Premessa
La tragica fine di questa meravigliosa donna della tarda
antichità – da Caetani assunta a protagonista della propria “azione drammatica”
– ha offerto irresistibile esca a chi ha pensato bene di gettare discredito sul
cristianesimo, in particolare nella sua versione cattolica. Hanno cominciato
gli anticlericali di varia origine e natura. Ma in anni a noi più vicini, i
mangiapreti sono stati ampiamente surclassati dall’irrompere sulla scena di
esponenti dell’estremismo femminista, che l’insigne filosofa alessandrina si
sono indebitamente appropriati, trasformandola nella propria portabandiera.
Poco importa che si tratti, non di rado, di persone senza nessuna preparazione
filologica. C’è un tale che – in base a competenze e documenti che ignoro –
scrive, sulla studiosa alessandrina, un articolo zeppo di ‘informazioni’
mirabolanti, e lo intitola Il folle
martirio di Ipazia torturata e bruciata viva! Mi ricorda una collega di
storia e filosofia che, esponendo la fine del Savonarola, fuorviata da santo
sdegno contro gli assassini del frate domenicano, affermò che era stato
“ucciso, impiccato e bruciato vivo”! (La frase fu registrata dai suoi alunni,
che poi per lungo tempo ne risero benevolmente con lei, che peraltro era brava
e benvoluta).
Le affermazioni più oltranziste, spesso prive di
fondamento, sono poi assunte come verità incontestabili, e come tali più o meno
innocentemente ripetute, da tante brave persone digiune di conoscenza
dell’antichità ma forti di incrollabile fede nei loro feticci ideologici.
Il tentativo di rettificare le numerose distorsioni
apparse di recente richiederebbe, dunque, volumi. Più saggio, in questa sede,
limitarsi, come già nel primo post (la
studiosa alessandrina), a una “onesta lettura delle fonti”. È qui la radice
di ogni discorso serio sull’argomento. Sennonché, pur alleggerito e
sintetizzato al massimo, anche questo lavoro richiederebbe analisi filologiche
indigeste ai più. E allora facciamo così:
Esporrò per prima
la versione che a me sembra più prossima alla verità dei fatti. Poi, per chi
vorrà, farò seguire una sorta di appendice d’approfondimento, con una breve
discussione delle altre.
Circostanze e
responsabilità della morte di Ipazia. La versione di Socrate.
Il Socrate di cui qui si parla non è – ovviamente – il
noto filosofo maestro di Platone e martire della ricerca filosofica. È
una personalità più modesta, e tuttavia importantissima per la ricostruzione
della storia della sua epoca.
Vissuto, all’incirca, dal 380 al 450, è autore di una Storia
ecclesiastica dal 305 al 439. È uno storico serio e accurato. Laico, con
qualche simpatia per correnti e personalità cristiane poco ortodosse, dà prova
di sostanziale imparzialità. Ricordo, inoltre, che è l’unico, tra le nostre
fonti (a parte il frammentario Filostorgio), ad essere contemporaneo ai fatti.
E a disporre di testimonianze di prima mano. Viveva, infatti, a Costantinopoli
dove, per ordine imperiale, fu avviato il relativo processo, destinato a finire
insabbiato. Da storico qual era (e da avvocato di professione!) è difficile che
non abbia sentito di persona le parti, giunte nella capitale per perorare la
causa davanti alla corte.
Estraneo a trattazioni filosofiche, Socrate racconta la
morte di Ipazia per illustrare il quadro del conflitto di potere, nella città
di Alessandria, tra l’autorità politica, rappresentata dal prefetto Oreste, e
quella religiosa, impersonata dal focoso vescovo Cirillo, sullo sfondo dei
conflitti etnici e religiosi che affliggevano la società alessandrina del tempo
(secondo decennio del V sec.).
Diamo un riassunto dei relativi capitoli per poi
riportare in traduzione quello specificamente dedicato al nostro argomento.
Il popolo alessandrino – dice – è forse il più litigioso
del mondo. Basta, a scatenare risse furiose, il tifo per i mimi (una sorta di
danzatori-attori).
Così un sabato gli ebrei, liberi dal lavoro, accorsero
numerosissimi ad uno spettacolo di pantomimi per applaudire il loro divo, e la
festa degenerò in rissa. Il prefetto represse prontamente i disordini, ma
nell’animo degli ebrei restò vivo il rancore verso gli avversari, individuati
nei cristiani.
Qualche tempo dopo, Oreste celebra in teatro una festa.
Sono presenti ebrei e cristiani, specialmente i partigiani di Cirillo,
interessati a spiare ogni gesto del prefetto. Tra di loro si distingue un
maestro elementare, un certo Gerace, fanatico seguace del vescovo, noto per
essere sempre il primo a innescare gli applausi a ogni suo discorso. Gli ebrei
cominciano a inveire contro di lui, accusandolo d’essere venuto a teatro solo
per provocare. Oreste, che detesta l’arroganza e le ingerenze del patriarca, lo
fa prendere e frustare. Cirillo convoca i caporioni degli ebrei e li ammonisce
a non provocare altri disordini contro i cristiani.
Poco tempo dopo, il silenzio notturno di vari quartieri è
squarciato da urli: la chiesa di Alessandro è in fiamme. I cristiani accorrono
per spegnere. È una trappola: i congiurati ebrei fanno strage degli
ignari volenterosi. Il giorno dopo la verità viene a galla. Cirillo, seguito da
gran numero di cristiani, attacca le sinagoghe ed espelle dalla città gli
ebrei, confiscandone gli averi. Oreste ne è angustiato, e, sentendosi
impotente, denuncia la cosa all’imperatore. Così fa anche Cirillo, peraltro
costretto dal popolo a chiedere l’amicizia di Oreste. Ma il prefetto rifiuta
ostinatamente ogni tentativo di riconciliazione. E in molti si chiedono le
ragioni di tanta ostinazione.
Nel frattempo scende in campo un gruppo di monaci del
monte Nitria, animati da un fanatismo ottuso. Un’orda di circa cinquecento di
questi invasati lascia i conventi e scende in città. Bloccano il prefetto per
la strada accusandolo di essere pagano, sordi alle proteste dell’interessato
che si dichiara cristiano, battezzato a Costantinopoli. Un tale, di nome
Ammonio, dà inizio alla sassaiola colpendo il prefetto alla testa.
L’incredibile impudenza e audacia di questo criminale si spiega, forse, con la
fiducia nel numero dei suoi compagni. Infatti le guardie del corpo fuggono
terrorizzate. È il popolo che salva il prefetto. Questo brav’uomo,
evidentemente inadeguato al compito di governatore, ha almeno il merito
d’essersi saputo conciliare l’amore del suo popolo, che coraggiosamente
interviene contro gli scalmanati salvandolo e catturando l’attentatore. Ammonio
viene bastonato e messo a morte. Cirillo lo fa seppellire sotto falso nome e
venerare come martire. L’odio verso il prefetto (evidentemente da parte di
cristiani fanatici) si approfondisce, coinvolgendo quelli che, a torto o a
ragione, sono sospettati d’essere suoi sostenitori e magari consiglieri.
«C’era in
Alessandria una donna, di nome Ipazia. Era figlia del filosofo Teone, e si era
spinta tanto avanti negli studi da primeggiare tra i filosofi del tempo, così
che fu lei a raccogliere la successione nella scuola platonica derivata
da Plotino ed esponeva tutti gli insegnamenti filosofici a quelli che
volevano seguirla. Perciò quelli che intendevano praticare la filosofia
accorrevano a lei da ogni luogo. A causa della straordinaria libertà di parola
riconosciutale in grazia della sua cultura, frequentava con semplicità anche i
potenti, e non mostrava alcun imbarazzo a trovarsi in mezzo agli uomini; tutti,
infatti, conoscendone l’irreprensibilità di costumi, ne avevano un sacro
rispetto. E allora il livore si armò contro di lei. Poiché, infatti,
s’incontrava con Oreste piuttosto spesso, questo fatto suscitò contro di lei
nella massa dei fedeli la calunnia che fosse proprio lei a dissuadere Oreste
dal trovare un accordo amichevole col vescovo. E appunto uomini dalla testa
calda, guidati da un tale di nome Pietro, lettore, messisi d’accordo, le
tendono un agguato mentre rientrava a casa, e, tiratala giù dal carro, la
trascinano alla chiesa detta Cesareo e, spogliatala, la uccisero con frammenti
di terracotta. E, fattala a pezzi, ne portarono le membra in un luogo chiamato
Cinaro e le distrussero col fuoco. Questo fatto apportò non poca infamia a
Cirillo e alla chiesa alessandrina: uccisioni, risse e simili sono, infatti,
assolutamente estranee a chi medita gli insegnamenti di Cristo. E queste cose
accaddero nel quarto anno dell’episcopato di Cirillo, decimo consolato di
Onorio, sesto di Teodosio [= 415 d.C.], nel mese di marzo, durante la Quaresima».
Questi sono i fatti così come sono narrati dall’unica
fonte contemporanea giunta integra fino a noi. Fonte quanto mai attendibile. «Pur
commettendo gravi errori e non comprendendo talora le questioni dottrinali»
scrive di Socrate S. L. Greenslade, «egli è generalmente giudizioso e diretto,
semplice nello stile, interessante per la sua prospettiva laica». E, almeno per
quanto riguarda la fine di Ipazia, dimostra, a mio parere, un raro equilibrio.
È facile vedere che, mentre non tace delle
ingerenze del vescovo alessandrino in ambiti di pertinenza del potere civile
(ma forse tali ingerenze non facevano che colmare vuoti aperti dall’incapacità
del prefetto a mantenere la pace sociale), gli addossa grosse responsabilità
per il clima di tensione nel quale quell’omicidio matura, e perciò fa ricadere
anche su di lui – riconosciuto capo spirituale – l’infamia riversatasi sulla
chiesa alessandrina. Ma implicitamente lo scagiona da responsabilità dirette.
L’assassinio di Ipazia viene correttamente attribuito al fideismo cieco di una
massa di cristiani convinti che fosse lei l’ostacolo alla desiderata
riconciliazione del potere civile con quello religioso. Vittime, a loro volta,
quegli assassini, del fanatismo di un’orda di monaci brutali ed ignoranti (ché uccisioni, risse e simili sono assolutamente
estranee a chi medita gli insegnamenti di Cristo!). Più limpido di così…
Eppure già nell’antichità nacquero e si diffusero altre
spiegazioni. Ed era certo inevitabile, dato il clima infuocato di quei giorni.
Ma, esaminate oggi, rivelano, a mio avviso, la loro scarsa attendibilità.
Biblioteca d’Alessandria
(ricostruzione
ideale di una sala).
Qui era contenuto
tutto il sapere
dell’antichità greco-latina.
|
Approfondimenti (per chi non
s’accontenta!)
1. Osservazioni sulla traduzione
a)
«così che fu lei a
raccogliere la successione nella scuola platonica derivata da Plotino»
Scrive
Socrate:
hōs tḕn de Platōnikḕn apò Plōtìnou katagoménēn
diatribḕn diadéxasthai (ὡς (…) τὴν δὲ Πλατωνικὴν από Πλωτίνου καταγομένην διατριβὴν διαδέξασθαι). Cioè: assunse lei
la funzione di scolarca, di caposcuola, di guida della scuola filosofica
platonica derivata da Plotino. In altri termini: grazie all’altissimo prestigio
di cui godeva, fu riconosciuto proprio a lei il ruolo di capo tra i cultori di
filosofia accomunati dalla condivisione del neoplatonismo. Ho riportato il
testo greco per dar modo, a chi lo conosce, di sincerarsi di cosa dice
l’autore, perché di questa espressione càpita di leggere interpretazioni…
diciamo piuttosto curiose.
b)
«E allora il
livore si armò contro di lei»
La
parola greca phthònos
(φθόνος), generalmente tradotta con “invidia” ha, come il corrispondente lat. invidia, un
significato più ampio (“malanimo”, “astio”, “ostilità”, “rancore” e sim.). Qual
è l’esatto significato che assume nel nostro testo? “Invidia”, si dirà; per le
frequentazioni altolocate. All’origine dell’assassinio ci sarebbe, dunque,
l’invidia per la sua posizione sociale privilegiata. Può essere. Ma a me sembra
che Socrate spieghi chiaramente (gàr – it. “infatti” – è una congiunzione
dichiarativa, che annuncia una speigazione) che i sentimenti suscitati dalle
frequentazioni di Ipazia sono d’ostilità generata non da invidia, ma dalla
convinzione che sia proprio lei, pagana, ad alimentare l’ostinazione del
prefetto contro il vescovo.
c) «la
uccisero con frammenti di terracotta»
La
parola gr. òstrakon,
usata da Socrate, designa propriamente ogni oggetto di terracotta, da tegole a mattoni, a
vasellame integro, a cocci... (Ricordate l’ostracismo, detto così perché i
votanti segnavano su “schede” costituite da cocci di riuso il nome
dell’infelice candidato all’esilio!). Può significare anche conchiglie, ma qui
mi sembra francamente fuori luogo. Restano comunque poco chiare le precise modalità della morte. Il confronto col testo di Giovanni di Nicio
(v. sotto) mi fa pensare che la povera donna sia stata finita col lancio di
schegge di tegole, mattoni o altro (che nelle vicinanze ci fosse una discarica?), usati come ciottoli per lapidarla; forse
– per colmo di crudeltà – mentre l’infelice cercava una qualche via di scampo dalla folla inferocita.
2. SUDA
Il
compilatore del lessico Suda (fine del X
sec.) alla voce “Ipazia” si limita a riassumere acriticamente quanto leggeva in
due autori: Esichio (prime 12 righe) e Damascio (le 60 restanti).
2a. Esichio (storico pagano morto verso il
530: scrive, dunque, circa un secolo dopo i fatti):
«Fu fatta a pezzi
dagli Alessandrini: il suo corpo fu oltraggiato e disperso per tutta la città.
Soffrì questo a causa dell’invidia e della sua superiore cultura, soprattutto
in fatto di astronomia. Secondo alcuni, per responsabilità di Cirillo, secondo
altri per la sfrontatezza e la faziosità degli Alessandrini».
Come
si vede, di contro alla razionale, precisa ricostruzione di Socrate, qui
abbiamo un mucchietto di ipotesi sconclusionate, da quella piuttosto puerile
dell’invidia, a quella della diretta responsabilità di Cirillo, a quella del
carattere fazioso degli Alessandrini. Esichio sembra propendere per
quest’ultimaotesi (da Socrate relegata sullo sfondo), ripudiando così le
altre. Tant’è vero che si affretta ad aggiungere, quasi a riprova, che simile
sorte era toccata anche ad altri. E conclude: «Ciò che dovette subire Ipazia è
la dimostrazione del carattere litigioso degli Alessandrini».
2b. Damascio (filosofo neoplatonico, ultimo
scolarca del neoplatonismo ateniese, fino alla chiusura della scuola
(Accademia) da parte di Giustiniano nel 529):
Damascio
parlava incidentalmente d’Ipazia nella sua Vita d’Isidoro
(il filosofo neoplatonico che Esichio aveva appioppato a Ipazia come “marito”,
forse tratto in inganno dalla condivisione, tra i due, di niente più che
simpatie per il neoplatonismo.
È
lui l’autore del quadretto riportato nel post precedente e che qui riprendo:
«Ora un giorno avvenne
che Cirillo, a capo della setta religiosa avversaria, passando accanto alla
casa di Ipazia, vide davanti alla porta una gran ressa confusa di uomini e di
cavalli: alcuni si avvicinavano, altri si allontanavano, altri sostavano. E
avendo chiesto che cosa fosse quell’assembramento e a che si riferisse tutto
quel chiasso davanti alla casa, gli fu risposto dai seguaci che quella era
l’abitazione della filosofa Ipazia, e che quella gente era lì appunto per
salutarla».
E
continua:
«Venuto a sapere
questo, il suo animo ne fu morso a tal punto che ben presto ordì il suo
assassinio, il più sacrilego degli assassinii. Essendo lei uscita secondo il
suo solito, l’assalirono in gruppo compatto molti uomini brutali, e, veramente
abominevoli (né della vista degli dèi tennero conto alcuno, né della vendetta
degli uomini), uccisero la filosofa, marchiando la loro patria dell’infamia di
questo efferato delitto».
Prosegue
accennando al processo penale, avviato per ordine imperiale, e finito poi
insabbiato per corruzione. (Come vedete, in caso di delitti con risvolti politici
non è che nel V sec. le cose andassero molto meglio di oggi!).
E
veniamo a qualche considerazione critica, cominciando da un paio di problemi
interpretativi.
a) «il suo animo ne fu morso»
Il testo greco scrive dechthḕnai tḕn psychḕn (δεχθῆναι τὴν ψχὴν): proriamente “ne fu morso nell’animo”, cioè “se ne sentì ferito
nell’animo”. Che la “ferita” fosse dovuta
all’invidia è interpretazione arbitraria, e – mi pare – alquanto volgare. Più
probabile che faccia riferimento allo sgomento, e allo sdegno, di un uomo di
chiesa nel constatare di persona (lui che a quel poco che sopravviveva dell'antico paganesimo aveva dichiarato guerra senza quartiere!) di quanto
prestigio e affetto fosse circondata quella ‘abominevole’ pagana.
b)
«essendo lei uscita»
La parola greca corrispondente (proelthoùsē) è
participio aoristo di proérchomai. Il
significato proprio di questo verbo è “venire avanti”, “farsi avanti”. Unito a hōs eiōthòs
(“come d’abitudine”, “secondo il solito”) farebbe pensare che l’autore voglia
dire: “uscita e fattasi avanti secondo il suo solito”… Questa interpretazione
ci fa vedere Ipazia nell’atto abituale di uscire e inoltrarsi in mezzo alla
folla di ammiratori per scambiare con loro qualche parola, per ricambiare il
saluto e l’affetto… Bellissima immagine, che mi tenta molto. E il fatto di
venire uccisa proprio mentre con quel gesto esprimeva tutta la sua umanità e
amabilità, orribile nella realtà, sarebbe, come finzione poetica, immagine
degna di un grande tragico. Ma altrettanto onestamente bisogna riconoscere
l’assoluta inverosimiglianza di tale interpretazione. Sembra arduo pensare che
lì per lì, su due piedi, i seguaci di Cirillo possano avere osato massacrare
Ipazia senza restare vittime, a loro volta, della rabbia degli ammiratori della
filosofa. Del resto, a smentire un’ipotesi tanto bella quanto stravagante, c’è
la ben altrimenti circostanziata ricostruzione di Socrate.
Quello
che non si può mettere in dubbio è certo il fatto che, a detta dello storico,
l’assassinio vada ascritto, come mandante, proprio a Cirillo. Come si spiega
tutto ciò?
Bisogna
sapere che Damascio contro i cristiani aveva, non senza ragione, il dente
avvelenato. Su loro istanza, infatti, nel 529 l’imperatore Giustiniano aveva
ordinato la chiusura dell’Accademia, la Scuola fondata da Platone, che – sia
pure con un oscuramento di alcuni secoli (mancano notizie sicure della sua
attività nei primi tre secoli della nostra era) – era riuscita a sopravvivere
per ben novecento anni! Dell’Accademia era in quel momento capo riconosciuto proprio
il nostro Damascio, che ne fu tanto addolorato (e giustamente sdegnato) che per
qualche anno andò via da Costantinopoli.
Questo
sciagurato evento spiegherebbe, a mio parere, se non l’invenzione da parte di
Damascio della diretta responsabilità di Cirillo, quanto meno la prontezza ad
accogliere come vera una versione già esistente ma ispirata da
analoghi sentimenti di ostilità contro i cristiani.
Quello
che non si può mettere in dubbio è certo il fatto che, a detta dello storico,
l’assassinio vada ascritto, come mandante, proprio a Cirillo. Come si spiega
tutto ciò?
Bisogna
sapere che Damascio contro i cristiani aveva, non senza ragione, il dente
avvelenato. Su loro istanza, infatti, nel 529 l’imperatore Giustiniano aveva
ordinato la chiusura dell’Accademia, la Scuola fondata da Platone, che – sia
pure con un oscuramento di alcuni secoli (mancano notizie sicure della sua
attività nei primi tre secoli della nostra era) – era riuscita a sopravvivere
per ben novecento anni! Dell’Accademia era in quel momento capo riconosciuto proprio
il nostro Damascio, che ne fu tanto addolorato (e giustamente sdegnato) che per
qualche anno andò via da Costantinopoli.
Questo
sciagurato evento spiegherebbe, a mio parere, se non l’invenzione da parte di
Damascio della diretta responsabilità di Cirillo, quanto meno la prontezza ad
accogliere come vera una versione già esistente ma ispirata, comunque, da
analoghi sentimenti di ostilità contro i cristiani.
3. Filostorgio
La
malevola versione di Damascio concorda, in buona sostanza, con quella
tramandata da Filostorgio. Più o meno contemporaneo di Ipazia e di Socrate (e
come quest’ultimo, vissuto a Costantinopoli), scrisse una Storia della Chiesa,
andata perduta salvo frammenti conservati in vari autori e un riassunto,
arricchito da estratti, tramandato da Fozio (metà del IX sec.). Già per Fozio, patriarca
controverso, ma di indiscutibile cultura e acutezza
critica, Filostorgio non gode di alcuna credibilità. La sua Storia, più che
altro, è un “elogio degli eretici” – scrive – “nuda accusa e riprensione
dei seguaci della retta dottrina”. Soprattutto più in questo caso, aggiungerei: Filostorgio, infatti, è apertamente
schierato sul fronte ariano, una dottrina che Cirillo combatté aspramente per tutta la vita.
4. Giovanni di Nicio
Narrazione
abbastanza articolata è quella che possiamo leggere nella Cronaca di Giovanni di Nicio, in
Egitto, composta qualche decennio dopo l’invasione araba (dunque nella II metà
del VII sec.) in greco e, parte, in copto; giuntaci in una traduzione etiopica piuttosto sgrammaticata, condotta, a sua volta, su una traduzione
araba, non priva di errori e fraintendimenti, e anch’essa perduta.
Io, a mia volta, traduco da una vecchia traduzione francese (di Hermann
Zotenberg), sperando che, al termine di tutte queste traversie, del pensiero
dell’autore resti almeno l’essenziale.
Giovanni
(che il Signore l’abbia in gloria) è un pio vescovo monofisita. Per lui tutti gli imperatori e funzionari che hanno favorito il
cristianesimo sono “santi” (a cominciare dal beato San Costantino imperatore!)
o almeno “amici di Dio” (come l’imperatore Teodosio), e comunque “di felice
memoria”. Quelli favorevoli al paganesimo (o a correnti “eretiche”) sono
ispirati da Satana.
Anche
Ipazia, filosofa esperta di « magia, astrologia e musica », soggiace
al suo potere, e con gli artifici di Satana “seduce molte persone”. Giovanni
colloca correttamente la sua morte sullo sfondo di contrasti etnico-religiosi, in particolare tra ebrei,
presuntuosi e arroganti, e cristiani, vittime della loro prepotenza. Cirillo è
irritato con Oreste, succubo della seduzione di Ipazia, per la sua presunta
connivenza con gli ebrei, e, più ancora, per l’uccisione del “venerabile
monaco” Ammonio (quello della micidiale sassata contro il prefetto!). Dopo il
massacro di cristiani attratti con l’inganno del falso incendio, «la folla dei fedeli
del Signore, sotto la guida del magistrato Pietro, perfetto servitore di
Gesù Cristo, si mise alla ricerca di questa donna pagana che, con le sue arti
magiche aveva sedotto molte persone della città e il prefetto. Scoperto il
luogo dove si trovava, al loro arrivo i fedeli la trovarono seduta in cattedra
(assise en chaire). La fecero scendere
e la trascinarono alla chiesa chiamata Cesaria. Questo accadeva durante la Quaresima.
Spogliatala, la fecero uscire e la trascinarono per le vie della città, fino a
farla morire, e la portarono in un luogo chiamato Cinaro dove bruciarono il suo
corpo. Tutto il popolo circondava il patriarca Cirillo e lo chiamava il nuovo
Teofilo, perché aveva liberato la città degli ultimi resti dell’idolatria».
È
facile notare concordanze e discordanze rispetto a Socrate. In ogni caso, alla
guida della squadraccia troviamo il solito Pietro, da “lettore” promosso a “magistrato”. Da nessuna parte, nel corso del capitolo si
dice che l’ordine fosse partito da Cirillo. L’ultimo periodo sembrerebbe
testimoniare la partecipazione del vescovo all’uccisione o, quantomeno, alla
cremazione. Credo sia un’interpretazione errata (oltretutto, se Cirillo fosse
stato presente, energico e autoritario com’era, avrebbe assunto personalmente
la guida delle operazioni, senza lasciarne la “gloria” all’oscuro lettore).
Stranamente, però, nel sommario del capitolo riportato nell’Indice (non sempre
tali sommari concordano con l’effettivo contenuto) Cirillo viene esplicitamente
individuato come mandante. È dunque probabile che Giovanni abbia
creduto alla versione sfavorevole a Cirillo; tanto più che per lui l’eliminazione di quella che gli appare come l’ultimo baluardo del
paganesimo non sembra costituire un problema morale.
5. Giovanni Malala (VI sec.)
Nella
sua Chronographia
accenna alla morte di Ipazia con un’espressione che parrebbe chiamare in causa
Cirillo. Circa quel tempo – scrive – gli Alessandrini, «avutane licenza dal
vescovo [insomma: ottenutane la connivenza], bruciarono con
legna la celebre filosofa Ipazia». Ma come storico Giovanni Malala (parola
siriaca che significa “retore”) non merita molto credito. “Poco critico,
confuso e spesso puerile” lo definisce Arnaldo Momigliano. Che faccia
confusione (probabilmente a causa di una lettura delle fonti molto frettolosa)
lo rivela già solo il passo appena citato. A parte che altro è bruciare una
persona e altro bruciarne il cadavere, che significa “con legna”? Viene da
chiedere: e con cosa volevi che la bruciassero? (La benzina non era ancora in
uso!). La spiegazione, probabilmente, si può trovare partendo da una nota di
Zotenberg. Nel descrivere la situazione alessandrina al tempo di Cirillo, il
buon vescovo ricorda che quei bravi fedeli «ripieni di santo
zelo, radunarono una grande quantità di legna e bruciarono il covo dei filosofi
pagani» (La biblioteca annessa al tempio di Serapide? La grande Biblioteca
annessa al Museo? O addirittura il Museo nel suo complesso?). A questo punto
Zotenberg si chiede se ci sia relazione tra questo passo e la frase di Malala.
Con tutta la cautela del caso (non sono uno specialista), io azzarderei una
risposta positiva. Evidentemente i due autori attingono alla stessa fonte, solo
che Malala fa una gran confusione.
Torniamo al
melodramma di Caetani
Bene. Questo è il quadro dei fatti storici che Roffredo Caetani
ha assunto come materia della propria opera d’arte; opera di poesia (è suo il
libretto) e, più ancora, capolavoro musicale. Ne parleremo, finalmente, a
partire dal prossimo post.
Riconoscimenti:
1. l'originale del mosaico dei filosofi è nel Museo nazionale di Napoli;
2. la foto della Biblioteca alessandrina è presa dal sito danielemancini-archeologia;
3. del ritratto da El Fayyum non conosco la posizione.