Roffredo Caetani nel 1958
(da
Radiocorriere)
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Nel post precedente (qui) ho dato conto della prima weimariana
e del giudizio dei contemporanei, riferendo ampiamente sulle recensioni di due
critici tedeschi: Max Marschalk e Leopold Schmidt.
Che cosa può aggiungere un outsider come me, né critico
né musicista, della musica niente più che un semplice cultore o amatore? Che, oltretutto,
non ha avuto accesso alla partitura e ha potuto ascoltarla solo dalla
registrazione della RAI messa generosamente in rete dall’ottimo baritono Allan
Rizzetti?
Chi desidera un’analisi tecnica può rivolgersi a studi
come il breve saggio di Piero Mioli (in Roffredo
Caetani. Un musicista aristocratico) o aspettare l’uscita della monografia
sul nostro autore promessa dallo studioso olandese Paul Op de Coul.
Io, come al solito, mi pongo dal punto di vista del
semplice fruitore (del fruitore,
beninteso, non del consumatore, ché non è musica da consumo, questa!). Mi
limito a dare testimonianza (quasi a modo di appunti, senza preoccupazione di
organicità e completezza) di reazioni ed emozioni suscitate dall’opera d’arte
in questione in un fruitore
– se non m’illudo – non sprovveduto.
– se non m’illudo – non sprovveduto.
Ascoltiamola, dunque, assieme. Potete farlo sintonizzandovi
sul canale youtube del M. Rizzetti (www.youtube.com/watch?v=umnQtdFncm4)
– al quale torno a esprimere la mia gratitudine – che mette in rete la versione
trasmessa dalla Rai (terzo programma) domenica 19 gennaio
1958. Avverto che, rispetto al testo da me analizzato e riassunto, la versione
Rai risulta scorciata, secondo quanto segnalerò all’occasione.
Atto I, scenario 1 [00:00 – 13:30]
Il breve preludio orchestrale, che albeggia fosco e
chiuso, si snoda lento. A onde successive tenta di salire, spinto dall’urgere
del dramma incombente, per ricadere e riprendersi; flauto ed archi si
intrecciano fino sfociare nel predominio indiscusso dei violini e aprirsi, poi,
nella limpida voce dell’oboe, ripresa da quella più vellutata del flauto:
breve, bellissimo motivo che guida alla voce possente e trepidante di Cirillo
(basso), che apre il dramma. Poi l’orchestra segue e commenta i pensieri
inespressi del patriarca, improvvisamente rotti da un drammatico cambio di tono che guida all’inquieta domanda “Costei
chi è?” del vescovo, allarmato dall’apparire di Eudocia (mezzosoprano). Il dialogo, o meglio il monologo del patriarca, dominato dall’ira
per l’ostilità del Prefetto, si avvia in modo tempestoso, punteggiato dalla percussione dei timpani.
E notate come l’atmosfera cambi, poco dopo, quando
Cirillo guida la donna al parapetto e le indica una “nitida casa di stile
attico” (“Vedi laggiù quel picciol bosco
e quella / casa che neve sembra / pel suo candor…”). Quella nitida casetta
“di stile attico” (cioè semplice e puro), immersa in “quel picciol bosco”, candida come la neve, è lo specchio dell’anima
di chi l’abita, di Hypatia. Tale la sente, nel suo intimo, Cirillo; tale la
sente, almeno, il musicista, che immerge la prima parte del colloquio in
un’atmosfera di tenerezza che addolcisce persino la voce del burbero patriarca.
Fino a quando non viene improvvisamente inasprita dall’allusione al nefasto
ruolo che la studiosa eserciterebbe sull’animo di Oreste. Qui i suoni
dell’orchestra s’ingorgano in un groviglio dissonante (come avverrà abbastanza
spesso, nel corso dell’opera, a sottolineare i momenti più drammatici, di più
aspro conflitto tra i personaggi, o anche soltanto nel segreto dell’anima di
uno solo di essi, come a volte è il caso di Eudocia o di Oreste). Il discorso si fa sempre più teso e drammatico, con frequente ricorso alla sottolineatura delle percussioni. Il massimo della concitazione si ha quando Cirillo accenna all’ipotesi
che Ipazia rifiuti di collaborare. Un’idea che egli non può sopportare.
Frastuono di timpani, rafforzato da ottoni e dall’intera orchestra, accompagna
e commenta l’evocazione dell’ira del popolo cristiano, assimilata alla tempesta
del deserto.
E si
noti come, poco dopo (“Sì, tosto! M’odi
ben!”), la sottolineatura dei timpani e il clangore degli ottoni, con
predominio dei tromboni, siano impiegati a enfatizzare l’autorità e il
carattere irremovibile di Cirillo. Tanto che ben naturale appare lo spavento
della povera Izèbel (soprano): “Oh,
quello sguardo… come mi atterrisce…”
Atto I, scenario 2
(e Inno alla bellezza) [13:30 – 34:25]
Il predominio dei legni, ritmato dagli archi, commenta
l’apertura della scena sul giardino dell’abitazione della protagonista, quasi a
sottolinearne il carattere idillico. Ad esso sembrano adeguarsi anche gli archi. Solo per un attimo. Presto il canto dei violini muta in un grido disperato – presago
della tragedia imminente su quella “nitida” casetta – che
guida alle tristi considerazioni di Ercoliano e Teone (bassi) sulla tragica
situazione di Roma.
Ma abbandoniamo anche noi questi “miseri tempi” per
passare all’introduzione della protagonista, che col suo solo apparire tronca,
appunto, quelle tristi considerazioni.
La figura d’Hypatia (soprano) è, al suo entrare in scena [15:57]),
strettamente congiunta all’idea dei fiori. Le sue prime parole – dopo il saluto
– riguardano i fiori, ed è questo il motivo poetico dominante. E l’orchestra si
adegua con interventi evocativi più che onomatopeici. Già quando la
protagonista invita i fanciulli a raccogliere altri fiori, sentiamo un
gorgheggio primaverile del flauto, doppiato dai violini. La battuta di Ercoliano (“Vedo che ami sempre i fiori”) dà a Hypatia
l’occasione a una prima appassionata effusione lirica nell’accostare i fiori ai
fanciulli (e riudiamo il festoso gorgheggio primaverile), gli uni e gli altri
visti come espressione della “infinita
gioia / con cui ’l Supremo dio / ha infuso la sua vita nel creato”, e il canto raggiunge la massima tensione proprio
in corrispondenza delle parole “gioia”
e “Supremo”).
“Mai non ti sazia
l’adorar quel marmo?” chiede Oreste (tenore), dando così occasione a quella
prima, lunga espansione lirica della protagonista che mi è parso opportuno
denominare “Inno alla bellezza”
[18:16 – 22:22] (Puoi seguirne il testo qui).
L’incomprensione dell’unica persona che quella donna
straordinaria potrebbe forse riamare suscita, nella sua anima ipersensibile, un
moto di delusione e di tristezza. Ed è la voce triste del corno inglese che
suggerisce l’inespressa amarezza della protagonista, portandola al sospiro “Oh! Se tu almeno intender mi potessi!”,
seguendolo e rinforzandolo. E quando Oreste, proprio incapace di comprendere,
si mostra sbalordito dalla parola “delirio”,
con quanta crescente passione la povera eroina cerca disperatamente di farsi
capire (“da l’estasi ineffabile / che la
Bellezza / accende in chi ne ha l’anima compresa”), salendo di tono per culminare sulla parola “compresa”, con l’accento tonico esaltato
dall’intervento deciso del timpano.
La discrezione con cui Caetani ricorre all’onomatopea
risulta evidente soprattutto in questo pezzo che gliene porgerebbe ghiotte
occasioni: la cadenza / lenta del mar… /
il fremer misterioso de le foglie… / il gemito del vento, / e il canto degli
uccelli… Il fremito delle foglie e il gemito del vento sono discretamente
evocati dal tremolo degli archi. Il “canto degli uccelli” sembra salutato e
imitato dai giochi del flauto. Questi ultimi, però, più che funzione
descrittiva onomatopeica, sembrano averne una evocativa: evocano l’imminente,
miracolosa apparizione di Pan, raffigurato, nella mitologia, errabondo per i
campi, intento a suonare quel suo strumento formato da canne di differente
lunghezza che da lui prende il nome di “flauto di Pan”.
Pan ‘l’eterno’ col
suo ‘flauto’.
Qui, per la verità,
in un atteggiamento più consono alla maliziosa grazia settecentesca che al mito classico
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Il canto riprende teso e fremente, sostenuto dal fremere, dal ribollire dell'orchestra – quasi
(Incontriamo qui un primo taglio di 28 versi, per passare all’annuncio dell’arrivo di Izèbel; poi, dopo ancora una lacuna di 11 versi, l’ancella fa la sua ambasciata: “la mia signora / veder ti deve, e senza indugio”).
Molto espressiva la reazione d’Izèbel al nome di Oreste,
e la rivelazione dell’identità della sua padrona (in cui il Prefetto sospetta
un’assassina): sorpresa, sgomento, tenerezza e amarezza e supplica (“Oh, signor, non bestemmiar!”),
esitazione… e poi la terribile rivelazione
(“Ella è tua madre!”). E qui la reazione di Oreste è sottolineata, prima che dalle parole, dal nodo di laceranti dissonanze. Poi, nella pausa dell’attesa, è l’orchestra a suggerire il viluppo di contrastanti sentimenti di ansia e di tenerezza (sembra persino di udire un ritmo cullante) che confligge nell’animo del Prefetto.
(“Ella è tua madre!”). E qui la reazione di Oreste è sottolineata, prima che dalle parole, dal nodo di laceranti dissonanze. Poi, nella pausa dell’attesa, è l’orchestra a suggerire il viluppo di contrastanti sentimenti di ansia e di tenerezza (sembra persino di udire un ritmo cullante) che confligge nell’animo del Prefetto.
E, per finire, voci e orchestra collaborano alla
volgarità del coro di insulti reciproci tra elleni e galilei. (Particolarmente spassoso il dileggio dei galilei verso gli dei pagani: “Veh! Non turbate il sonno / con tanto
chiasso / ai vostri numi…”. Viene
in mente un passo dell’oratorio Elias
di Mendelssohn: Elia sfida i seguaci di Baal a invocare il loro dio, il quale, essendo
di pietra, ovviamente non risponde. “Chiamatelo più forte, chiamatelo più forte!” – insiste beffardo. “Forse sta dormendo!”).
E non possiamo non notare, all’uscita di Hypatia richiamata dal baccano, l’enfasi sarcastica posta da Oreste su Cirillo “buon pastore”.
Atto II, scenario 1 [34:26 – 51:18]
L’atto si apre con un breve, lento preludio orchestrale
dove più è notevole l’influsso wagneriano. Evidente, del resto – specialmente
nel trattamento orchestrale – anche nel seguito della scena, soprattutto
nell’attesa angosciosa della donna e poi nel drammatico colloquio con Pietro
(baritono). Probabilmente non è un caso che al critico del Berliner Tageblatt proprio la prima parte del secondo atto apparisse quella
“più felicemente ispirata”.
La drammaticità del colloquio tra Pietro ed Eudocia è
potentemente ritmata (già dalla risposta alla domanda di quest’ultima: “Che vuoi?”) da un imponente unisono dell’orchestra ad
ogni scambio di battuta, punteggiato da triplice percussione del timpano alla
controrisposta della donna, particolarmente impressionante nella coincidenza
con il risoluto “Mai!” del baritono,
seguito da un fosco, minaccioso frammento melodico dei violoncelli che guida
alla ripresa della voce: “Lei spenta”…
E poi, di fronte al disperato ottimismo di Eudocia, quell’incredulo “Sarà”, senza orchestra, quasi parlato…
Segue il penoso colloquio tra madre e figlio. Nelle
implorazioni a Oreste, Eudocia sconfina in esagerazioni di tenerezza (p. es., “Sol queste lacrime son de la madre tua…”). Ma è profondamente sincera nella disperazione:
in quelle battute che cominciano in recitativo secco (dopo una pausa di silenzio,
in cui evidentemente la madre pondera amaramente le sue amare parole): “Va’, Oreste! Va’ per la tua via…”. E poi,
in note lente, tenute, sottolineate dall’orchestra, l’augurio disperato: “Che Dio abbia pietà di te!” (con quella
nota dilatata su “pietà”, per cui “di te” pare venire dopo un singhiozzo;
con quella sillaba finale (“te”)
intonata su due note discendenti (che i cantanti di un tempo avrebbero
sottolineato con alti singhiozzi…). E
poi, in modo analogo, dopo l’ennesima supplica, il recitativo “Va’, non ti conosco più”, seguito dal
pianto disperato: “ Egli è perduto”.
Rimasta sola la donna, è la secca percussione, prima
ancora che la rabbiosa invocazione della vendetta divina, a esprimere l’irrevocabilità
della dolorosa decisione di collaborare alla rovina del figlio. Cui fa seguito la
drammatica concitazione del brevissimo colloquio con Izèbel restìa a dare il
segnale all’inizio della strage. E nel grido finale della sventurata (“Oh Dio! Ve’ come termina / Eudocia la sua
vita santa!”), indubbiamente sincero, è
la tragedia del fanatismo religioso candidamente spinto fino all’assassinio
dell’“infedele”.
Atto II, scenario 2 [51:19 – 1:05]
Troviamo qui, accanto a tagli minori, le sforbiciate più
estese. E anch’io, vista la lunghezza eccessiva ormai assunta da questo mio
“Invito”, mi limiterò a qualche osservazione episodica.
Dopo il festoso annuncio dell’arrivo di Hypatia (orchestra
e coro), e l’inarticolato, suggestivo coro dei bassi, si saltano
una quindicina di versi per approdare all’oasi lirica Spirto sublime; e poi, dopo un breve
intervento del coro, all’amara rievocazione di Un tempo qui fulgea. Notate, dopo “a noi lo vieta”, il rude intervento dell’orchestra
a esprimere quello che la didascalia indica come “movimento ne la folla”, a
indicare la rabbia e lo sdegno della massa dei fedeli al ricordo dell’iniquo
divieto imperiale di accostarsi alle rovine del già grandioso, veneratissimo
tempio. (Una sorta di “musica gestuale”, che un’analisi più minuziosa potrebbe
indicare anche in altri punti). Bello, in particolare, il lento fluire della
seconda parte (“Ma se l’ardir mi sprona”)
in cui la protagonista annuncia il motivo di quella pericolosa convocazione
notturna. Bellissima la limpida, incantevole apertura su “voglio” (è perché voglio),
cui segue quel suggestivo dilatarsi solenne e uniforme di canto e accompagnamento
orchestrale a commento delle parole “con
l’iniziarvi al sacro e arcano senso / del flusso della vita e della morte”,
sottolineando e facendo sensibilmente avvertire,
anche in vista del rito che s’inizia, il lento impercettibile fluire dei secoli
e dei millenni, attraverso il perenne rinascere della vita dalla morte. E poi
il doloroso intreccio di dissonanze che anticipa e accompagna il verso “per l’aspra guerra che ci fan, spietati!”.
Dopo il breve colloquio tra i due protagonisti, tra
l’idillico (Hypatia) e il drammatico (Oreste), la voce dell’araldo sacro
(basso) impone (con impressionante solennità!) il silenzio funzionale
al rito religioso. Ancora un taglio di una sessantina di versi (col sacrificio,
oltre che delle allucinazioni di Oreste perseguitato dall'immagine della madre, di tutta la scena del ritrovarsi delle anime e del loro
apprestarsi al nuovo ciclo vitale) e si giunge a una nuova, tesissima espansione lirica
della protagonista: Amor che
accese / in pria la dolce luce (luce
salutata da scintillanti squilli delle trombe con sordina): invocazione
fremente e accorata all’Amore divino perché le anime avviate a nuova prova
terrena voglia poi riaccogliere nel “celeste grembo”.
Ma le Parche hanno appena il tempo d’impartire l’ordine
alle anime, che il rito viene sconvolto dal reiterato grido di Izèbel “Hypatia, sàlvati!”.
Ferma si leva la voce d’Hypatia (ancora lei: credo che per l’interprete questa seconda parte dell’atto debba rappresentare un tour-de-force non indifferente!) a dar coraggio alla folla (“Non disperate”)
con la promessa che, a prezzo della sua vita, essi saranno tutti salvi, “pria che sorga il sole”. Un sole che col
suo sorgere annunzierà trionfalmente (notare, oltre al levarsi della melodia,
il trionfale intervento degli ottoni) il sacrificio dell’eroina e la salvezza “di quanti han fede in lei”.
Ma è solo un attimo. Dopo un breve, doloroso interludio
orchestrale, l’atto si chiude col pianto
desolato del coro femminile che annuncia la catastrofe di una civiltà più che
millenaria: “L’Ellade muore”.
Atto III [1:05 – 1:37]
Anche l’atto III mostra le ferite di forbici inesorabili:
quella più ampia (una sessantina di versi) viene dopo il fallace entusiasmo di
Hypatia (“Oresete ha vinto!”), cui si
fa seguire direttamente quello, ben diversamente fondato, di Pietro: “Dispersi gli Unni, la città è nostra!”).
Salvo pochi passi, prevalgono i toni drammatici, cui
viene data un’enfasi forse un po’ eccessiva, soprattutto nella parte
orchestrale. Ma nell’insieme tiene, e bene. Notevole il contrasto drammatico
tra Oreste e Cirillo. Un po’ fiacca, sul piano musicale, l’espressione di
dolore sdegno ed amarezza da parte di Oreste (“Latravano per fame queste jene / nel buio de la notte, / e ti
cercavano con le loro zanne… / e ti hanno lacerata!”). Più efficace la parte del patriarca, sinceramente
sbigottito e affranto da eventi tragicamente sfuggitigli di mano (“Ohimè! C’han fatto!... / Oh forsennati!”).
La sua protesta d’innocenza (“La morte di
costei, non l’ho voluta”), esteriormente
rivolta a Oreste, appare più come un tentativo di pacificare la sua coscienza
con un tardivo ravvedimento. E la sua offerta di pace sembra più che mai
sincera. E dopo il comprensibile, sdegnoso rifiuto di Oreste, quel rimettersi a
Dio (“Iddio giudicherà!”) viene pronunciato
col tono sincero di chi si rimette a Dio con speranza ma tutt’altro che sicuro del suo imperscrutabile giudizio. Perplessità che rispecchia quella più
esplicita della folla parzialmente rinsavita: “Signor, perdona a questi / ch’è morto [cioè a Pietro], e a noi, / se abbiam peccato verso / di te”.
Una menzione a parte merita il breve coro dei vincitori, immediatamente precedente. A tratti si ha l’impressione di trovarsi nel cuore di
San Pietro in Vaticano, in prossimità del baldacchino del Bernini, e di risalire con
lo sguardo – seguendo le solenni volute del canto – su per i colossali piloni e
assistere allo spalancarsi grandioso della cupola michelangiolesca…
Il canto estremo di Hypatia è introdotto dal pianto del
violino. Poi, dopo un primo smarrimento (“È giunta già la notte”) la vista delle stelle, già compagne di tante notti
di contemplazione e studio (non dimentichiamo che l’attività speculativa
di Hypatia era rivolta, accanto alla matematica, proprio all’astronomia), la
richiama ancora alla vita terrena. La sua voce si leva (sola, senza
accompagnamento strumentale) a quelle amiche d’un tempo (“No… vedo ancor… lì su…”). L’orchestra subentra qualche attimo dopo,
sostenendola discretamente con un sottofondo zampillante, evocatore,
al mio orecchio, dell’innumerevole brillìo del firmamento. Quel pulsare che
subito dopo diventerà concitato, drammatizzandosi, a evocare il pullulare degli
incendi; per cessare, poi, lasciando l’eroina di nuovo sola, a constatare,
desolatamente, “Mi han tutti abbandonata”.
No, forse non tutti. Quell’immagine del Cristo, là, sulla
facciata della chiesa, quegli occhi spalancati, stanno fissando proprio lei (il
sostegno orchestrale si fa quanto mai discreto, pur con qualche sommesso bagliore
della tromba con sordina: allusione al prolungarsi degli incendi?); piangono… Perché?
È per pietà di lei che piange, Lui, quel Cristo in nome del quale l’hanno uccisa? “È forse per pietà… di me… che piangi…?”,
con le sillabe “che piangi” intonate su note discendenti, secondo l'insegnamento dei madrigalisti.
L’ultimo coro (Oh, Signor, che cos’è l’uom) – quello di cui sul piano poetico
avrei fatto volentieri a meno – sul piano musicale è invece molto suggestivo,
con quei rintocchi funebri che lo annunciano, con quel ritmo lento e solenne (“i suoi
giorni son come l’ombra / che passa…”), con quelle voci che si dissolvono, come l’ombra che passa,
negli accordi bassi, profondi, dell’orchestra. La quale improvvisamente abbandona questi ultimi
per il luminoso accordo conclusivo, come se Caetani avesse voluto far
intravvedere – dal sacrificio d’Ipazia – il sorgere di un’alba nuova
Buon ascolto!