Breve riflessione sul conflitto tra pubblico e critica, suggerita
da un episodio risalente al
tempo dell’inaugurazione del nuovo Teatro Regio di Torino (1973), egregiamente
gestita dal Maestro Fulvio Vernizzi.
Quello del conflitto
tra critica e pubblico è un problema vivo e ricorrente, specialmente in
ambito musicale. Presumere di poter
affrontare seriamente, nello spazio appropriato a un post, un tema di tale complessità sarebbe certo temerario. Ma non sarà considerata
presuntuosa – almeno spero – l’idea di proporre un modestissimo spunto di
riflessione, incentrato su un passo della Manon
Lescaut pucciniana ("Pazzo son…
Guardate"), e legato a un ricordo personale. Un episodio di molti anni fa,
in sé e per sé di scarsa o nessuna importanza, ma che per me, allora molto
giovane, fu significativo e non privo di qualche insegnamento. La
platea del Regio di Torino in una bella foto di Fabrizia Rovasenda (si noti la forma a conchiglia bivalve e l'originale illuminazione a bacchette pensili) |
Ebbi la ventura di assistere, nel lontano aprile 1973,
all’inaugurazione del nuovo Teatro Regio di Torino. Non proprio alla serata
inaugurale, sì alle opere liriche programmate per l’evento: I Vespri siciliani, Werther, Manon Lescaut.
Il Maestro Fulvio Vernizzi (part. della copertina del volume a lui dedicato da G. Satragni) |
Inaugurazione svoltasi tra mille difficoltà. Per fortuna
il Direttore artistico, il Maestro Fulvio
Vernizzi, in carica da meno di quattro mesi, si prodigò senza risparmio,
superandole tutte ottimamente (pensate:
dovette persino assumere su di sé, si può dire all’ultimo momento, la direzione
dei Vespri, in sostituzione del titolare
– il celeberrimo Vittorio Gui! – colto da grave malore durante una delle ultime
prove). Tra le tante iniziative, il solerte Maestro Vernizzi aveva messo in
programma anche una serie di conferenze propedeutiche alle tre opere. Fu
appunto in una di esse – se la memoria non m'inganna – che accadde il… fattaccio.
Eravamo nel Piccolo, una sala minore, ma comunque capace di quasi quattrocento posti a sedere.
Non mi pare fosse piena, ma per per la presentazione di un'opera (sia pure della notorietà della Manon Lescaut) il
pubblico era francamente numeroso. Il relatore aveva avuto l’accortezza di arricchire e vivacizzare il suo intervento
con la proposta di brani esemplificativi
preregistrati. Giunto all’illustrazione del III atto, ritenne opportuno
avanzare serie riserve sulla qualità artistica della notissima romanza conclusiva
(“No! pazzo son”), snobbando apertamente
la “bocca buona” dei pubblici di mezzo mondo. E, a conferma, avviò la riproduzione
del passo, ascoltato dal pubblico in religioso silenzio. Ma quando il povero
Des Grieux ebbe concluso la sua disperata implorazione rompendo in
irrefrenabili singhiozzi, tutta la sala esplose in un’ovazione strepitosa, come
nemmeno a un’esecuzione dal vivo. L’incauto critico, quando finalmente ebbe la
possibilità di riprendere la parola, dovette profondersi in miracoli di
equilibrismo, nel non facile tentativo di ripristinare un minimo d’intesa col proprio
uditorio.
Io ora, ad esser sincero, non ricordo esattamente né il
merito né le argomentazioni di quelle critiche. Col senno di poi, inclinerei a credere
che non fossero affatto infondate. C’è, in questa romanza, qualche tocco
un po’ troppo enfatico; c’è, nell’implorazione di Des Grieux, qualche accento
non propriamente virile, diciamo pure non particolarmente dignitoso (ma non
aveva già riconosciuto, lo sventurato ‘cavaliere’, che quella passione fatale
lo forzava a scendere “la scala dell’infamia”?); momenti negativi accentuati da
interpreti propensi a pigiare sul pedale del patetico, e a coronare il tutto
con l’immancabile salva di singhiozzi. Quanto più… realistica, questa, o – più
esattamente – virtuosistica, tanto
meno sopportabile! (E – per tornare un
attimo al punto di partenza – ricorderò che uno dei meriti precipui
dell’attività artistica del Maestro Vernizzi fu proprio quello di esigere dagli
interpreti la fedeltà all’autore, senza eccessive concessioni al virtuosismo
esibizionistico di certi cantanti).
il boccascena originale (ora modificato per ragioni acustiche) stondato sul modello degli schermi televisivi dell'epoca |
È anche vero, però, che la musica di Puccini, fin dall’apparire
del tema ai violoncelli (doppiati da clarinetto basso, fagotti e contrabbasso)
è così trascinante (oh, quella quarta ascendente su “Guardate”, che spinge
all’acme la teatralità della parola e della scena, così enfatica ma così
coinvolgente per chi non ha paura di… lasciarsi andare!), la musica di Puccini
– dicevo – è così travolgente da far dimenticare l’enfasi, e le giuste
convenienze borghesi, e la togata gravitas
romana. E il critico, giustamente severo nel riprovare l’arbitraria
amplificazione di interpreti troppo inclini a ‘titillare’, a solleticare “gli
orecchi di quelli che meno intendono che cosa sia cantare con affetto” (vedi post dell’undici agosto 2016), forse dovrebbe
per un attimo metter da parte anche lui la sua sapienza tecnica e la sua umana saggezza…
E nulla vieta di recuperarle appena svaniti gli effetti dell’incantesimo del
mago lucchese.