sabato, aprile 19, 2025

Perosi, Passione di Cristo, P. III - Invito all'ascolto



A. Ciseri, Trasporto di Cristo al sepolcro

All'oratorio La Passione di Cristo, di Lorenzo Perosi, avevo dedicato un post l'anno scorso, proponendo un'analitica guida all'ascolto delle prime due Parti (“La Cena del Signore” e “L’orazione al Monte”) che si erano concluse con l'arresto di Gesù (v. Passione).  

Dedico questo nuovo post alla terza e ultima parte. Premetto che in questo “Invito”, l’analisi sarà programmaticamente meno minuziosa di quella condotta nel post precedente. Per amore di brevità, farò di tutto per resistere al fascino della musica perosiana, limitandomi a qualche annotazione sui passi e gli aspetti più salienti. Ma entriamo subito in argomento.

Nella Parte III Perosi, omessi i versetti dedicati al duplice processo (davanti al Sinedrio, e davanti a Pilato) si concentra – come dice il titolo – su “La morte del Redentore” (testo: Mc XV 25-37).

Anche questa Parte si apre con un breve preludio strumentale, impostato sulla tonalità di fa diesis minore.

Il motivo iniziale si snoda lento, procedendo penoso verso il basso a piccoli tratti, di semitono in semitono; poi, con un’increspatura che riudremo varie volte, tenta sommessamente di levarsi verso l’alto, per ricadere bruscamente sulla dominante, con un salto di due toni e mezzo. È un motivo doloroso, di cui vedremo la funzione al momento culminante della tragedia – poco prima della catastrofe – che qui, all’inizio dell’episodio, è misteriosamente annunciato.

Da questo nasce un secondo motivo, più fluido ma non meno malinconico, imperniato su una figura ritmica (sei biscrome – tre ascendenti e tre discendenti – precedute e seguite da crome) che conosciamo dal preludio alla Parte I, dove lo avevo genericamente definito “motivo flessuoso, facilmente orecchiabile” (come, peraltro, è anche qui). L’uno e l’altro ci verranno ripresentati a varie tonalità, e affidati in imitazione a vari strumenti (violoncelli, corni, oboi, fagotti…) – secondo quel procedimento che i musicisti chiamano “fugato” – per ridursi, alla fine, a due solitari rintocchi della tonica raddoppiata.

***

L’orchestra annuncia la nuova tonalità (re maggiore) ed ecco risuonare la voce del “I storico” (del primo narratore) affidata a un baritono.

«Erat autem hora tertia et crucifixerunt eum, et erat titulus causae eius incriptus: Rex Judaeorum. Et cum eo cricifigunt duos latrones, unum a dextris et alium a sinistris eius. Et impleta est Scriptura quae dicit: Et cum iniquis reputatus est»

"Era la terza ora del giorno, e lo crocifissero, e vi era scritto il capo d’imputazione: Re dei Giudei. E insieme con lui crocifiggono due ladroni, uno alla sua destra e uno alla sinistra. E si è realizzata la Scrittura, che dice: E fu annoverato tra i delinquenti”.

Il canto del narratore procede piano, in tono quasi recitativo, con qua e là qualche increspatura melodica, o innalzamento di tono nei momenti di maggiore tensione. Un po' particolare, più tesa, la recitazione del cenno alla realizzazione di un passo della Bibbia. Con un ulteriore rallentamento del tempo in corrispondenza della citazione scritturale, dilatazione intesa a sottolineare la malinconica considerazione sul giusto per eccellenza assegnato alla categoria dei delinquenti! (Et cum iniquis reputatus est).

«Et praetereuntes – riprende il narratore alzando il tono di voce e vivacizzando il ritmo – blasphemabant eum, moventes capita sua et dicentes...»

E i passanti lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo...”

L’improvvisa, tumultuosa entrata del coro dei passanti (curiosi e patiti delle esecuzioni capitali non mancano mai!), con il martellante accavallarsi e stridere delle voci derisorie e blasfeme, fa ricordare la prima impressione di Dante sulla soglia dell’Inferno: «Diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira, / voci alte e fioche / e suon di man con elle»... La bestemmia  – si diceva una volta – è la lingua dell’inferno.

Eccoli lì, a scuotere il capo sghignazzanti, irridendo a quello sciocco tanto matto da proclamarsi re dei Giudei e da proferire ridicole spacconate...

«Vah, vah! Qui destruis templum Dei et in tribus diebus reaedificas: 

“Ha-hà! Tu che distruggi il tempio di Dio, ha-hà!, e in tre giorni lo ricostruisci”  

Ed ecco la sfida di una massa di sprovveduti che, nella loro beata ignoranza, credono di aver trovato la prova inoppugnabile che la pretesa superiorità di quel tizio osannato come maestro e profeta è una ridicola impostura: 

«Salvum fac temetipsum descendens de cruce 

Salva te stesso, scendendo dalla croce!”

E con quanta orgogliosa soddisfazione ripetono la loro sfida: descendens de cruce, descendens de cruce!

   ***

Cessata la caotica gazzarra dei passanti, ecco avanzare sul proscenio un altro gruppo: i sommi sacerdoti (gli ex, accanto a quello in carica) in spassosa conversazione con gli scribi (i dotti, o, più precisamente, gli esperti della Legge: è una festa per tutti questa crocifissione!) 

«Similiter et summi sacerdotes, illudentes ad alterutrum com scribis, dicebant».

«Allo stesso modo anche i sommi sacerdoti, facendosi beffe gli uni con gli altri con gli scribi, dicevano»

“Allo stesso modo” – dice il testo. Ma Perosi sembra pensarla diversamente. Al contrario dei chiassosi popolani di passaggio, scribi e sommi sacerdoti non scadono nella volgarità di confusi schiamazzi. Si presentano composti: avanzano dignitosi, austeri, alteri, conforme all’alto senso che hanno di sé e della loro condizione sociale: sentite il loro tranquillo, concorde incedere in ¾, su una tessitura quasi sempre omoritmica. Cominciano con quella che sembra una malinconica considerazione, ispirata ad umana compassione: 

«Alios salvos fecit, seipsum non potest salvum facere; Christus, rex Israel» 

Eh, “ha salvato altri, e non può salvare sé stesso;  il Messia, il Re d’Israele”

(il tono di scherno si fa manifesto!). 

Naturalmente sulla presunta impotenza del condannato concordano col volgo, ma la loro non è una sfida; è un invito, fatto con un nobile intento: 

«Descendat nunc de cruce, ut videamus et credamus» 

“Discenda ora dalla croce, così che possiamo vedere, e credergli”

E vogliono proprio convincerci che il loro intento è questo, e solo questo. Lo ripetono varie volte questo videamus. Tanto che, in una pausa del canto, è l’orchestra a dargli una mano ripetendone la melodia. Ma ascoltate il tono con cui il musicista glielo fa intonare e ripetere. A me sembra di ascoltare l’intervento di un onesto fruttarolo di Trastevere che, difronte a un problema politico da far tremar le vene e i polsi, offre, con piena convinzione, la sua semplicissima, geniale soluzione: “E cche ce vo’? Se fa così e così, e er problema è risorto!”. Descendat nunc de cruce ut videamus... E gli crederemo. Ovvio, no? E il bello è che l’orchestra sembra avallare, concludendo con un rotondo accordo di do maggiore. Tre volte, a breve distanza, ripete questo rassicurante accordo. Vero è che dopo la terza volta la tonalità s’incrina, s’incupisce, per ridare la parola al narratore, che si appresta ad aggiungere un particolare, connotandolo di orrore e incredulità:

 «Et qui cum eo crucifixi erant conviciabantur ei» 

“Anche quelli che erano stati crocifissi con lui, lo insultavano”

Persino loro! E notate, nel canto, l’indispettita ripetizione del verbo che, soprattutto nell’originale greco (onéidizon), implica anche scherno.

 ***

Ma, d’improvviso, lo scenario cambia. La tonalità scivola verso il fa maggiore; vengono in primo piano, sia pure in modalità “pianissimo”, i tromboni; i tempi si fanno quanto mai dilatati: “larghissimo” prescrive Perosi in partitura, assegnando  a questa sezione il titolo “Le tenebre”.

Al robusto baritono subentra, nel ruolo di “storico”, un cavernoso “basso profondo”. La narrazione si fa frammentata: 

«Et facta hora sexta» (“E fattosi mezzogiorno”); breve intervento orchestrale; tenebrae factae sunt (“si fece buio); nuova interruzione strumentale; 

«per totam terram, usque in horam nonam» 

“su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio”

Segue un breve intervento degli archi. Poi tono e volume della voce dello storico s’innalzano: «Et hora nona...» Una fulminea volata dei violini verso note acutissime dà il via all’intervento degli ottoni, che squillano in fortissimo e in tempo sincopato, con note sforzate... Qualcosa di particolarmente grave sta per accadere. Ed ecco, infatti, sul ribollire concitato dei violini, lo storico annunciare: 

«exclamavit Jesus voce magna» 

“Gesù esclamò a gran voce” 

Ed eccole, dopo un breve passsaggio orchestale, ecco le parole di Gesù:

«Eloì, Eloì, lammà sabactani?»

Quattro parole, le uniche che Gesù pronunci in questa Parte III; le estreme da Lui pronunciate in vita. Non le comprendiamo (sono in aramaico, la lingua natìa del protagonista), ma le note, la melodia... Ma sì, questa è la melodia con cui si apre il Preludio; è quel motivo doloroso, che si sviluppava penosamente per intervalli cromatici contigui, qui trasportato alla tonalità di re minore. Con quel suo procedere penoso, reso ancora più evidente dall’inserimento delle due pause (due sospiri?), con quel suo vano tentativo di innalzarsi concluso con un tonfo. Siamo giunti al culmine della tragedia, ed è ora chiara la ragione del suo inconfondibile carattere. Eppure, quello che segue, la traduzione, musicalmente è ancora più intenso. Ascoltiamola dalla voce del narratore:  

«Deus meus, Deus meus  ut quid dereliquisti me? Ut quid dereliquisti me?» 

“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” – domanda

E di nuovo:

"Perché mi hai abbandonato?"

insiste, su una melodia molto simile ma concludendo su una nota mezzo tono, appena mezzo tono, più alta, dando alla domanda il tono di un’estrema implorazione.

Quale abisso di desolazione, quale abisso di umana, rassegnata desolazione si spalanca davanti ai nostri occhi! E notate: a suscitare questa più profonda emozione non è – o non è solo – il fatto che adesso capiamo le parole. È la musica, principalmente la melodia, che fa questo effetto. Rispetto  all’intonazione della frase originale la sequenza delle note è cambiata: meno dolorosa, forse; ma certo più desolata. 

Ma anche l’implorazione rimane senza risposta. Il cielo resta muto. La solitudine dell’Uomo è totale. E senza rimedio.

***

Per virtù del genio musicale di Tortona risuona, in quella domanda inevasa, riscattato, sublimato dalla bellezza del canto, il disperato bisogno di spiegazione dell’uomo precipitato in una immeritata sventura. Perché? Perché questo? Perché proprio a me, a me, che non ho fatto nulla di male? Perché a questo bambino incapace di peccare, innocente per definizione? E nessuno risponde. Nessuno può rispondere. Se non, forse, chi trova la risposta nella fede.

Naturalmente don Lorenzo – pur avendo conosciuto e conoscendo periodicamente angosciosi momenti di crisi depressive – aveva fede. E, oltretutto, non gli sfuggiva – credo – che Gesù – in quanto Figlio di Dio – sa benissimo che Dio non lo ha abbandonato: sta solo esigendo il prezzo della salvezza degli uomini. Ma questo è l’abissale mistero di una Persona simultaneamente vero Dio e vero uomo. E su quella croce Cristo ci era salito rivestito di una spoglia umanità. Ché come Dio – insegnava il vecchio Catechismo – non poteva né soffrire né morire.

Probabilmente il compositore si rese conto della difficoltà teologica che la sua interpretazione poteva sollevare. E forse proprio per questo affretta l’orchestra a concludere, via pochi accordi di passaggio, su un luminoso, lunghissimo accordo di fa maggiore; smagliante preannuncio dell’immancabile resurrezione.   

***

Che questo passo sia il culmine che riassume in sé la sostanza sentimentale dell’intero oratorio sembra confermato dallo stesso musicista. Chi ha ascoltato attentamente Il Natale del Redentore – composto quattro anni dopo questo – avrà riconosciuto nelle note che aprono questa Parte terza (e che dànno sostanza musicale alla desolata esclamazione del Protagonista) un motivo che fa una fugace, decontestualizzata apparizione in quell’oratorio. Come ho spiegato a suo luogo (v. Il Natale), si trattava di un’autocitazione: l’Autore lo aveva inserito – riprendendolo da questo suo precedente lavoro – al colmo della corale, fiduciosa aspettazione della nascita del Messia, preannunciata dai profeti, per ricordare, a quegli uomini giustamente in festa, l’atroce corrispettivo della redenzione.

***

Quasi a contrasto del sublime pathos appena raggiunto, segue il curioso equivoco di alcuni degli astanti (forestieri?) che, ingannati dall’assonanza, scambiano l’invocazione a Dio (Eloì) per invocazione al celebre profeta Elìa. 

Storico I :  Et quidam de circumstantibus audientes dicebant:

"E alcuni di quelli che stavano lì intorno sentendolo dicevano"

CoroEcce Eliam vocat.

"Ecco, chiama Elìa"

Storico ICurrens autem unus, et implens spongiam aceto, circumponensque calamo, potum dabat ei dicens:

"E uno corse a inzuppare d'aceto una spugna, e mettendola in cima a una canna gli dava da bere dicendo:"

Un tenore: Sinite, videamus si veniat Elias ad deponendum eum.

"Lasciate, vediamo se viene Elia a tirarlo giù".

Queste parole, attribuite al personaggio della spugna, sembrano incongrue. Forse fu un altro a invitare il primo a lasciar perdere. Ma non è il caso, qui, di dibattere simili problemi interpretativi, affatto secondari. E lasciamo da parte l’insistente vigliaccheria dei loro scherni – pur nobilitati dalla bellezza dell’interpretazione musicale perosiana - e veniamo direttamente alla catastrofe, che dà il titolo all’episodio: la morte del Redentore.

In veste di narratore entra di nuovo in scena il "II storico": la voce tenebrosa del “basso profondo”.

«Jesus autem, emissa voce magna» 

“Ma Gesù, emesso un grido”

Così comincia lo “storico”. Ma, fatto riecheggiare ben quattro volte quel “voce magna” – prima salendo poi ridiscendendo di tono – sospende, per un attimo, l’annuncio funesto. Riempie la pausa un breve, luttuoso intervento dei tromboni, in pianissimo. Poi, fattosi silenzio, lo “storico”, in squallida solitudine, pronuncia, lenta e scandita, appoggiandola a due sole note in discesa, quasi al limite inferiore del registro – la-la-sol-sol – la parola.

 Expiravit 

Intervengono di nuovo gli ottoni, per tentare di dare una sterzata al pezzo concludendolo con un poco allegro do maggiore.

***

Ho voluto sottolineare la solitudine del narratore, al momento di pronunciare la tragica parola finale, perché mi sembra un procedimento caratteristico dell’Autore; quello che i critici di professione chiamerebbero uno “stilema”. Lo aveva già usato nel secondo episodio (“L’orazione al Monte degli Olivi”): là il narratore racconta di Gesù che, lasciati in disparte i tre apostoli che aveva portati con sé, e allontanatosi un poco, procidit (“si prosternò”, o “cadde”)… A questo punto il musicista fa tacere gli strumenti e fa pronunciare il seguito (super terram: “a terra”) al solo “storico”, per far risaltare icasticamente la solitudine fisica e psicologia del Protagonista. A me pare che anche qui questo procedimento abbia lo stesso scopo: sottolineare la totale solitudine dell’Eroe nel momento cruciale della morte.

***

La tragedia è compiuta. Segue – a commento – il compianto del coro (tratto dalla liturgia del Sabato santo): 

«Plange, plange quasi virgo, plebs mea 

“Piangi, piangi come una ragazzina, popolo mio".

 «Ululate, pastores, in cinere et cilicio» 

“Gridate, pastori, cosparsi di cenere e cinti di cilicio”.  

«Quia venit dies Domini, magna et amara valde» 

“Perché è venuto il giorno del Signore, giorno grande, e veramente amaro! 

È uno splendido canto corale, accompagnato e integrato da un magistrale commento strumentale. 

Buon ascolto! E buona Pasqua!

Sabato santo 2025