiche (incombe anche sugli artisti
la necessità di sbarcare il lunario!),
un po’ per nostalgia dei suoi inizi parigini, quando viveva mantenendosi quasi
esclusivamente componendo canzoni e suonando nei caffè-concerto.
Operetta, dunque. No, non aspettatevi l’ennesima riproposizione della Reginetta delle rose, la sua operetta più fortunata, apprezzata anche da Montale (Montale3). Vi presenterò La Candidata, meno nota e forse più stimolante.
Lo so: proporre oggi un testo che mette in burletta gli inizi del femminismo può apparire autentica provocazione. Che vi devo dire: se volete prenderla così, le mie spalle sono pronte per la lapidazione. Ma – sia chiaro – solo a lettura terminata. E… solo chi è immune da peccato potrà scagliare la prima pietra!
La Candidata: circostanze della composizione
La Candidata fu
composta tra la fine del 1914 e i primi del 1915, in un periodo di
gravi difficoltà economiche, tanto che il musicista dovette vendere la villa che si era costruito
in Svizzera, e darsi da fare per trovare il denaro necessario alla
sopravvivenza propria e della signora Berthe, sua adorata consorte. Il ricorso
all’operetta, meno impegnativa e di più immediato successo, gli sembrò la
scelta più appropriata. A maggior ragione dopo l’esito trionfale della Reginetta, e la disponibilità di
Giovacchino Forzano a fornirgli anche il nuovo libretto.
La Candidata: riassunto
La trama proietta gli spettatori della belle époque in un futuro lontano quanto
misterioso, il mitico 1990, fortunata epoca – si supponeva – di democrazia
pienamente attuata.
L’atto primo, quadro primo, ci trasporta nell’immaginaria città di Noincy. Un’orchestra di sole donne, ovviamente diretta da una donna, sta facendo le prove dell’«Inno femminista», da cantare in onore della candidata delle donne, attesa in città tra qualche ora. Le istruzioni alle esecutrici da parte della direttrice (militante – altrettanto ovviamente – delle tendenze musicali più rivoluzionarie) ci dànno già un assaggio, una degustatio direbbero i Latini, di quanto seguirà. Oggi – spiega madame ‘la chef’ – la musica va intesa in senso simbolico: ciò che conta veramente è «quello che non si sente»! Anche se poi gli esempi non sembrano particolarmente calzanti. Come quando raccomanda che alla parola mariti l’entrata dei corni sia immediata, risoluta, stentorea!
… qualcuna,
dimenticata nell’ombra,
vede; e non
apprezza…
|
La situazione, e l’umore di fondo della commedia, poi, sono chiaramente impostati nel Duettino seguente. Sono in scena Eleonora, una delle principali attiviste, e il suo segretario Pevedan.
Le forme tue sì
forti e vigorose,
la voce maschia che
incantar mi sa,
le dolci labbra un
po’ lanugginose [sic],
ti rendono un
trionfo di beltà!
canta, struggendosi, Pevedan, con una vocina non sai se
di fisicamente castrato o mentalmente evirato.
Speculare la brusca risposta resa dalla voce maschia e risoluta di Eleonora:
L’aspetto tuo
timido e pauroso,
la voce chiara che
sorrider sa,
e quell’odor sì
forte e sì noioso,
interessante, o
Pevedan, ti fa.
Sordo ai pressanti inviti a smettere di ricoprirsi di
quel profumo nauseabondo, il segretario trova finalmente l’ardire di svelare il
vertice delle sue aspirazioni erotiche:
Oh! Amor, non mi
lasciar, mi stringi ancora.
Oh! Sentirsi da te
sempre cullar,
fammi la ninna
nanna e mi ristora
stringimi forte
come tu sai far.
Finisce che la povera Eleonora, per mascherare il pestifero
profumo dell’innamorato, tira fuori la pipa e… le smancerie del povero Pevedan
trapassano in una raffica di eccì eccì…
… riecco la moglie!
e la felicità
svanisce come sogno!
|
Il quadro si allarga: poco cambia, nella qualità del rapporto uomo/donna, quando al duetto si sostituirà addirittura un ottetto, con la contrapposizione di quattro mogli tiranniche ad altrettanti mariti vinti e rassegnati.
Ma ecco Aurora, la candidata, colei che sul tetro mondo
maschilista sta per far sorgere il “solleone
dell’avvenir”. In lei si appuntano le aspirazioni fiduciose di mille e
mille donne; è lei l’eletta creatura da cui si attendono nientemeno che “ il riscatto della gonna”. Esultanti
evviva si levano al suo apparire, mille “Cretino!
Cretino!” insorgono al solo accenno
all’ignoto avversario.
Il sole della
gloria
per noi risplenderà
alfine la vittoria
il femminismo avrà!
E sulla base di questa certezza, sul bellicoso ritmo del decasillabo (ricordate il manzoniano «S’ode a destra uno squillo di guerra / a sinistra risponde uno squillo!»?) echeggia, terribile, il grido di guerra: «Guerra guerra, sterminio sterminio, / contro chi ci contende il terren!». È il segnale, e il coro immediatamente attacca il canto di battaglia, l’«Inno femminista» (in Appendice testo integrale), che minaccia, tra l’altro, di far delle gonne altrettante bandiere (l'idea credo sia stata suggerita dalle tipiche figure del cancan, la danza tanto in voga nella Parigi di Leoncavallo). E, di fronte alle gonne alzate a vessillo, che cosa resterà agli uomini se non inchinarsi ammiranti?
Il Quadro secondo
ci trasferisce in camera da letto del Principe Franz, che – apprenderemo più
tardi – è il diretto rivale della candidata femminista. Dorme in dolce
compagnia, ma a un tratto rompe in un urlo. Che cosa sognavi? chiede Evelina
preoccupata. In realtà il sogno era “dolcissimo”. (Sognava d’esser
diventato Presidente della Repubblica!). Solo che all’improvviso il bel sogno si era
trasformato in incubo premonitore:
una donna, uscita dalla folla, lo voleva uccidere, armata di non si sa bene
quale arma: forse un revolver, o un fucile, o un cannone, o forse niente più
che uno stiletto… Ma più probabilmente era una bottiglia, una bottiglia di
sciampagna… Allora ho gridato / allor
m’hai svegliato / non più Presidente / ma re
dell’amor!
Fattesi due risate, il principe e la sua compagna richiudono gli occhi. Appena qualche istante, ché subito un baccano infernale li risveglia: uomini e donne, guidati dal Prefetto, vengono ad annunciargli d’essere stato insignito della grande onorificenza del “Gran Cordone”, sicuro presagio di trionfo elettorale. Al colmo della festa, ecco un nuovo personaggio: il Pellerossa, messaggero di M.me Sofronia, tenutaria di una casa parigina non proprio di specchiata onestà.
Porta un fascio di lettere, indirizzate – oltre che al Principe – al Prefetto, al Guardasigilli, al Ministro degli Esteri e, naturalmente, al Presidente del Consiglio dei Ministri, oltre a un buon numero di titolati papaveri. Insomma, una “circolare” in piena regola, osserva Franz. I suddetti signori “clienti” sono tutti invitati, per sabato notte, a un numero assolutamente originale. E, in chiusura, Madame ammonisce che non sono tollerate assenze!
L’Atto secondo
si apre nel salone parigino di Madame Sofronia. La “festa a sorpresa” in realtà
è stata organizzata dalle femministe, con l’intento di raccogliere fondi per
finanziare la campagna elettorale… a spese dei polli.
Vi troviamo un certo numero di ‘cavalieri’ (affiancati da
donne compiacenti), bisognosi di qualche tirata di oppio per stordirsi un po’ più
di quanto lo siano abitualmente.
Ma ecco, alla chetichella, arrivare alcune nostre conoscenze. Ma sì, sono loro: le quattro mogli-padrone dell’inizio; Eleonora, naturalmente, con l’immancabile appendice del segretario Pevedan. Il quale, peraltro, non fa che restare impalato in fondo alla sala (come un figurante di balletto), simbolo vivente del maschio latino.
Al Salone di Madame
Sofronia:
giunge il
signor Presidente
(signore ‘di molto riguardo’!)
giunge il
Guardasigilli,
giunge il signor Prefetto…
|
Giungono i quattro mariti che, a vedere Sofronia, rabbrividiscono. Ma presto ciascuno si rassicura: no, non è quell’arpia di mia moglie!
Rivelano a Sofronia che non vedono l’ora di cogliere le
mogli in flagrante e farle deportare (come nella nota scena della Manon pucciniana!). Finora non le hanno
mai tradite – dicono; ma ora muoiono dalla voglia di farlo. Per l’appunto –
dice Sofronia; qui ne avrete ampia facoltà!
Naturalmente le odiate consorti sono lì, dietro una
tenda. Tra giochi di luce, si mostrano e non si mostrano, tanto che gli uomini
si devono convincere di soffrire di allucinazioni e, in conclusione, il
Prefetto, arrivato nel frattempo con gli altri invitati, ne ordina le
reclusione in manicomio.
Il momento fatale è giunto. Il coro delle donne dà inizio al
Valzer dei sette veli. Appare Aurora, avvolta dalla stupefatta ammirazione
degli uomini presenti. Riluttante, ma
rassegnata. La causa è la causa… E dunque sia! Comincia il rito: via il primo
velo (per la causa!), via il secondo velo, via il terzo… Al cadere d’ogni
pezzo, cresce il brusio d’ammirazione maschile. Cade anche il sesto… “Stop! Fermi
tutti!” grida il Principe Franz sopraffatto dal fascino. “Ecco qui un assegno
in bianco!”. Il settimo velo cadrà in esclusiva: quelle forme appena intraviste
solo lui potrà ammirarle senza veli! Le donne sono al colmo della felicità. Ma
Aurora è più imbarazzata che mai. Rimasta sola con Franz, deve riconoscere la
sua sconfitta: «No, pregiudizi no, non
son / le vecchie e sante verità! »
Franz dapprima pensa sia una tecnica di raffinata seduzione
per acuire il desiderio, ma poi deve rendersi conto che la donna è sincera, che
il suo imbarazzo è autentico. Sospetta un imbroglio, e vuol vederci chiaro.
Ottenuta la promessa del segreto, Aurora confessa: «Io sono in questa orrenda situazione critica…» / «Perché? Per qual ragione?» / «Per ragione politica!».
Segue rivelazione del nome – con divertito, reciproco
riconoscimento – e la saggia conclusione:
Il femminismo può
portar
a tali strane
situazion;
se la politica può
disunir
due candidati, può
unir
l’amor!
L’atto terzo si
apre, in una sala dell’Hotel di Noincy, con l’autopresentazione del Coro:
La lotta elettorale
costituisce il
nostro carnevale!
È la stagione lieta
nella quale
fiorisce la moneta!
Noi siamo i veri
alfier degli ideali,
noi siamo i galoppini elettorali!
E, via via ulteriormente specificando, giungono alla
naturale conclusione:
Le idee non
discutiamo!
Per chi ci dà di
più noi lavoriamo!
Giungono il Prefetto e il Presidente del Consiglio.
Giungono i mariti, che si prostrano davanti al Presidente per pregarlo d’una
grazia: essere rispediti in manicomio, da cui erano stati liberati, pur di
sfuggire alle grinfie delle mogli. Il Presidente reagisce seccato, vorrebbe
cacciarli via, ma non c’è verso. Ma basta l’annuncio dell’arrivo delle
signore mogli... e i mariti spariscono in un batter di ciglia.
Riappaiono Aurora e Franz. Confermano il reciproco amore
con un abbraccio e salutano gli elettori:
Ti salutiamo, caro
elettor!
Fuggiamo insiem!
Sconfitti siam!
Vinsero solo i
nostri cuor.
Viva l’amor, viva
l’amor!
Con grave costernazione e disapprovazione del Coro:
Della politica
reietti son.
Morte all’amor!
Morte all’amor!
Al pubblico – e a voi – la scelta tra le due contrapposte
posizioni di Viva e Morte!
La musica e il successo teatrale
Il libretto di Forzano, per
la massima parte in versi, considerato nel suo genere è un ottimo libretto: ben
costruito (anche se qua e là si eliminerebbe volentieri qualche lungaggine),
con una versificazione in genere ritmicamente corretta e scorrevole. E i
critici dell’epoca gli riconoscono non pochi meriti per la riuscita complessiva
dell’operetta.
E la musica?
Confesso. Di questa operetta io non ho sentito nemmeno
una nota. Ho bensì potuto dare una fuggevole occhiata, nel religioso silenzio della
Nazionale di Firenze, a qualche pagina dello spartito per canto e pianoforte. Insufficiente,
in ogni caso, ad autorizzare una valutazione complessiva in chiave personale.
Né, d’altra parte, ho le doti (e l’ardire!) che consentirono a Montale di
scrivere (sul mai ascoltato Mameli)
una recensione che, a suo dire, ebbe l’entusiastica approvazione dell’autore.
Non mi resta che affidarmi agli spettatori e ai critici che assistettero
alla prima (presentata contemporaneamente a Roma e a Torino la sera del 6
febbraio 1915).
Gli spettatori
– che sono, non dimentichiamolo, i destinatari privilegiati di ogni lavoro
teatrale – non ebbero dubbi: le accoglienze furono, in entrambi i teatri, “calorosissime”. A Roma, dove erano presenti i due autori, addirittura trionfali.
I critici, come
spesso accade, sono meno concordi.
Molto lusinghiera la recensione di Mario Corsi sulla
«Tribuna», che nel lavoro del duo Forzano/Leoncavallo vede l’avvio di
un’operetta italiana, finalmente
affrancata dal predominio del lamentoso modello viennese, una “musica
piacevole, facile e fresca”. Apprezza i numerosi spunti parodistici del
compositore, non solo nell’«Inno femminista», dove l’allusione all’«Inno dei
lavoratori» era pressoché inevitabile per il musicista non meno che per il
librettista. Corsi rileva anche spassosi accenni parodistici alla marcia trionfale dell’Aida (nel finale dell’atto I) e alla
musica russa (Canzone del principe russo, poco dopo l’inizio dell’atto II).
«Limpida e ispirata la vena del maestro sgorga nel
“valzer dei sette veli”» (tema assai languido e voluttuoso, seguito da una
seconda parte brillante).
Più sfumata – o, meglio, contrastata – la recensione dell’anonimo
critico della «Stampa» di Torino.
Parte con una sconsolata dichiarazione di resa: «il
pubblico rise, mostrò di divertirsi, applaudì. La critica è disarmata. In
un’operetta, pubblico che ride, vittoria completa». Eppure… Eppure il critico
non vuole darsi per vinto. Sì, è vero… insomma il pubblico si è divertito… Ha
mostrato di apprezzare la musica di Leoncavallo «per la spontaneità, per ciò
che è in essa di facilmente afferrabile, per la sincerità con cui essa è
scritta, per qualche spunto melodico veramente bello, per l’arte indiscutibile
del compositore nel saper bene comporre e quadrare la scena» E il critico, invece?
Sì, per dire la verità anche il critico ha riso, si è divertito, ma solo qua e
là, solo un poco; certo, la musica è anche «briosetta e talora persino soffusa
di un certo piacevole umorismo»… Ah! Ma allora, cos’è che non va? Be’, c’è che
si tratta di “forme note”…. Insomma: “ Che ci ha detto il Leoncavallo che non
sapessimo?”
Il fatto è che il pubblico (e soprattutto il pubblico
dell’operetta) va a teatro non necessariamente per imparare cose nuove! Ci va anche
per divertirsi; e se tale
divertimento non scade nella volgarità, se non va a scapito del buon gusto
estetico, che cosa c’è di male? L’eleganza mozartiana, la profondità
beethoveniana si situano a ben altro livello, ci mancherebbe. Ma la vita ha
bisogno anche di momenti più rilassati. «La musica corre. Corre l’azione»…
Appunto! E questo, in certi casi, può bastare.
Antifemminismo?
Le nostre gonne
come bandiere /solleveremo!
E a quella vista
ognun si deve
curvar!
(Inno femminista)
|
Eh be’, sì, certo – direte; ma però… È che qui ci si burla di nobili ideali…
Eh via! La satira di Forzano (Leoncavallo si limita ad
assecondarla), questa satira all’acqua di rose, può offendere, forse, le frange
del femminismo estremo americano, misandre
più che femministe, non certo le donne che orgogliosamente si battono per la
parità dei diritti. Semmai il libretto di Forzano lascia perplessi sotto un
altro punto di vista, quello più squisitamente politico della democrazia e dei
diritti dei lavoratori. Certo, ad uccidere
l’inno al sol dell’avvenire non è
stata la parodia di Forzano e Leoncavallo, come mostrava di credere Mario Corsi.
Quell’inno è stato cantato con fede e passione fino a qualche decennio fa. Ad
ucciderlo, almeno per ora, è stata la svolta politica seguìta al crollo del
muro di Berlino, proprio in prossimità di quel fatidico 1990 in cui Forzano
ambienta la sua rivoluzione femminista. Più insidiosa, invece, la messa in
burletta degli ideali democratici, evidente nell’«inno dei galoppini»; il quale,
agli occhi di perfezionisti e antidemocratici di varia origine e natura, trova
facile conferma negli immancabili esempi di corruzione!
Del
resto, per tornare alle presunte offese al femminismo, da che mondo e mondo la
“guerra” tra i sessi è soggetto di burla, proprio perché insensata, stante l’insopprimibile
complementarità di uomo e donna.
Basterebbe ricordare il vecchio Aristofane (vecchio di duemilaquattrocento anni!).
Chi ha qualche conoscenza di letteratura greca avrà sentito parlare di commedie
come Le ecclesiazuse (cioè le “donne riunite
in assemblea”, col nobile intento di sostituire l’insoddisfacente governo degli
uomini): grande soddisfazione generale all’inizio, ma poi alle prese con i
problemi sorti dalla concreta applicazione del comunismo integrale, ispirato a un
principio di esatta equità; problemi particolarmente spinosi e inestricabili
nella difficilissima gestione della condivisione dei maschi e del diritto di prelazione
sancito dalla legge a favore di brutte e vecchie! O l’indimenticabile Lisistrata, dove la serietà e nobiltà dell’assunto
(costringere gli uomini a porre fine all’interminabile Guerra del Peloponneso)
non impediscono gli esilaranti espedienti per aggirare lo sciopero dell’amore (contro i mariti guerrafondai) da parte di
congiurate incapaci di resistere alla prolungata privazione di quello che amano
non meno dei loro uomini!
E poi, diciamo la verità: in questa commedia ad essere
messe in burletta non sono soltanto le donne. Le quali, anzi, ne risultano in
certo qual modo giustificate (la legittima difesa è riconosciuta dalla legge!). Ditemi voi come altro potrebbero reagire donne
che avessero a compagni di vita uomini come i mariti dell’ottetto, maschi che
avessero a modello ideale il desessuato Pevedan!
Ciò che è messo giustamente in ridicolo è la pretesa di esorcizzare attitudini e sentimenti che fanno parte della natura umana e di ogni sana compagine sociale. Per cui – oggi più che mai! – vale la pena ripetere con l’eroina:
No, pregiudizi no,
non son
le vecchie e sante
verità!
Pregiudizio non è
la mia fierezza,
il mio candor, la
mia onestà!
Né lo è l’amore, quello vero!
Se voi non siete d’accordo, allora fate bene a lapidarmi. Ma… – ricordate – solo chi è senza peccato!
Appendice
Inno femminista
Guerra guerra, sterminio
sterminio,
Contro chi ci contende il terren!
Orsù compagne,
orsù care sorelle,
marciam, marciam, marciamo
in fitta schiera.
Venite! Sotto
la nostra bandiera
risplende il solleone
dell’avvenir.
Il gran riscatto,
riscatto della gonna
sarà l’opra di donna
di donna, di donna!
O noi vivrem
vivrem da padrone
oppur faremo l’uomo
con arte crepar!
Sì, sì, crepar!
Le nostre gonne,
come bandiere,
sventoleremo
ai rai del sole!
Come bandiere
solleveremo!
E a quella vista
ognun si deve curvar!
Su fate largo
passan le donne,
non più strumento
di vili ebbrezze!
Non più profumi
non più carezze
ma con la tessera
e la scheda
in man!
E senza ambagi
pensiamo ai suffragi
L’ostracismo! L’ostracismo
agli avversari
del femminismo!
Curvi contriti
tutti i mariti
a terra giù!
Guerra guerra, vittoria vittoria!
Guerra guerra, furore furor!
Riconoscimenti
Le immagini sono tratte da fotogrammi di French Cancan di Jean Renoir (1954), opportunamente scelti e ritagliati per adattarli a commento umoristico dell'argomento.