Tra le non molte iniziative culturali recenti degne di nota è
certamente la decisione di consacrare una giornata (25 marzo) alla
celebrazione annuale della “nostra maggior Musa”, di cui l’anno prossimo
ricorre il settimo centenario della morte. Purtroppo la celebrazione inaugurale
non parte sotto buoni auspici. Quest’anno, infatti, la data prescelta cade nel
bel mezzo dell’epidemia. Tuttavia, a
dispetto del coronavirus, voglio festeggiare a mio modo l’Alighieri
presentandovi un brano della sua opera.
Non è tratto dalla Divina Commedia
(a qualcuno potrebbe parere scontato o difficile!), bensì da un’opera relativamente minore, e per giunta incompiuta
(proprio per il sovrapporsi di un progetto ben altrimenti ampio e profondo – la
Divina Commedia – che finirà per
assorbire anche il progetto precedente). È tratto dal I libro del Convivio, ed è un passo in cui viene abbozzato il profilo del pusillanime. Lo so, è un vocabolo quasi scomparso
dalla lingua corrente. Eppure è molto espressivo, e le considerazioni svolte da
Dante più di sette secoli fa mi sembrano straordinariamente attuali. Non ci
credete? Vediamo.
Anzitutto, trattandosi di un vocabolo poco conosciuto, un
po’ di etimologia.
Deriva dal latino pusillanimis
(ma anche pusillanimus, da cui il
dantesco “pusillanimo”), composto di pusillus
e animus. L’aggettivo pusillus significa “piccino”,
“piccolino”, e, in accezione figurata, “ristretto”, “angusto”, “meschino”,
“gretto” e simili. Accostatelo ad animus
(“animo”, “anima”, “mente”, “sentimenti”…) e avrete il significato di
“pusillanime”.
Li malvagi uomini d’Italia
All’inizio del Convivio, Dante discute, con la sottigliezza di chi si era formato alla filosofia “scolastica” (quella di Tommaso d’Aquino, per intenderci), le ragioni che lo hanno spinto a scegliere, per il suo trattato, il volgare invece dell’usuale lingua latina. Tra le varie ragioni richiamate, due sembrano oggi più interessanti. La prima è di ordine, diciamo così, politico-morale, di democrazia: dare la possibilità di leggerlo – data la grande importanza dei temi trattati: amore e virtù – anche a chi non ha avuto la possibilità e l’agio di familiarizzare con la lingua latina. La seconda è di natura sentimentale: “lo naturale amore de la propria loquela”, cioè della propria lingua materna; “l’amore ch’io porto al mio volgare”. Un “amore perfettissimo”, il suo, che, come qualunque amore autentico, comporta anche la difesa della cosa amata contro i detrattori.
Ed eccoci al tema, affrontato nel cap. XI del I Trattato.
A perpetuale
infamia e depressione de li malvagi uomini d'Italia, che commendano [lodano] lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano, dico che la loro
mossa viene da cinque abominevoli cagioni [ragioni]. La prima è la cechitade di discrezione [mancanza di
discernimento, incapacità di formarsi una fondata opinione personale]; la seconda, maliziata escusazione
[scusa inventata ad arte per giustificare le proprie deficienze]; la terza, cupidità di vanagloria; la
quarta, argomento d'invidia; la quinta e ultima, viltà d'animo, cioè
pusillanimità.
Trascuriamo le prime quattro retadi [“reità”, cioè colpe] e soffermiamoci sull’ultima, anche se
la terza, la cupidigia di vanagloria, si accompagna, non di rado, a quella che
qui ci interessa maggiormente.
La quinta e ultima
setta [setta: “gruppo di persone associate da
un comune modo di pensare, per lo più acritico”] si muove da viltà d’animo. Sempre lo magnanimo si magnifica in suo
cuore, e così lo pusillanimo, per contrario, sempre si tiene meno che non
è. E perché magnificare e parvificare [contrario
di “magnificare”, dunque “rendere,
fare piccolo”] sempre hanno rispetto ad
alcuna cosa, per comparazione a la quale si fa lo magnanimo grande e lo
pusillanimo piccolo, avviene che ’l magnanimo sempre fa minori li altri che non
sono, e lo pusillanimo sempre maggiori.
E però che con quella misura che l’uomo misura sé medesimo, misura le
sue cose, che sono quasi parte di sé medesimo, avviene che al magnanimo le sue
cose sempre paiono migliori che non sono, e l’altrui men buone: lo pusillanimo
sempre le sue cose crede valere poco, e l’altrui assai. Onde molti per questa viltade dispregiano lo
proprio volgare, e l’altrui pregiano: e tutti questi cotali sono li abominevoli
cattivi [“vili”] d’Italia che hanno a
vile questo prezioso volgare, lo quale, s’è vile in alcuna [cosa], non è se non
in quanto elli suona ne la bocca meretrice di questi adulteri [tali in
quanto amano la lingua altrui trascurando la propria]; a lo cui condutto vanno [“alla
cui guida si affidano”] li ciechi de li quali ne la prima cagione feci
menzione.
Tale la situazione in Italia settecento e passa anni fa.
E oggi?
Ora, pensate al modo di esprimersi di tantissimi nostri
concittadini – specialmente quelli che si piccano di politica – nei programmi
televisivi, sui giornali, nei cosiddetti social, e persino nella comune
conversazione; pensate agli innumerevoli anglismi di cui infiorettano il loro
misero italiano, e chiedetevene le ragioni.
Se lasciamo
da parte il ricorso all’inglese per ragioni strumentali, truffaldine, a
imitazione del latinorum di don
Abbondio (su tale uso v. post sulla neolingua orwelliana), sono convinto che molti di voi richiameranno, al primo
posto, quella che Dante classifica come terza, la cupidità di vanagloria, la futile ricerca di “gloria” (o, meglio,
“gloriuzza”), la sciocca ostentazione di una presunta superiorità. E certo, almeno in parte, è così (e il
“richiamo del gregge”, poi, completa l’opera). Del resto, quanto la
“superiorità” di questi tali sia, appunto, presunta, molto spesso è evidente
già nelle storpiature o nelle forzature di pronunzia, e a volte dal significato
forzosamente attribuito alla parola straniera, non di rado improprio, o
addirittura inedito, rispetto a quello autentico della lingua originale.
Ma, in genere, questa cupidità
di vanagloria è espressione di un atteggiamento psicologico più profondo, e – ciò che
più conta – più pernicioso, che è appunto quella pusillanimità
di cui parla l’Alighieri. È più
pernicioso perché spesso questa disistima di sé e delle proprie cose travalica l’ambito
linguistico, per sfociare in una sorta di nazionalismo alla rovescia, di razzismo
(o autorazzismo) nazionale. Noi Italiani, secondo questi nostri connazionali,
siamo congenitamente inferiori,
segnatamente rispetto ai Tedeschi, ma anche rispetto a molti altri. Pensate:
una parte della nostra classe dirigente (alcuni sono ancora viventi e,
purtroppo, ancora attivi in politica) ha giustificato le progressive cessioni
di sovranità proprio in questo modo. Noi Italiani – dicevano (e dicono!) –
siamo incapaci di autogoverno (e dire che a governare c’erano proprio loro!) e
dunque, per evitare di far danni, abbiamo bisogno del vincolo esterno, abbiamo bisogno che altri – segnatamente Tedeschi
e Francesi – ci tengano a freno… Un’argomentazione, questa, alla quale bisognerebbe
rispondere – come si diceva in altri tempi – non con le parole ma “con le coltella!”. E perciò, lasciamo stare
il coltello, e tronchiamola qui. Non prima, però, di aver notato, ancora una
volta, l’attualità di Dante. Se in qualche cosa la lingua italiana è vile –
diceva – è proprio nel fatto di risuonare ne
la bocca meretrice di questi adulteri. Lo stesso accade oggi: se qualche
ragione si può trovare di una presunta inferiorità del popolo italiano rispetto
ad altri popoli, essa sta proprio in
questo: nel fatto di dover annoverare tra i propri concittadini questi
detrattori, questi signori che dalla inettitudine (o disonestà) propria argomentano
l’inettitudine (o disonestà) di un intero popolo.
La Madonna in trono
(La Maestà)
di Cimabue
chissà quante volte
ammirata da Dante in Santa Trinita
(“Il nome del bel
fior che sempre invoco / e mane e sera”…)
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Dante provinciale?
Prima di concludere vorrei prevenire un’eventuale
obiezione: l’accusa di provincialismo nei confronti di Dante.
Un’accusa del genere proverebbe solo l’ignoranza di chi
s’arrischiasse a muoverla. Tale non era, Dante, né sul piano politico né su
quello culturale e linguistico. Amava svisceratamente la sua ingrata Firenze,
ma amava l’Italia, tutta l’Italia, “giardino
de lo imperio”, da “Turbia” al “Carnaro / ch’Italia chiude e suoi termini
bagna” (tranquilli, amici francesi; state sereni, amici croati: non sto
facendo rivendicazioni territoriali, sto soltanto tracciando i confini
dell’Italia fisica come li conosceva Dante!); dalle Alpi a “quel corno d’Ausonia che s’imborga / di
Bari, di Gaeta e di Catona”, alla Sicilia, alla Sardegna… Politicamente disunita, ma spiritualmente una. Eppure, per
ragioni politico-religiose, ama e sostiene Arrigo VII di Lussemburgo nel suo generoso tentativo di restaurare, anche
in Italia, l’autorità imperiale. (Attenzione: Dante lo appoggia, con ogni
mezzo, non perché ritenesse inferiori gli Italiani, ma perché era convinto che
solo un monarca universale – di tutto padrone e di nulla bisognoso – potesse rimediare
agli egoismi individuali e particolari connaturati in tutti gli uomini!).
E tale non era sul piano linguistico e culturale: nella sua opera si mostra bene informato sulla situazione politica di tutti gli Stati d'Europa dell'epoca; studiò
e apprezzò tutte le parlate italiane con cui, direttamente o indirettamente, venne in contatto; conobbe sicuramente la
letteratura e probabilmente la lingua francese (langue d’oil); conobbe certamente la poesia e la lingua provenzale
(langue d’oc). Quest’ultima – oggi
ridotta al rango di dialetto! – conobbe talmente bene da far parlare nel suo
idioma, sul finire del XXVI del Purgatorio,
il più illustre campione del trobar clus
provenzale (trobar clus: “poetare
chiuso, volutamente difficile”): Tan
m’abellis vostre cortes deman, / qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire: /
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan”… (“Tanto mi piace la vostra cortese
domanda, che a voi né posso né voglio nascondermi: Io sono Arnaut, che piango e
vado cantando…”). Né fu seguace o promotore di un purismo rigido, alla maniera
del Puoti o dell’Arlìa. Ma le parole straniere usava, convenientemente
adattandole, quando lo riteneva necessario, per ragioni di proprietà semantica
o di convenienza estetica. Come, per limitarmi al primo esempio che mi viene in
mente, la parola preziosa “dolzore”
(adattamento del provenzale dolzor =
dolcezza) nel XXX del Paradiso: “Noi siamo usciti fore / del maggior corpo al
ciel ch’è pura luce: / luce intellettual piena d’amore, / amor di vero ben pien
di letizia, / letizia che trascende ogni dolzore”. E con questa splendida
progressione poetico-musicale che descrive l’Empireo – a millemila miglia dalle
beghe di “quest’aiuola che ci fa tanto
feroci” – vi saluto, dandovi appuntamento al prossimo post.
Uno scorcio del
Battistero di Firenze
“il suo bel San Giovanni”
rimpianto,
incessante anelito degli anni d’esilio.
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